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Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania, Edizioni Rinascita, Roma, 1949 - Traduzione di Giovanni De Caria
Friedrich Engels: La guerra dei contadini in Germania – [Indice]
Capitolo I
Rifacciamoci, anzitutto, alla situazione della Germania al principio del secolo decimosesto.
Nei secoli decimoquarto e decimoquinto l’industria tedesca aveva preso uno slancio considerevole. Al posto dell’industria locale rurale del periodo feudale era subentrata l’attività industriale delle corporazioni cittadine, che produceva per zone più vaste e perfino per mercati lontani.
La tessitura di grossolane stoffe di lane e di tela era allora un’industria stabile e diffusa; e già ad Augusta si manifatturavano perfino tessuti fini di lana e di tela e seterie. Accanto alla tessitura si era sviluppata in modo particolare quell’industria artistica che trovava alimento nel lusso dei laici e degli ecclesiastici del basso Medioevo: l’industria degli orafi e degli argentieri, degli statuari e degli intagliatori, degli incisori su rame e su legno, degli armaioli, dei medaglisti, dei tornitori ecc. ecc. Allo sviluppo dell’industria aveva contribuito in modo essenziale una serie di invenzioni più meno importanti, il cui apogeo fu rappresentato da quelle della polvere da sparo e della stampa. Il commercio progrediva di pari passo con l’industria. L’Ansa[1] aveva assicurato, con il suo monopolio del mare, il risorgimento della Germania dalla barbarie medioevale, e se anche, dopo la fine del secolo decimoquinto, la Germania cominciò a soggiacere di fronte alla concorrenza degli inglesi e degli olandesi, pure, nonostante le scoperte di Vasco di Gama, la grande via commerciale dalle Indie al Nord continuava a passare per la Germania e Augusta rimaneva sempre il grande scalo per le seterie italiane, le spezie delle Indie e tutti i prodotti del Levante. Le città della Germania settentrionale, specialmente Augusta e Norimberga, erano il centro di una ricchezza e di un lusso considerevoli per quel tempo. Ma anche la produzione delle materie prime si era sviluppata in modo considerevole. Nel secolo decimoquinto i minatori tedeschi erano i più abili del mondo, e il fiorire delle città aveva tratto fuori dalla rozzezza del primo Medioevo anche l’agricoltura. Non solo, infatti, furono dissodate vaste estensioni di terreno, ma si coltivarono erbe tintorie e altre varietà importate, la cui coltura, che richiedeva particolari cure, ebbe un effetto favorevole sull’agricoltura in generale.
Tuttavia, lo sviluppo della produzione nazionale della Germania non aveva tenuto il passo con la produzione degli altri paesi. L’agricoltura era molto arretrata rispetto a quella inglese e olandese, arretrata l’industria rispetto a quella italiana, fiamminga e inglese, e sul mare gli inglesi e particolarmente gli olandesi cominciavano già ad eliminare i tedeschi. La popolazione rimaneva ancora molto disseminata.
In Germania la vita culturale esisteva solo qua e là, raggruppata intorno a singoli centri industriali e commerciali, e gli interessi di questi centri erano molto divergenti, e a stento qua e là avevano qualche punto di contatto. Il Sud aveva vie di traffico e mercati di sbocco assolutamente diversi da quelli del Nord, mentre l’Est e l’Ovest erano quasi tagliati fuori da ogni traffico. Nessuna singola città era poi in condizione di diventare il centro industriale e commerciale di tutto il paese, come per esempio era già Londra per l’Inghilterra. Tutte le comunicazioni interne si limitavano esclusivamente alla navigazione costiera e fluviale e a poche grandi vie di comunicazione commerciali, che portavano da Augusta e Norimberga ai Paesi Bassi passando per Colonia e, al Nord, passando per Erfurt. Lontano dai fiumi e dalle strade commerciali c’era un certo numero di città minori, che. escluse dalle grandi vie di traffico, continuavano indisturbate a vegetare nelle condizioni di vita del tardo Medioevo, consumando poche merci importate e poco producendo per l’esportazione. Della popolazione rurale, solo la nobiltà veniva in contatto con circoli più vasti e con nuovi bisogni, mentre la massa dei contadini non oltrepassava mai i limiti delle relazioni locali più prossime e l’angusto orizzonte che aprivano.
Mentre in Inghilterra e in Francia lo sviluppo del commercio e dell’industria ebbe come conseguenza il concatenamento degli interessi in tutto il paese e quindi l’accentramento politico, la Germania non arrivò che al raggruppamento degli interessi sul piano delle provincie e di centri puramente locali, e con ciò al frazionamento politico: frazionamento che ben presto si consolidò stabilmente con l’esclusione della Germania dal commercio mondiale. Nella misura in cui l’Impero schiettamente feudale si dissolveva, il vincolo che teneva legate le varie parti dell’impero si scioglieva; i grandi feudatari imperiali si trasformavano in principi quasi indipendenti, mentre, da una parte le città imperiali, dall’altra i cavalieri dell’Impero stringevano leghe, ora per combattersi vicendevolmente, ora per combattere contro i principi o contro l’imperatore. Il potere imperiale, dubitando perfino della propria posizione, oscillava incerto tra i diversi elementi che costituivano l’Impero e perciò perdeva sempre più di autorità. I suoi tentativi di centralizzazione nella forma usata da Luigi XI, malgrado tutti gli intrighi e tutte le violenze, non andarono al di là di un raggruppamento dei paesi ereditari austriaci. In questa confusione, in questi conflitti che si intrecciavano all’infinito, quelli che esclusivamente guadagnavano, e dovevano guadagnare, furono i rappresentanti dell’accentramento sul piano del frazionamento, i rappresentanti dell’accentramento locale e provinciale, i principi, accanto ai quali lo stesso imperatore divenne sempre più un principe come gli altri.
In queste condizioni, la posizione delle classi tramandate dal Medioevo si cambiò in modo essenziale, e accanto alle vecchie classi ne sorsero delle nuove.
Dall’alta nobiltà erano sorti i principi. Essi erano già quasi interamente indipendenti dall’imperatore ed erano in possesso della maggior parte dei diritti sovrani: facevano guerra o pace di loro iniziativa, tenevano eserciti permanenti, indicevano diete e imponevano balzelli. Inoltre, avevano già sottomesso al loro potere una gran parte della piccola nobiltà e delle città e continuavano ad usare qualsiasi mezzo per incorporare ai loro territori anche le altre città e gli altri domini feudali che dipendevano direttamente dall’Impero. Così, la loro azione, mentre verso questi elementi era rivolta ad accentrare, nei confronti dell’autorità imperiale era rivolta a decentrare. All’interno il loro governo era già assolutistico. Non convocavano gli stati[2] se non quando non avrebbero potuto aiutarsi in altra maniera; imponevano tributi e prendevano denaro a loro arbitrio; il diritto di approvare i tributi, che apparteneva agli stati, raramente fu riconosciuto e ancora più raramente applicato. Ma anche in questo caso, il principe aveva abitualmente la maggioranza attraverso i due stati che erano esenti dal pagamento delle imposte mentre partecipavano al loro godimento: i cavalieri e i prelati. Il bisogno di denaro del principe cresceva con l’estendersi del lusso e delle spese per il mantenimento della corte con la costituzione degli eserciti permanenti, col costo crescente del governo. La pressione fiscale diventò quindi sempre più aspra. Ma le città erano al riparo da essa per via dei loro privilegi. Cosicché tutto il peso fiscale ricadeva sulle spalle dei contadini, tanto di quelli che appartenevano ai domini del principe, quanto dei servi della gleba, degli emancipati[3] e dei censuari appartenenti ai vassalli. Quando l’imposizione fiscale diretta non era sufficiente, interveniva l’indiretta, e lo manovre più raffinate della tecnica finanziaria furono usate per tappare i buchi del fisco. Quando tutto questo non giovava, quando non c’era più niente da dare in pegno e nessuna città libera voleva più concedere dei crediti, allora si ricorreva ad operazioni monetarie della specie più sporca, sì coniava oro di bassa lega, si imponeva il corso forzoso, alto o basso a seconda che convenisse al fisco. Il traffico dei privilegi delle città o di altri privilegi, che poi venivano ritolti con la violenza per venderli a più caro prezzo, lo sfruttamento di ogni tentativo di opposizione per saccheggi e depredazioni di tutte le specie, ecc., rappresentavano fonti di denaro lucrose e giornaliere per i principi di quel tempo. Anche la giustizia per i principi era un articolo commerciale permanente e tutt’altro che insignificante. In breve, ai sudditi di quell’epoca, i quali avevano inoltre da soddisfare alle bramosie personali dei sovrintendenti e degli ufficiali del principe, fu dato di gustare, in modo sovrabbondante, tutte le delizie del sistema «paterno» di governo.
Dalla gerarchia feudale del Medioevo era quasi totalmente scomparsa la nobiltà media. Essa, o si era elevata alla posizione di indipendenza dei piccoli principi o era caduta nella schiera dei piccoli nobili. La piccola nobiltà, la cavalleria, andava incontro rapidamente alla sua dissoluzione. Una gran parte di essa era già caduta in piena miseria e viveva semplicemente, servendo i principi in uffici militari o civili. Un’altra parte stava in una posizione di vassallaggio alle dipendenze dei principi. La parte minore era la nobiltà dell’impero. Lo sviluppo dell’arte della guerra, il crescente valore che assumeva la fanteria, il perfezionamento delle armi da fuoco andavano eliminando l’importanza delle sue prestazioni militari come cavalleria pesante e contemporaneamente non assicurava più l’inespugnabilità dei suoi castelli. Proprio come gli artigiani di Norimberga, i cavalieri diventavano inutili con il progresso dell’industria. Il bisogno che essi avevano di denaro contribuì in modo rilevante alla rovina totale dei cavalieri. Il lusso dei castelli, l’emulazione nello splendore dei tornei e delle feste, il prezzo delle armi e dei cavalli aumentavano con il progredire dello sviluppo sociale, mentre le fonti dei redditi dei cavalieri e dei baroni si accrescevano poco o niente addirittura. Piccole guerre coi relativi saccheggi e spoliazioni, grassazioni e altre analoghe nobili occupazioni erano diventate col tempo troppo pericolose. Il gettito delle imposte e le prestazioni dei sudditi dei signori rendevano poco più di prima. Per sopperire ai loro bisogni in aumento, i graziosi signori dovettero perciò ricorrere agli stessi mezzi dei principi. E così la nobiltà perfezionò ogni anno maggiormente lo scorticamento dei contadini: ai servi della gleba fu succhiata sino all’ultima goccia di sangue, gli emancipati furono aggravati di contribuzioni e di prestazioni sotto pretesti e titoli di ogni sorta. Le corvées, gli interessi, i censi, i laudemi[4], i tributi per il caso di morte, i tributi di protettorato ecc, furono arbitrariamente inaspriti a dispetto di tutti i vecchi contratti. Ci si rifiutava di rendere giustizia o se ne faceva oggetto di traffico. E finalmente, se il cavaliere non aveva proprio nessun altro modo per arraffare il denaro del contadino, lo gettava in catene sulla torre del castello e lo costringeva a ricomprarsi la libertà.
Neanche con gli altri stati la piccola nobiltà viveva in rapporti amichevoli. La nobiltà feudale vassalla cercava di diventare nobiltà dell’Impero, mentre la nobiltà dell’Impero cercava di conservare la propria indipendenza: da qui conflitti continui con i principi.
Al clero, che nella sua forma pomposa di allora, gli appariva come uno stato assolutamente superfluo, il cavaliere invidiava i grandi beni e le grandi ricchezze accumulate per via del celibato e della costituzione della chiesa. Con le città il cavaliere era sempre ai ferri corti: era indebitato verso di esse, viveva del saccheggio dei loro territori, delle grassazioni che compiva sui loro mercanti, del denaro estorto per il riscatto dei prigionieri fatti durante le sue imprese guerresche contro di loro. E la lotta dei cavalieri contro tutti questi stati, tanto più incrudiva quanto più la questione del denaro diventava per loro una questione vitale.
Il clero, rappresentante dell’ideologia feudale, sentiva in misura non minore l’influsso del repentino cambiamento storico. Con l’invenzione della stampa e con le esigenze del commercio esercitato su scala più larga veniva ad essere soppresso non solo il suo monopolio dei primi rudimenti del sapere, ma anche quello dell’alta cultura. La divisione del lavoro si affermava anche nel campo intellettuale! La nuova classe che si veniva costituendo, la classe dei giuristi, lo eliminò da una serie di uffici che conferivano una grande influenza. Quindi anche il clero cominciò in gran parte a diventare superfluo, e del resto esso stesso dimostrava la verità di questo fatto con la sua crescente pigrizia ed ignoranza. Ma quanto più diventava superfluo, tanto più diventava numeroso, grazie alle sue enormi ricchezze che accresceva di continuo usando ogni mezzo possibile.
Nel clero si distinguevano due classi diverse. Le gerarchie ecclesiastiche feudali costituivano la classe aristocratica: i vescovi e gli arcivescovi, gli abati, i priori e gli altri prelati. Questi alti dignitari della chiesa o erano dei principi dell’impero essi stessi o, come signori feudali, sotto la sovranità di altri principi, dominavano su vasti territori con un numero infinito di servi della gleba e di affrancati. Essi non soltanto sfruttavano i loro sottoposti senza nessun ritegno, come facevano nobiltà e principi, ma procedevano in modo ancora più spudorato. Oltre alla violenza brutale, misero in moto tutti i soprusi della religione, oltre agli orrori della tortura, gli orrori della scomunica e del rifiuto dell’assoluzione, e tutti gli intrighi del confessionale, pur di estorcere al contadino sino all’ultimo soldo e accrescere il patrimonio ereditario della chiesa. Falsificare documenti rappresentava per queste degne persone un mezzo abituale e prediletto di truffa. Ma, sebbene oltre alle prestazioni feudali ed ai tributi consueti riscuotessero anche le decime, tutte queste entrate non erano ancora sufficienti. Per estorcere al popolo maggiori contributi, si ricorse alla fabbricazione di immagini sacre e di reliquie miracolose, all’organizzazione di luoghi sacri, al traffico delle indulgenze. E tutto ciò durò a lungo e col più felice successo.
Questi prelati e la loro sterminata gendarmeria di monaci che si accresceva di continuo con l’estendersi delle persecuzioni politiche e religiose, costituivano l’oggetto su cui si concentrava l’odio per il pretume non solo del popolo, ma anche della nobiltà. Dipendevano direttamente dall’impero e perciò erano di ostacolo ai principi. L’allegra vita di questi ben pasciuti vescovi ed abati e del loro esercito di monaci, tanto più eccitava l’invidia della nobiltà e l’indignazione del popolo che doveva pagarne le spese quanto più colpiva il contrasto tra questo tenore di vita e i loro sermoni.
La frazione plebea del clero era costituita dai predicatori di campagna e di città. Essi erano fuori della gerarchia feudale della chiesa e non avevano parte alcuna nelle sue ricchezze. Il loro lavoro era meno controllato, e per quanto esso fosse importante per la chiesa, al momento era molto meno indispensabile dei servizi di polizia dei monaci incasermati. Perciò erano pagati molto peggio e le loro prebende, per lo più, erano molto esigue. Borghesi o plebei per la loro origine, erano abbastanza vicini alle condizioni materiali di vita della massa, per nutrire, malgrado la loro qualità di preti, simpatie borghesi e plebee. La partecipazione ai movimenti dell’epoca era per i monaci solo l’eccezione, per loro la regola. Essi fornirono gli ideologi e i teorici del movimento, e perciò, molti di loro, rappresentanti dei plebei e dei contadini, morirono sul patibolo. Quindi, l’odio popolare contro i preti solo in casi sporadici si volse contro costoro.
Come al di sopra dei principi e della nobiltà stava l’imperatore, così al di sopra dell’alto e del basso clero stava il papa. Come all’imperatore si pagavano le imposte dell’Impero, il «soldo comune», così si pagavano al papa le imposte ecclesiastiche generali, con le quali egli faceva fronte al lusso della corte romana. In nessun paese queste imposte ecclesiastiche venivano riscosse — grazie alla potenza e al numero dei preti — con maggiore coscienziosità e con maggiore rigore che in Germania. Così, ad esempio, particolarmente rigorosa era l’esazione delle annate per l’insediamento nei vescovati vacanti. Con l’accrescersi dei bisogni furono escogitati nuovi mezzi per far denaro: commercio di reliquie, indulgenze, giubilei. Così ogni anno grandi somme di denaro partivano dalla Germania per Roma, e la pressione inasprita, non solamente dava impulso all’odio per i preti, ma eccitava anche il sentimento nazionale, particolarmente della nobiltà che era allora la casta più nazionale.
Dagli originari piccoli borghesi delle città medioevali si erano sviluppate, col fiorire del commercio e dell’industria, tre frazioni rigidamente separate.
Al vertice della popolazione urbana stavano le casate patrizie, la cosiddetta «onorabilità». Erano le famiglie più ricche; solo esse sedevano nel consiglio e in tutti gli uffici cittadini, e perciò non solo amministravano le entrate della città, ma anche le consumavano. Forti della loro ricchezza e della loro posizione aristocratica tradizionale riconosciuta dall’imperatore e dall’impero, sfruttavano in tutte le maniere tanto la comunità cittadina quanto i contadini sudditi della città: praticavano speculazioni usurale sul grano e sul denaro, concedevano monopoli di ogni specie, toglievano alla comunità, uno dopo l’altro, tutti i diritti all’uso comune dei boschi e dei prati, che sfruttavano direttamente per il loro personale tornaconto, imponevano arbitrariamente pedaggi sulle strade, sui ponti e sulle porte, ed altri gravami, trafficavano con i privilegi corporativi, con i diritti di maestranza e di cittadinanza e con la giustizia. Né maggiori riguardi usavano verso i contadini della periferia di quanti ne usassero la nobiltà o i preti. Al contrario i sovrintendenti e i funzionari della città preposti ai villaggi, tutti fior di patrizi, aggiungevano alle durezze e all’avidità degli aristocratici una certa dose di pedanteria burocratica nelle esazioni. Le entrate della città, così raccolte, erano amministrate con il più completo arbitrio; nei registri cittadini la contabilità, pura formalità, era trascurata ed imbrogliata al massimo grado possibile: peculati e ammanchi di cassa erano all’ordine del giorno. Quanto fosse facile allora ad una casta, circondata da ogni lato di privilegi, poco numerosa, tenuta strettamente unita dalla parentela e dall’interesse, arricchirsi con le entrate della città, si comprende quando si pensi al numero di peculati e di frodi che il 1848 ha messo in luce in tante amministrazioni comunali.
I patrizi s’erano preso cura di lasciare che i diritti delle comunità cittadine, specie in materia finanziaria, cadessero nel più profondo letargo. Solo più tardi quando le trufferie di questi signori divennero troppo gravi, le comunità cittadine si rimisero in movimento per avocare a sé almeno il controllo sull’amministrazione cittadina; e nella maggior parte delle città esse riconquistarono effettivamente i loro diritti. Ma, con le lotte continue delle corporazioni tra di loro, con la tenacia dei patrizi e con la protezione che trovavano nell’Impero e nei governi delle città legate a loro, ben presto i consiglieri appartenenti al patriziato ristabilirono la loro egemonia effettiva, sia con l’astuzia, sia con la violenza. Difatti al principio del secolo decimosesto in tutte le città la comunità si trovava nuovamente all’opposizione.
Nelle città l’opposizione contro il patriziato si divideva in due frazioni che apparvero molto distinte durante la guerra dei contadini.
L’opposizione borghese, l’antenata dei nostri liberali di oggi, comprendeva i borghesi ricchi e medi, nonché una parte dei piccoli borghesi, grande o piccola a seconda delle circostanze locali. Le loro rivendicazioni si mantenevano su un terreno puramente costituzionale: essi esigevano il controllo sull’amministrazione cittadina e la partecipazione al potere legislativo, o attraverso la stessa assemblea della comunità cittadina o attraverso una rappresentanza della comunità (maggior consiglio, municipalità); inoltre, la limitazione del nepotismo dei patrizi e dell’oligarchia di poche famiglie che anche in seno al patriziato si manifestava in modo sempre più aperto. Al massimo richiedevano che alcuni seggi del consiglio fossero occupati da borghesi della loro cerchia. Questo partito, che qua e là abbracciava anche la frazione degli scontenti e dei declassati del patriziato, aveva la grande maggioranza nelle assemblee cittadine e nelle corporazioni. I partigiani del consiglio e l’opposizione più radicale messi insieme rappresentano la più ristretta minoranza dei cittadini.
Vedremo come, nel corso del movimento del secolo decimoquinto, questa opposizione «moderata», «legale» , «benestante», «intelligente» ebbe lo stesso ruolo e il medesimo successo che ha avuto il suo erede, il partito costituzionale, nel movimento del 1848 e 1849.
Del resto, l’opposizione borghese si accaniva ancor più contro i preti, la cui vita allegra, i cui costumi rilassati, suscitavano la sua più profonda riprovazione. Essa esigeva perciò delle misure contro lo scandaloso tenore di vita di queste degne persone, l’abolizione del foro ecclesiastico e della immunità dalle tasse di cui godevano i preti e, infine, la limitazione del numero dei monaci.
L’opposizione plebea era costituita dai borghesi declassati e dalla massa degli abitanti delle città esclusi dal godimento dei diritti civici: gli apprendisti delle botteghe artigiane, i salariati, e i numerosi polloni del sottoproletariato nascente che già si riscontrano negli stadi meno evoluti dello sviluppo della città. In generale il sottoproletariato è un fenomeno che, più o meno sviluppato, si presenta in quasi tutte le fasi della società che si sono avute sino ad ora. La moltitudine di gente senza un mestiere e senza fissa dimora in quell’epoca si accrebbe in modo particolare per la decomposizione del feudalesimo in una società in cui ogni mestiere, ogni sfera della vita si trincerava dietro una quantità di privilegi. In nessun paese evoluto c’era mai stato un numero di vagabondi quale si ebbe nella prima metà del secolo decimosesto. Una parte di questi vagabondi, in tempo di guerra, si arruolava nell’esercito, un’altra andava questuando per il paese e, infine, la terza cercava nelle città, con il lavoro salariato a giornata o con ogni altra attività che non fosse soggetta ai vincoli delle corporazioni, di campare la sua vita miserabile. Ora, tutte e tre queste parti ebbero una loro funzione nella guerra dei contadini: la prima negli eserciti dei principi, davanti ai quali i contadini restarono soccombenti, la seconda nelle cospirazioni e nelle bande dei contadini, nelle quali si manifesta ad ogni piè sospinto il suo influsso demoralizzante, la terza nelle lotte dei partiti cittadini. Del resto, non si deve dimenticare che una gran parte di questa classe, precisamente quella che viveva in città, possedeva ancora in notevole misura un nucleo di sana natura contadinesca ed era ancora molto lontana dalla venalità e dalla depravazione proprie del sottoproletariato incivilito dei nostri giorni.
Si vede da ciò che l’opposizione plebea nelle città di quel tempo era costituita da elementi molto eterogenei. Essa univa gli elementi declassati della vecchia società feudale e corporativa con l’elemento proletario non ancora sviluppato e, anzi, appena emergente della società borghese moderna in germe. Da una parte artigiani impoveriti delle corporazioni, che erano ancora legati per via dei loro privilegi all’ordinamento della loro classe tuttora in vigore, dall’altra contadini cacciati dalla loro terra, persone di servizio licenziate, che ancora non potevano dirsi proletari. Tra questi due elementi, gli apprendisti delle botteghe artigiane. Essi erano momentaneamente fuori della società ufficiale e per la condizione della loro vita si avvicinavano al proletariato, per quel tanto che questo poteva esistere, tenuti presenti lo stato dell’industria di allora e i privilegi corporativi, ma nello stesso tempo, in virtù di questo privilegio corporativo, erano all’incirca dei futuri maestri veri e propri e appartenevano alla borghesia. Il modo con cui questo miscuglio di elementi si sarebbe inserito nei partiti era estremamente incerto e variabile a seconda delle varie località. Prima della guerra dei contadini, l’opposizione plebea non scese nella lotta politica come partito, ma solo come un’appendice dell’opposizione borghese, appendice turbolenta, avida di saccheggio, capace di vendersi per qualche botte di vino. Solo la sollevazione dei contadini ne fece un partito, ma anche allora, quasi dappertutto, nelle sue rivendicazioni e nella sua azione fu sempre in un rapporto di dipendenza dai contadini; ciò che costituisce una magnifica prova di quanto, allora, la città dipendesse ancora dalla campagna. Nella misura in cui l’opposizione plebea esplica un’azione indipendente, esige l’instaurazione nella campagna dei monopoli dell’industria cittadina e non vuol saperne di una riduzione delle entrate della città determinata dalla abolizione dei gravami feudali che pesavano sui contadini dei dintorni. In breve, nella misura in cui è reazionaria, si subordina ai suoi propri elementi piccolo-borghesi, dando con ciò un esempio caratteristico della tragicommedia che la piccola borghesia moderna rappresenta da tre anni, sotto l’insegna della democrazia.
Solo in Turingia, sotto l’influsso diretto di Münzer, e in alcune altre località, sotto l’influenza dei suoi discepoli, la frazione plebea delle città fu trascinata tanto avanti dalla tempesta generale, che l’embrionale elemento proletario prese il sopravvento su tutte le altre frazioni del movimento. Questo episodio che costituisce il punto culminante di tutta quanta la guerra dei contadini, e si raccoglie intorno alla sua figura più grandiosa, Tommaso Münzer, è ad un tempo il più breve. Si comprende facilmente come questa opposizione dovesse nel tempo più breve andare incontro al fallimento, come in essa ci dovesse essere un’impronta alquanto fantastica, e come quindi l’espressione delle sue rivendicazioni dovesse rimanere assolutamente indeterminata. Nelle condizioni di quell’epoca essa trovò appunto il terreno meno propizio.
Al di sotto di tutte queste classi, ad eccezione dell’ultima, stava la grande massa degli sfruttati della nazione: i contadini. Sul contadino gravavano tutti gli strati dell’edifico sociale: principi, funzionari, nobiltà, preti, patrizi e borghesi. Appartenesse ad un principe, a un nobile dell’Impero, a un vescovo, a un monastero, a una città, dappertutto era trattato come una cosa, come una bestia da soma e anche peggio. Se era un servo, era alla mercé della buona o cattiva grazia del suo padrone. Se era un emancipato, le sue prestazioni legali, contrattuali erano sufficienti a schiacciarlo, e queste prestazioni venivano accresciute ogni giorno. La massima parte del suo tempo egli la doveva impiegare a lavorare sui beni del suo signore, su quello che guadagnava nelle poche ore libere dovevano essere pagate decime, interesse, censo, dogana, tassa per l’esenzione (imposta militare), imposta regionale, imposta imperiale. Non poteva sposarsi né morire senza pagare un’imposta al padrone. Oltre alle prestazioni feudali ordinarie doveva rendere al suo padrone altri servizi: raccogliere la paglia, raccogliere le fragole, raccogliere i mirtilli, raccogliere le lumache, scovare la selvaggina per la caccia, spaccare la legna ecc. Il diritto di pesca e di caccia apparteneva al signore: se la selvaggina danneggiava il suo raccolto, il contadino doveva starsene tranquillo a guardare. Quasi dappertutto i pascoli e i boschi comunali erano stati dai signori tolti ai contadini con la violenza. E, allo stesso modo che della proprietà, il signore disponeva a suo arbitrio della persona del contadino, nonché di quelle della moglie e delle figlie di lui, Egli aveva infatti il diritto della prima notte. E se poi ciò gli aggradava, gettava il contadino nella torre del castello, dove con la stessa sicurezza con cui oggi lo aspetta il giudice istruttore, allora lo aspettava la tortura. Se invece lo preferiva, lo uccideva, lo faceva decapitare. Di quegli edificanti capitoli della Carolina[5] che trattano «del taglio delle orecchie», «del taglio del naso», «dell’enucleazione degli occhi», «dello stroncamento delle dita e delle mani», «della decapitazione», «del supplizio della ruota», «del supplizio del fuoco», «dell’attanagliare con tenaglie roventi», «dello squartamento», ecc., non ce n’è neanche uno solo che il grazioso padrone o protettore non abbia applicato ai suoi contadini. Chi avrebbe dovuto difenderli? Nei tribunali sedevano baroni, preti, patrizi, oppure giudici che sapevano bene per che cosa erano pagati. Tutte queste classi sociali dell’impero vivevano della spoliazione dei contadini.
Malgrado gemessero sotto il terrore dell’oppressione, tuttavia non era facile portare i contadini all’insurrezione. La loro dispersione rendeva estremamente difficile ogni intesa comune. La lunga abitudine alla sottomissione, tramandata di generazione in generazione, in molti luoghi la desuetudine all’uso delle armi, la durezza dello sfruttamento che aumentava o diminuiva a seconda della persona del signore, contribuivano a mantenere i contadini in uno stato di tranquillità. Perciò, almeno in Germania, noi troviamo nel Medioevo un gran numero di insurrezioni locali di contadini, ma non troviamo, prima della guerra dei contadini, neanche una sola sollevazione generale dei contadini su scala nazionale. Inoltre, i contadini, da soli non erano in condizione di fare una rivoluzione sino a quando stava di fronte a loro la forza organizzata dei principi, della nobiltà e delle città stretti in alleanza. Solo mediante una alleanza con altre classi sociali essi potevano avere una chance di vittoria, ma come avrebbero dovuto allearsi con altre classi, se erano sfruttati da tutti in eguale misura?
Noi vediamo quindi, che sul principio del sedicesimo secolo le diverse classi sociali dell’impero — principi, nobiltà, prelati, patrizi, borghesi, plebei e contadini — costituivano una massa straordinariamente aggrovigliata, con i bisogni più diversi, e si intrecciavano in tutte le direzioni. Ogni classe sociale era di ostacolo all’altra ed era in uno stato di lotta continua, ora latente ora nascosta, con tutte le altre. Quella divisione di tutta la nazione in due grandi campi, quale sussisteva in Francia precedentemente allo scoppio della prima rivoluzione, e che in un più alto grido di sviluppo esiste oggi nei paesi più progrediti, era in quelle circostanze assolutamente impossibile. Essa poté effettuarsi e solo approssimativamente allorquando lo strato infimo della nazione, sfruttato da tutte le altre classi, i contadini e i plebei, si sollevò. Si può comprendere l’intreccio di interessi, vedute e aspirazioni di quell’epoca, quando ci si ricordi quale confusione abbia generato negli ultimi due anni la composizione attuale, pure molto meno complessa, della nazione tedesca, risultante da nobiltà feudale, borghesia, piccola borghesia, contadini e proletariato.
Friedrich Engels: La guerra dei contadini in Germania – [Indice]
Note:
[1] Ansa o Lega Ansestica: unione commerciale fra le città della Germania settentrionale, sotto la guida di Lubecca. Amburgo e Brema. Durò dal XIII al XVII secolo.
[2]Stände: strati sociali organizzati (nobiltà, clero, borghesia).
[3] Il termine tedesco che usa Engles è Höriger. La differenza tra servo della gleba e emancipato ricorda quella che sussisteva a Roma tra lo schiavo o il liberto. Il carattere che distingueva l’emancipato dal servo della gleba era la mancanza di quel rapporto servile che legava questo al signore. Ciò che non impediva però che gli emancipati dovessero ai signore delle prestazioni che poco differivano da quelle a cui erano tenuti i servi e che fossero poi gravati di imposte reali che finivano con lo schiacciarli.
[4] Laudemio si diceva la tassa che il vassallo pagava ai padrone all’atto dell’investitura. Si chiama più comunemente tassa dominicale.
[5] Codice penale promulgato sotto l’Imperatore Carlo V nel 1532.