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da Karl Marx – Friedrich Engels, Opere Complete, vol. 3, pag 454-481, Editori Riuniti, Roma, 1976
Trascrizione a cura del CCDP per l'anniversario della nascita di Engels (28/11/1820)
 
Lineamenti di una critica dell'economia politica (210)
 
di Friedrich Engels (1844)
 
L'economia politica ebbe origine come una naturale conseguenza della espansione del commercio e, con essa, un sistema raffinato di frode autorizzata, una compiuta scienza dell'arricchimento, prese il posto della saggezza ingenua e non scientifica del merciaiuolo.
 
Questa economia politica o scienza dell'arricchimento, nata dall'invidia reciproca e dall'avidità dei mercanti, reca in fronte il marchio del più nauseante egoismo. Si viveva ancora nell'ingenua persuasione che l'oro e l'argento fossero la ricchezza e dunque non si aveva nulla di più urgente da fare che non fosse l'impedire ovunque l'esportazione dei metalli «nobili». Le nazioni si squadravano come dei taccagni, ciascuno dei quali si tiene ben stretta con ambo le braccia la borsa del denaro mentre lancia occhiate cariche di invidia e di diffidenza sul vicino. Fu impiegato ogni mezzo allo scopo di sottrarre ai popoli con i quali si intrattenevano rapporti commerciali la maggior quantità possibile di denaro liquido e di trattenere entro le proprie barriere doganali quanto vi si era felicemente introdotto.
 
Se si fosse attuato fino in fondo questo principio si sarebbe ucciso il commercio. Si cominciò allora a superare questa prima fase; ci si avvide che il capitale, rinchiuso nella cassa, è morto, mentre si accresce costantemente nella circolazione. Si divenne allora più cordiali e si spedirono i propri ducati come uccelli da richiamo, onde ne portassero indietro con sé degli altri, e si riconobbe che non è svantaggioso pagare troppo ad A per la sua merce finché c'è un B pronto ad acquistarla per un prezzo maggiore.
 
Su questa base si edificò il mercantilismo. L'avidità insita nel commercio venne già un po' nascosta; le nazioni cominciarono ad avvicinarsi, stipularono trattati di commercio e di amicizia, fecero affari le une con le altre e, per amore di un guadagno maggiore, si usarono reciprocamente ogni possibile cortesia. Ma, in fondo, non si trattava d'altro che dell'antica avidità di denaro e del vecchio egoismo che, di tempo in tempo, esplodeva in quelle guerre che, allora, erano tutte provocate dalla gelosia commerciale. Queste guerre dimostrarono anche che il commercio, come la rapina, si basa sul diritto del più forte; non ci si faceva alcuno scrupolo di estorcere con l'astuzia o con la violenza i trattati che si ritenevano più favorevoli.
 
Il punto fondamentale di tutto il mercantilismo è la teoria del bilancio commerciale. Poiché si teneva ancora fede al principio che l'oro e l'argento costituissero la ricchezza si reputavano vantaggiosi solo quegli affari che, alla fine, avessero portato nel paese denaro liquido. E per sapere quali fossero gli affari vantaggiosi si confrontavano l'esportazione e l'importazione. Se si era esportato di più si riteneva che la differenza, rispetto all'importazione, fosse fluita nel paese come denaro liquido, e si pensava di essersi arricchiti nella misura di questa differenza. L'arte degli economisti consisteva dunque nel fare si che alla fine d'ogni anno l'esportazione desse un bilancio favorevole rispetto alle importazioni; ed a causa di questa ridicola illusione migliaia di uomini sono stati macellati! Il commercio ha anche le sue crociate e la sua inquisizione.
 
Il diciottesimo secolo, il secolo della rivoluzione, ha rivoluzionato anche l'economia; ma essendo state tutte le rivoluzioni di questo secolo unilaterali e rigide nell'opposizione, essendosi contrapposto all'astratto spiritualismo l'astratto materialismo, alla monarchia la repubblica, al diritto divino il contratto sociale, neppure la rivoluzione economica potè sorpassare l'opposizione. I presupposti di essa continuarono a sussistere ovunque; il materialismo non intaccò il disprezzo e l'umiliazione cristiana dell'uomo e si limitò a porre un nuovo assoluto per l'uomo in luogo del Dio cristiano: la natura; la politica non si curò di verificare i presupposti dello Stato in sé e per sé; all'economia non venne in mente di indagare intorno alla legittimità della proprietà privata. Pertanto la nuova economia fu un progresso soltanto a metà; essa fu costretta a tradire e rinnegare i propri presupposti, a ricorrere alla sofistica e all'ipocrisia per occultare le contraddizioni nelle quali si involgeva e poter giungere alle conclusioni alle quali era spinta non già dalla forza delle sue premesse ma dallo spirito umano del secolo. L'economia assunse così un carattere filantropico; essa negò il proprio favore ai produttori e si rivolse ai consumatori; affettò un grave disdegno contro gli orrori cruenti del mercantilismo e proclamò il commercio legame di amicizia e di unione tanto fra le nazioni quanto fra gli individui. Tutto era splendore e magnanimità, ma ben presto i reali presupposti si fecero nuovamente valere e, in opposizione a questa abbagliante filantropia, generarono la teoria malthusiana della popolazione, il sistema più duro e barbarico che sia mai esistito, un sistema della disperazione che annientò tutti quei bei discorsi sull'amore degli uomini e sul cosmopolitismo; quei presupposti generarono e imposero il sistema industriale e la moderna schiavitù, che non ha nulla da invidiare all'antica quanto a inumanità e crudeltà. La nuova economia, il sistema della libertà di commercio basato sulla «Wealth of Nations» di Adam Smith, presenta la stessa ipocrisia, illogicità e immoralità che oggi la libera umanità si trova a dover affrontare in tutti i campi.
 
Ma allora il sistema di Smith non fu un progresso? Lo fu certamente e fu anche un progresso necessario. Era necessario che il sistema mercantilistico venisse abbattuto, con tutti i suoi monopoli e le restrizioni ai traffici, affinché le vere conseguenze della proprietà potessero venire alla luce; era necessario che sparissero tutti questi meschini scrupoli provinciali e nazionali perché la lotta del nostro tempo divenisse universale ed umana; era necessario che la teoria della proprietà privata abbandonasse il metodo meramente empirico della indagine oggettiva ed assumesse un carattere più scientifico che la rendesse responsabile anche delle conseguenze e trasferisse in tal modo la questione su un piano universalmente umano; era infine necessario che l'immoralità della vecchia economia venisse portata al suo culmine attraverso il tentativo di eliminarla e per mezzo dell'ipocrisia introdottavi, che di quel tentativo era una conseguenza necessaria. Tutto ciò stava nella natura della cosa. Ammettiamo di buon grado che solo dopo la fondazione e la realizzazione della libertà di commercio siamo messi in grado di superare l'economia della proprietà privata, ma contemporaneamente dobbiamo anche avere il diritto di presentare questa libertà di commercio in tutta la sua nullità teorica e pratica.
 
Il nostro giudizio dovrà farsi tanto più severo quanto più gli economisti che dobbiamo giudicare si avvicinano al nostro tempo. Infatti, mentre Smith e Malthus non avevano prima di sé se non dei frammenti, i più recenti avevano a disposizione l'intero sistema; tutte le conseguenze erano state tratte, le contraddizioni emergevano abbastanza chiaramente, eppure essi non procedettero alla verifica delle premesse e tuttavia continuarono ad assumersi la responsabilità dell'intero sistema. Quanto più gli economisti sono vicini al presente, tanto più essi si allontanano dall'onestà. Ad ogni progresso del tempo corrisponde necessariamente un accrescimento della sofisticheria, destinata a mantenere l'economia all'altezza del tempo. E pertanto, ad esempio, Ricardo è più colpevole di Adam Smith e MacCulloch e Mill sono più colpevoli di Ricardo.
 
La recente economia non è in grado di valutate correttamente neppure il sistema mercantilistico, essendo essa stessa unilaterale ed ancora condizionata dalle premesse di quello. Soltanto il punto di vista che si eleva al di sopra della opposizione dei due sistemi, che critica le premesse comuni ad entrambi e procede da una base universale e puramente umana, potrà dare a tutti e due la loro giusta collocazione. Si dimostrerà che i sostenitori della libertà di commercio sono monopolisti peggiori degli stessi antichi mercantilisti. Si dimostrerà che dietro la abbagliante umanità dei moderni si cela una barbarie ignota agli antichi, che la confusione concettuale degli antichi è ancora semplice e coerente a paragone con la logica biforcuta dei loro critici e che nessuno dei due partiti può rinfacciare all'altro qualcosa che non ricadrebbe anche su di lui.
 
Di conseguenza neppure la più recente economia liberale è in grado di intendere la restaurazione del sistema mercantilistico operata da List, mentre per noi la questione è assai semplice. La incoerenza e la doppiezza dell'economia liberale dovrà tornare necessariamente a risolversi nei suoi elementi fondamentali. Come la teologia non può non regredire alla cieca credenza oppure andare avanti trasformandosi in filosofia libera così la libertà di commercio deve provocare, da un lato, la restaurazione dei monopoli e, dall'altro, la soppressione della proprietà privata.
 
L'unico progresso positivo che l'economia liberale abbia compiuto consiste nello sviluppo delle leggi della proprietà privata. Queste sono certamente contenute in essa anche se non sono svolte fino alle estreme conseguenze e non sono formulate con chiarezza. Da ciò consegue che in tutti i punti in cui occorre decidere su quale sia il sistema più rapido ed efficace per diventare ricchi, vale a dire in tutte le controversie rigorosamente economiehe, i sostenitori della libertà di commercio hanno la ragione dalla loro. Nelle controversie con i monopolisti, beninteso, e non in quelle con gli avversari della proprietà privata; che questi ultimi siano infatti in grado di giudicare, in questioni economiche, in modo più corretto dal punto di vista dell'economia lo hanno da tempo dimostrato nella teoria e nella pratica i socialisti inglesi.
 
Nella critica dell'economia politica indagheremo quindi le categorie fondamentali, sveleremo la contraddizione introdotta dal sistema della libertà di commercio e trarremo le conseguenze di entrambi i lati della contraddizione.
 
 
L'espressione ricchezza nazionale si è diffusa ad opera della smania generalizzatrice degli economisti liberali. Finché continua a sussistere la proprietà privata essa è priva di senso. La «ricchezza nazionale» degli inglesi è molto grande, eppure essi sono il più povero dei popoli sotto il sole. Ci si decida dunque o ad abbandonare del tutto questa espressione, o si assumano delle premesse che le conferiscano un senso. Lo stesso vale anche per le espressioni economia nazionale, economia politica o pubblica. Questa scienza, nella situazione attuale, dovrebbe chiamarsi economia privata, poiché le relazioni pubbliche, per essa, hanno sussistenza solo in funzione della proprietà privata.
 
La conseguenza più immediata della proprietà privata è il commercio, lo scambio dei reciproci bisogni, l'acquisto e la vendita. Questo commercio, essendo dominante la proprietà privata, deve diventare, come ogni altra attività, una fonte immediata di guadagno per coloro che lo praticano; ossia, ciascuno dovrà tentare di vendere al prezzo più elevato e di acquistare al prezzo più basso possibile. In ogni compravendita si fronteggiano dunque due uomini con interessi assolutamente opposti; il conflitto è decisamente fra nemici, poiché ciascuno conosce le intenzioni dell'altro e sa che sono opposte alle proprie. Il primo effetto è dunque, da un lato, la reciproca diffidenza e, dall'altro, la legittimazione di questa diffidenza, il ricorso a mezzi immorali per conseguire un fine immorale. Così, per esempio, la prima norma fondamentale del commercio è la segretezza, l'occultamento di tutto quel che potrebbe diminuire il valore dell'articolo in questione. Ed ecco la conseguenza: in commercio è lecito trarre il massimo vantaggio possibile dall'ignoranza e dalla fiducia della controparte e, parimenti, vantare qualità che la propria mercé non possiede affatto. In una parola, il commercio è la frode legale. Che la pratica coincida con questa teoria potrà confermarmelo ogni commerciante che voglia onorare la verità.
 
Il mercantilismo possedeva ancora una certa franchezza disinvolta e cattolica e non nascondeva minimamente la natura immorale del commercio. Abbiamo visto come esso mostrasse apertamente la sua volgare avidità. L'ostilità reciproca delle nazioni nel diciottesimo secolo, l'invidia ripugnante e la gelosia commerciale erano le logiche conseguenze del commercio in generale. L'opinione pubblica non era ancora influenzata da sentimenti di umanità; che ragione c'era dunque di nascondere delle cose che derivavano dalla stessa natura disumana e cruenta del commercio?
 
Ma allorché il Lutero dell'economia, Adam Smith, sottopose alla critica l'economia anteriore le cose erano cambiate di molto. Il secolo era umanizzato, si era affermata la ragione, la moralità aveva iniziato ad esigere che fosse rispettato il suo etemo diritto. I trattati commerciali estorti, le guerre commerciali, il rigido isolamento delle nazioni offendevano troppo la coscienza progredita. Al posto della franchezza cattolica subentrò l'ipocrito farisaismo protestante. Smith dimostrò che anche l'umanitarismo si fonda sulla natura del commercio, che il commercio, invece d'essere «la fonte più copiosa dela discordia e dell'inimicizia», deve divenire un «vincolo di unione e di amicizia fra le nazioni e fra gli individui» (cfr. «Wealth of Nations», vol. 4, cap. 3, § 2); apparterrebbe appunto alla natura della cosa il fatto che il commercio sia nel suo complesso vantaggioso per tutti coloro che vi hanno parte.
 
Smith aveva ragione nel lodare l'umanità del commercio. Nel mondo non v'è nulla di assolutamente immorale; anche il commercio ha un aspetto per il quale rende omaggio alla moralità ed all'umanità! Il diritto del più forte, il volgare brigantaggio del medioevo vennero umanizzati allorché si mutarono nel commercio - il commercio nelk sua prima fase, caratterizzato dal divieto della esportazione del denaro - e nel sistema mercantilistico. Adesso venne umanizzato quest'ultimo. È naturalmente interesse di quanti esercitano il commercio mantenere buone relazioni tanto con coloro dai quali si acquista a buon prezzo quanto con coloro cui si vende ad un prezzo più elevato. Si comporta dunque in maniera sconsiderata quella nazione che alimenti sentimenti ostili nei suoi fornitori e nei suoi clienti. Ad un comportamento più amichevole corrispondono dei vantaggi maggiori. Questa è l'umanità del commercio e questo costume farisaico di piegare la moralità a fini immorali costituisce l'orgoglio del sistema della libertà del commercio. Forse che non abbiamo abbattuto la barbarie dei monopoli, esclamano gli ipocriti, non abbiamo noi portato la civiltà negli angoli più remoti del mondo, non abbiamo affratellato i popoli e diminuite le guerre? Tutto questo lo avete certamente fatto, ma come lo avete fatto? Avete distrutto i piccoli monopoli affinché l'unico grande monopolio fondamentale, la proprietà, potesse agire tanto più liberamente e illimitatamente; avete civilizzato gli estremi confini della terra allo scopo di acquistare un nuovo terreno al dispiegarsi della vostra spregevole avidità; avete affratellato i popoli, ma in una fratellanza di ladri, e diminuite le guerre per realizzare, nella pace, maggiori guadagni e per portare al più alto grado l'inimicizia fra i singoli, la guerra infame della concorrenza! Quando mai avete voi fatto qualcosa per amore della sola umanità, o mossi dalla coscienza della nullità della contrapposizione dell'interesse universale con quello dei singoli? Quando mai siete stati morali senza essere interessati, senza covare reconditamente motivi immotali ed egoistici?
 
Dopo che l'economia liberale aveva fatto del suo meglio per generalizzare l'inimicizia dissolvendo le nazionalità e per tramutare l'umanità in un'orda di bestie feroci - che altro sono i concorrenti? - che si divorano l'una con l'altra poiché ciascuna ha il medesimo interesse di tutti gli altri, dopo aver compiuto questo lavoro preliminare le restò da compiere ancora un passo prima di raggiungere lo scopo, la dissoluzione della famiglia. Per poterla attuare l'economia liberale ricorse ad una sua bella invenzione, il sistema delle fabbriche. L'ultima traccia di interessi comuni, la comunanza dei beni della famiglia, è stata sotterrata dal sistema delle fabbriche e - almeno qui in Inghilterra - si avvia verso la disgregazione. Avviene tutti i giorni che i bambini, non appena siano in condizione di lavorare, ossia compiuti i nove anni, spendano per sé il proprio salario, considerino la casa dei genitori come una pensione e paghino loro una certa somma per i pasti e l'alloggio. E come potrebbe essere diversamente? Che altro potrebbe derivare dall'isolarsi degli interessi che sta a fondamento del sistema della libertà di commercio? Una volta che un principio sia stato messo in movimento esso continua poi ad operare da sé in tutte le sue conseguenze, piaccia o meno agli economisti.
 
Ma neppure l'economista conosce la causa che egli serve. Sa che, nonostante tutti i suoi ragionamenti egoistici, egli rimane pur sempre un anello della catena dell'universale progresso dell'umanità. Egli non sa che con la disgregazione degli interessi in interessi particolaristici non fa che spianare la strada al grande rivolgimento cui va incontro il secolo: la riconciliazione dell'umanità con la natura e con se stessa.
 
 
L'altra categoria determinata dal commercio è quella del valore. Su questa, come su tutte le altre, non c'è disaccordo fra gli economisti antichi e quelli moderni, poiché i monopolisti, troppo assorbiti dalla loro smania di arricchirsi, non avevano il tempo di occuparsi di categorie. Tutte le controversie su simili problemi furono sollevate dai moderni.
 
Per l'economista, che si nutre di contraddizioni, c'è, naturalmente, anche un duplice valore: il valore astratto o reale ed il valore di scambio. Intorno all'essenza del valore reale si disputò a lungo fra gli inglesi, che definivano i costi di produzione come l'espressione del valore reale, ed il francese Say, il quale sosteneva che questo valore dovesse misurarsi sulla utilità d'una cosa. La disputa si è protratta fino alle soglie di questo secolo e si è assopita senza che venisse risolta. Gli economisti non sono in grado di risolvere nulla.
 
Gli inglesi - MacCulloch e Ricardo in particolare - asseriscono dunque che il valore astratto d'una cosa è determinato dai suoi costi di produzione. Il valore astratto, beninteso, e non il valore di scambio, lo exchangeable value, il valore commerciale, che sarebbe una cosa affatto diversa. Perché i costi di produzione sono la misura del valore? Poiché - udite, udite! - nessuno, in circostanze normali ed escludendosi il rapporto di concorrenza, venderebbe una cosa ad un prezzo inferiore a quel che gli è costato il produrla. La venderebbe? Ma che ci sta a fare qui la «vendita» se non si tratta del valore commerciale? Ecco che abbiamo di nuovo il commercio del quale appunto non dovremmo tener conto, e che commercio! Un commercio nel quale la cosa principale, la concorrenza, non deve comparire. Dapprima avevamo un valore astratto, adesso abbiamo anche un commercio astratto, un commercio senza concorrenza, ossia un uomo senza corpo, un pensiero senza cervello per produrre pensieri. E l'economista non si rende conto che, una volta lasciata da parte la concorrenza, non c'è nessuna garanzia che il produttore venda la sua merce esattamente al costo di produzione? Che confusione!
 
Ed ancora! Concediamo per un istante che le cose stiano come dice l'economista. Supponendo che qualcuno, a costo di fatiche improbe e di un enorme dispendio, fabbricasse una cosa assolutamente inutile, una cosa che nessun uomo al mondo desidera, vale anche questa il suo costo di produzione? Per nulla, dice l'economista, chi mai la vorrà comprare? Qui abbiamo dunque tutt'insieme non soltanto l'utilità di Say, ma, con la «compera», anche la concorrenza. È impossibile, l'economista non riesce a far stare in piedi la sua astrazione neppure per un istante. E non soltanto quella concorrenza che egli si affatica a tener lontana, ma anche quella utilità che egli critica gli ritornano ogni momento fra le mani. Il valore astratto e la sua determinazione in base ai costi di produzione sono appunto soltanto astrazioni, non cose.
 
Ma diamo ragione all'economista ancora per un altro istante. Come vuol determinarci i costi di produzione senza far comparire la concorrenza? Quando indagheremo i costi di produzione vedremo che anche questa categoria si basa sulla concorrenza e che anche a questo proposito si dimostra ancora una volta quanto poco l'economista sia in grado di sostenere fino in fondo le sue asserzioni.
 
Se passiamo a Say troviamo la medesima astrazione. L'utilità di una cosa è un elemento meramente soggettivo, né può essere determinata in assoluto e certamente non può venire determinata finché ci si trova impigliati in contraddizioni. Secondo questa teoria i bisogni necessari dovrebbero avere un valore maggiore degli articoli di lusso. L'unico metodo praticabile per giungere ad una decisione in qualche modo obiettiva e apparentemente universale circa la maggiore o minore utilità d'una cosa, sotto il dominio della proprietà privata, è il rapporto di concorrenza, che poi è proprio quel che bisogna lasciar da parte. Ma se si ammette la concorrenza si dovranno ammettere anche i costi di produzione; nessuno infatti vorrà vendere a meno di quanto abbia investito nella produzione. Anche qui dunque un lato dell'opposizione trapassa, senza che lo si voglia, nell'altro.
 
Tentiamo adesso di mettere un po' d'ordine in questa confusione. Il valore d'una cosa include entrambi quei fattori che le parti in contesa hanno separato forzatamente e, come abbiamo visto, senza successo. Il valore è il rapporto dei costi di produzione con l'utilità. La prima applicazione del valore si ha quando si decide se una cosa debba esser prodotta, ossia se l'utilità di essa compensi i costi di produzione. Soltanto se ciò si verifica si può parlare di applicazione del valore allo scambio. Assumendo che due cose abbiano lo stesso costo di produzione sarà la loro utilità il momento decisivo per determinare il loro valore comparativo.
 
Questa è l'unica base corretta dello scambio. Ma, partendo da essa, chi dovrà decidere circa l'utilità della cosa? La semplice opinione degli interessati? In tal modo uno di essi verrà comunque ingannato. Oppure una determinazione fondata sull'utilità inerente alla cosa, indipendentemente dalle parti in causa e non evidente per esse? Ma in tal modo lo scambio potrà avvenire solo mediante la costrizione e ciascuno si riputerà ingannato. Non è possibile sopprimere questa opposizione fra l'utilità reale inerente alla cosa e la determinazione di questa utilità, fra la determinazione dell'utilità e la libertà dei soggetti dello scambio, senza sopprimere la proprietà privata; solo quando essa sarà stata soppressa non si potrà più parlare d'uno scambio quale esiste adesso. La applicazione pratica del concetto di valore si restringerà allora sempre di più al momento della decisione circa l'opportunità di produrre o meno una cosa, e questa è la sua sfera vera e propria.
 
Ma ora come stanno le cose? Abbiamo visto come il concetto di valore è stato scisso a forza e che ciascuno dei singoli aspetti di esso viene spacciato per il tutto. I costi di produzione, alterati fin dall'inizio dalla concorrenza, debbono da soli rappresentare il valore e parimenti la mera utilità soggettiva, poiché un'altra non può esserci. Per far camminare con sicurezza queste definizioni zoppicanti, si dovrà ricorrere in entrambi i casi alla concorrenza; e il bello è che presso gli inglesi la concorrenza, rispetto ai costi di produzione, sta a rappresentare l'utilità, mentre per Say essa, rispetto all'utilità, rimunera i costi di produzione. Ma che utilità e che costi di produzione essa rimunera! La sua utilità dipende dal caso, dalla moda e dal capriccio dei ricchi, i suoi costi di produzione salgono e scendono secondo il rapporto casuale fra domanda e offerta.
 
A fondamento della distinzione fra valore reale e valore di scambio sta la circostanza che il valore d'una cosa è diverso dal cosiddetto equivalente che, nello scambio commerciale, viene dato per essa, il che significa che questo equivalente non è un equivalente. Questo cosiddetto equivalente è il prezzo della cosa e se l'economista fosse onesto userebbe questa parola per designare il «valore commerciale». Ma egli deve tuttavia mantenere una traccia della parvenza che il prezzo dipenda in qualche modo dal valore, affinché l'immoralità del commercio non sia visibile con assoluta chiarezza. È però del tutto giusto che il prezzo venga determinato dall'azione combinata dei costi di produzione e della concorrenza, ed anzi è una legge capitale della proprietà privata. Questa fu la prima cosa scoperta dall'economista, la mera legge empirica; e da essa egli astrasse poi il suo valore reale, ossia il prezzo nel momento in cui la concorrenza è bilanciata e la domanda e l'offerta coincidono; restano poi naturalmente da considerare i costi di produzione. Tutto ciò è chiamato dall'economista valore reale, mentre invece si tratta soltanto d'una determinazione specifica del prezzo. Ma in tal modo nell'economia tutto sta a testa in giù; il valore, che è l'origine e la fonte del prezzo, vien fatto dipendere da quest'ultimo, che è un suo prodotto. Notoriamente questo capovolgimento costituisce l'essenza dell'astrazione e su tale questione è opportuno consultare Feuerbach.
 
 
Secondo l'economista i costi di produzione d'una mercé constano di tre elementi: il canone fondiario per il terreno necessario a produrre la materia grezza, il capitale con il suo guadagno ed il salario del lavoro, che sono stati necessari alla produzione ed alla lavorazione. Ma si constata immediatamente che il capitale ed il lavoro sono identici, che sono gli stessi economisti a confessare che il capitale è «lavoro accumulato». Ci restano dunque solo due lati, il naturale ed oggettivo, il terreno, e l'umano e soggettivo, il lavoro, che include anche il capitale, ed oltre al capitale ancora un terzo elemento al quale l'economista non pensa e cioè l'elemento spirituale dell'invenzione, del pensiero, che si aggiunge a quello fisico del lavoro puro e semplice. Cosa può farsene l'economista dello spirito inventivo? Forse che tutte le invenzioni non gli sono venute a volo senza che egli facesse alcuna fatica? Forse che una di loro gli è costata qualcosa? Perché mai dovrebbe dunque preoccuparsene quando fa il calcolo dei costi di produzione? Per lui la terra, il capitale ed il lavoro sono le condizioni della ricchezza; oltre a queste egli non abbisogna di nulla. Della scienza non gli importa nulla. Non gli importa nulla se essa gli abbia fatto dei doni ad opera di Berthollet, Davy, Liebig, Watt, Cartwright ecc. che hanno fatto compiere immensi progressi a lui ed alla sua produzione. Egli non sa calcolare simili cose; i progressi della scienza vanno molto al di là delle sue cifre. Ma in uno stato di cose razionale che oltrepassi la spartizione degli interessi, quale ha luogo per l'economista, l'elemento spirituale appartiene certamente anch'esso agli elementi della produzione e troverà anche il suo posto fra i costi di produzione dell'economia. Qui è una soddisfazione sapere che il coltivare la scienza da anche delle ricompense materiali e che un singolo ritrovato della scienza, come ad esempio la macchina a vapore di Watt, ha reso al mondo, nei primi cinquant'anni della sua esistenza, più di quanto il mondo abbia speso per la scienza fin dal suo inizio.
 
Nella produzione agiscono dunque due elementi: la natura e l'uomo, e quest'ultimo, a sua volta, fisicamente e spiritualmente. Accertato questo possiamo adesso tornare all'economista ed ai suoi costì di produzione.
 
 
Tutto ciò che non può venire monopolizzato non ha valore, dice l'economista. Questa tesi la esamineremo più avanti. Se diciamo che non ha prezzo, la tesi cosi modificata è giusta in relazione allo stato di cose che si fonda sulla proprietà privata. Se la terra si potesse avere così facilmente come l'aria, nessuno pagherebbe più canoni fondiari. Ma poiché le cose non stanno così e l'estensione del terreno di cui si può prender possesso in un caso particolare è limitata, allora si paga il canone fondiario per la terra di cui si è preso possesso o che si è monopolizzata, oppure si paga per essa un prezzo d'acquisto. Ma è stupefacente, dopo aver appreso l'origine del valore della terra, sentir dire dall'economista che il canone fondiario è la differenza fra il prodotto dell'appezzamento di terra che paga il canone e quello del peggiore appezzamento coltivabile. Come è noto questa è la definizione del canone fondiario, sviluppata compiutamente da Ricardo per la prima volta. Questa definizione è certamente giusta nella pratica se si suppone che una caduta della domanda reagisca istantaneamente sul canone fondiario e provochi immediatamente l'abbandono della terra coltivata peggiore. Solo che ciò non avviene e dunque la definizione è insufficiente; inoltre essa non include la causale del canone fondiario e deve dunque perciò stesso essere abbandonata. Il colonnello T. P. Thompson, membro della Lega contro le leggi sul grano (167), rinnovò la definizione di Adam Smith in contrapposizione a questa e le diede un fondamento. Per lui il canone fondiario è il rapporto fra la concorrenza di coloro che ambiscono all'uso della terra e la quantità limitata del terreno disponibile. Qui, almeno, abbiamo un ritorno all'origine del canone fondiario; ma questa spiegazione esclude la differenza di fertilità della terra, così come la precedente trascura la concorrenza.
 
Abbiamo dunque ancora una volta due definizioni unilaterali, equindi dimidiate, dello stesso oggetto. Noi dovremo rimettere insieme queste due definizioni, come abbiamo già fatto per il concetto di valore, allo scopo di trovare quella giusta, che consegue dallo sviluppo della cosa e che, quindi, è una definizione che comprende tutta la prassi. Il canone fondiario è il rapporto fra la capacità produttiva del terreno, ossia il lato naturale (che a sua volta consta delle qualità naturali e dell'opera di coltivazione umana, del lavoro speso per migliorarle), ed il lato umano, la concorrenza. Gli economisti scuotano pure la testa su questa «definizione»; essi vedranno con orrore che essa contiene tutto quel che ha relazione con la cosa.
 
Il proprietario fondiario non ha diritto di rimproverare nulla al commerciante.
 
Egli ruba monopolizzando la terra. Egli ruba sfruttando a suo vantaggio l'aumento della popolazione, che fa crescere la concorrenza e quindi anche il valore dell'appezzamento, e rendendo una fonte del suo utile personale quel che non è stato prodotto dal suo lavoro, quel che per lui è del tutto casuale. Egli ruba quando concede in affitto, in quanto alla fine arraffa i miglioramenti che il suo fittavolo ha apportato. Ecco svelato il segreto del costante aumento della ricchezza dei grandi proprietari fondiari.
 
Gli assiomi che qualificano come furto il modo di guadagnare del proprietario, ossia che ciascuno ha diritto al prodotto del suo lavoro o che nessuno deve raccogliere quel che non ha seminato, non sono una nostra affermazione. Il primo esclude il dovere di nutrire i figli, il secondo esclude tutte le generazioni dal diritto all'esistenza, poiché ciascuna generazione accoglie l'eredità della generazione precedente. Si traggano dunque tutte le conseguenze oppure si rinunci alle premesse.
 
La stessa appropriazione originaria viene anzi giustificata con l'affermazione del diritto comune di possesso ancora antecedente ad essa. Ovunque ci rivolgiamo la proprietà privata ci porta a contraddizioni.
 
La commercializzazione della terra, che è la prima condizione d'esistenza di noi tutti, fu l'ultimo passo verso il commercio di se stessi; fu ed è fino ai nostri giorni una immoralità, che viene superata soltanto dall'immoralità della alienazione di sé. E l'appropriazione originaria, la monopolizzazione della terra da parte di una minoranza ristretta, l'esclusione di tutti gli altri dalle condizioni della loro vita, non cede in nulla, quanto a immoralità, alla più tarda commercializzazione della terra.
 
Se escludiamo nuovamente la proprietà privata, il canone fondiario si riduce alla sua verità, all'idea razionale che le sta a fondamento come sua essenza. Il valore separato dalla terra come canone fondiario ritorna quindi alla terra stessa. Questo valore, che si deve misurare mediante la capacità produttiva di eguali estensioni di terreno a parità di lavoro impiegatovi, compare certamente nel calcolo del valore dei prodotti come componente dei costi di produzione e, come il canone fondiario, è rappresentata dal rapporto fra la capacità produttiva e la concorrenza, ma la concorrenza vera, quale sarà sviluppata a suo tempo.
 
Abbiamo visto come, in origine, il capitale e il lavoro siano identici; dagli sviluppi degli economisti stessi vediamo inoltre come il capitale, risultato del lavoro, diventa immediatamente, nel processo produttivo, il sostrato, la materia del lavoro, così come la separazione, posta per un momento, fra il capitale ed il lavoro viene tosto superata nell'unità di entrambi; ciononostante l'economista separa il capitale dal lavoro, ne tiene ferma la scissione senza riconoscerne l'unità altrimenti che mediante la definizione del capitale: «lavoro accumulato». La scissione fra capitale e lavoro, derivante dalla proprietà privata, non è altro che la dilacerazione del lavoro in se stesso, corrispondente a questo stato di scissione e provocato da esso. E dopo che questa separazione ha sortito i suoi effetti il capitale si divide ancora una volta nel capitale originario e nel guadagno, nell'incremento del capitale che ad esso viene nel processo di produzione, benché la prassi stessa ritrasformi immediatamente questo guadagno in capitale e lo metta in circolo con questo. Persino il guadagno viene a sua volta suddiviso in interessi e guadagno vero e proprio. Negli interessi l'irrazionalità di queste divisioni è spinta al massimo grado. L'immoralità del prestito ad interesse, del ricevere denaro senza aver lavorato, per il semplice imprestito, benché già inerente alla proprietà privata, è tuttavia fin troppo visibile e già da lungo tempo nota alla smaliziata coscienza popolare, che in queste cose non sbaglia quasi mai. Tutte queste belle scissioni e divisioni nascono dalla separazione originaria del capitale dal lavoro e dal compimento di questa separazione nella scissione dell'umanità in capitalisti e lavoratori, scissione che ogni giorno si fa sempre più profonda e che, come vedremo, è destinata ad acuirsi sempre. Questa scissione, come la già considerata separazione della terra dal capitale e dal lavoro, è però impossibile in ultima istanza. È assolutamente impossibile determinare la misura dell'apporto della terra, del capitale e del lavoro ad un manufatto determinato. Le tre grandezze sono incommensurabili. La terra fornisce la materia prima, ma non senza il capitale e il lavoro, il capitale presuppone terra e lavoro ed il lavoro almeno la terra e, per lo più, anche il capitale. Le funzioni dei tre fattori sono di diversa natura, né possono essere commisurate secondo una quarta misura ad essi comune. Se dunque, nell'attuale situazione, si ripartiscono i proventi fra i tre dementi, ciò non avviene in virtù d'una misura ad essi inerente, ma decide una misura del tutto estranea e, rispetto ad essi, accidentale: la concorrenza ovvero il diritto del più forte nella sua forma raffinata. Il canone fondiario implica la concorrenza, il guadagno sul capitale viene determinato unicamente dalla concorrenza e per quanto riguarda il salario del lavoro vedremo subito come stanno le cose.
 
Se lasciamo cadere la proprietà privata, cadranno tutte queste scissioni innaturali. Cade la distinzione di interessi e guadagno; il capitale è nulla senza il lavoro, senza movimento. Il guadagno riduce la sua importanza al peso che il capitale pone sul piatto della bilancia al momento della determinazione dei costi di produzione e rimane quindi inerente al capitale, cosi come questo stesso ricade nella sua unità originaria col lavoro.
 
 
Il lavoro, l'elemento principale nella produzione, la «fonte della ricchezza», la libera attività umana, viene bistrattato dall'economista. Così come il capitale era già stato separato dal lavoro, adesso il lavoro viene scisso per la seconda volta; il prodotto del lavoro sta di fronte a questo come salario, è separato da esso, e viene a sua volta determinato come al solito dalla concorrenza, non esistendo, come abbiamo visto, una misura certa che consenta di determinare l'apporto del lavoro alla produzione. Se sopprimiamo la proprietà privata, viene a cadere anche questa separazione innaturale, il lavoro è il suo proprio salario ed emerge il vero significato del salario del lavoro precedentemente alienato: il significato del lavoro per la determinazione dei costi di produzione d'un oggetto.
 
Abbiamo visto come, finché sussista la proprietà privata, tutto finisca col confluire nella libera concorrenza. La proprietà privata è la categoria principale dell'economista, la sua figlia prediletta, che non si stanca mai di coccolare e vezzeggiare; ma fate attenzione al volto di Medusa che ne uscirà.
 
La prima conseguenza della proprietà privata fu la scissione della produzione in due parti contrapposte, la naturale e la umana; il suolo, che senza l'opera fecondatrice dell'uomo è morto e sterile, e la attività umana, che senza il suolo non può esplicarsi. Abbiamo visto inoltre come l'attività umana si dividesse, a sua volta, in lavoro e capitale e come ancora queste parti si contrappongano ostilmente. Avevamo dunque la lotta, l'uno contro gli altri, dei tre elementi e non il loro reciproco assistersi; a ciò si aggiunge adesso il fatto che la proprietà privata comporta l'ulteriore frammentazione di ciascuno di questi tre elementi. Un pezzo di terreno si contrappone ad un altro, un capitale all'altro, una forza-lavoro all'altra. In altre parole: poiché la proprietà privata isola ciascuno nella propria bruta singolarità e poiché ciascuno ha tuttavia il medesimo interesse del suo vicino, un proprietario fondiario si oppone all'altro, un capitalista all'altro, un lavoratore all'altro. In questo processo in cui eguali interessi divengono reciprocamente ostili proprio a causa della loro identità giunge a perfezione l'immoralità della presente condizione dell'umanità. Questa perfezione è la concorrenza.
 
L'opposto della concorrenza è il monopolio. Il monopalio fu il grido di guerra dei mercantilisti, la concorrenza il grido di battaglia degli economisti liberali. È facile avvedersi come questa opposizione sia assolutamente vuota. Ciascuno dei concorrenti non può non augurarsi di avere il monopolio, sia egli lavoratore, capitalista o proprietario fondiario. Ogni piccolo gruppo di concorrenti deve desiderare il monopolio contro tutti gli altri. La concorrenza sì fonda sull'interesse, e l'interesse genera, a sua volta, il monopolio; in breve, la concorrenza trapassa nel monopolio. Dall'altra parte il monopolio non può arrestare il flusso della concorrenza, anzi la genera esso stesso, come ad esempio il divieto di importazione o alte tariffe doganali generano addirittura la concorrenza del contrabbando. La contraddizione della concorrenza è del tutto identica alla contraddizione della proprietà privata. È interesse di ogni singolo possedere ogni cosa, ma è interesse della comunità che ciascuno possieda nella stessa misura. L'interesse generale e l'interesse individuale sono dunque diametralmente opposti. La contraddizione della concorrenza sta in ciò, che ciascuno deve desiderare il monopolio, mentre la comunità in quanto tale viene danneggiata dal monopolio e quindi deve eliminarlo. La concorrenza presuppone anzi il monopolio, ossia il monopolio della proprietà - e qui si manifesta ancora una volta l'ipocrisia dei liberali - e finché sussiste il monopolio della proprietà, la proprietà del monopolio è parimenti legittimata. Infatti anche il monopolio, una volta che esista, è proprietà. Quale pietosa meschinità è quindi quella di attaccare i piccoli monopoli lasciando sussistere il monopolio fondamentale. E se a questo proposito facciamo ancora ricorso al principio dell'economista, al quale abbiamo prima fatto cenno, che nulla ha valore se non può essere monopolizzato e che dunque quel che non ammette questa monopolizzazione non può entrare nell'arena della concorrenza, risulta completamente giustificata la nostra asserzione che la concorrenza presuppone il monopolio.
 
La legge della concorrenza è che la domanda e l'offerta si integrano sempre e che, proprio perciò, non si integrano mai. Entrambi i lati vengono di nuovo separati e trasformati in opposti inconciliabili. L'offerta segue sempre immediatamente la domanda, ma non giunge mai a soddisfarla esattamente; essa è troppo grande o troppo piccola, né corrisponde mai alla domanda, poiché in questa condizione di mancanza di coscienza dell'umanità non v'è nessuno che sappia quanto siano grandi questa o quella. Se la domanda supera l'offerta il prezzo sale e tale rialzo irrita, per così dire, l'offerta; non appena poi l'offerta fa la sua comparsa sul mercato, i prezzi scendono, e se poi finisce col superare la domanda, la caduta dei prezzi si fa così rilevante da stimolare nuovamente la domanda. Questo processo va avanti così indefinitamente, senza mai pervenire ad una condizione di sanità ma in una continua alternanza di eccitazione e di infiacchimento, senza mai giungere alla meta. Questa legge, con la sua costante compensazione, per cui quel che qui viene perduto viene riguadagnato altrove, incanta l'economista. Tutto ciò ne costituisce la gloria principale ed egli non è mai stanco di contemplarla, ma la considera in tutti i suoi rapporti, siano essi possibili o impossibili. Eppure è di un'evidenza tangibile che questa legge è una legge di natura e non una legge dello spirito. È una legge che genera la rivoluzione. L'economista vi si fa incontro con la sua bella teoria della domanda e dell'offerta, vi dimostra che «non si può mai produrre troppo»; la prassi replica con le crisi commerciali, che ritornano con la stessa regolarità delle comete e, al giorno d'oggi, con la frequenza media di una ogni cinque-sette anni. Queste crisi commerciali sono scoppiate, da ottantanni, con la stessa regolarità con la quale un tempo scoppiavano le grandi pestilenze ed hanno apportato più miseria ed immoralità di queste (cfr. Wade, «Hi-story of thè Middle and Working Classes», London 1835, p. 211).
 
Naturalmente questi sconvolgimenti del commercio confermano la legge, la confermano compiutamente, ma in maniera diversa da quella che l'economista vorrebbe farci credere. Che si dovrebbe pensare d'una legge che può affermarsi soltanto attraverso rivoluzioni periodiche? Si tratta appunto d'una legge di natura che si fonda sulla mancanza di coscienza di quanti sono coinvolti nel processo. Se i produttori conoscessero l'entità dei bisogni dei consumatori potrebbero organizzare la produzione, potrebbero ripartirsela fra loro, in modo che sarebbe resa impossibile l'oscillazione della concorrenza e la sua tendenza alla crisi. Se produrrete consapevolmente, da uomini, e non da atomi dispersi e privi della coscienza del genere, avrete superato tutte queste opposizioni artificiose e insostenibili. Ma finché contìnuerete a produrre nella maniera attuale, inconsapevole, dissennata, dominata dal caso, le crisi commerciali non cesseranno, anzi ogni crisi sarà più ampia, e dunque più grave della precedente, ridurrà in miseria una quantità maggiore di piccoli capitalisti e accrescerà in proporzione crescente il numero degli appartenenti alla classe di coloro che vivono del solo lavoro; accrescerà quindi la massa del lavoro da occupare -problema principale dei nostri economisti - e provocherà infine una rivoluzione sociale, quale la sapienza accademica degli economisti non è in grado di immaginarsi.
 
L'eterna oscillazione dei prezzi causata dalla concorrenza cancella dal commercio l'ultima traccia di moralità. Di valore non v'è più ombra; quello stesso sistema che, apparentemente, conferisce tanta importanza al valore, che alla astrazione del valore nel denaro da l'onore d'un'esistenza particolare, quel sistema distrugge con la concorrenza ogni valore inerente e modifica ad ogni ora e ad ogni istante il rapporto di valore di tutte le cose fra di loro. Dov'è più, in questo caos, la possibilità d'uno scambio fondato su princìpi morali? In questa continua oscillazione ciascuno è costretto a cercare di cogliere il momento più favorevole all'acquisto ed alla vendita, ciascuno deve diventare speculatore, ossia raccogliere dove non ha seminato, arricchirsi delle perdite altrui, contare sulla sfortuna di altri o lasciare che il caso gli porti dei profitti. Lo speculatore conta sempre sulle disgrazie, specialmente sui cattivi raccolti, fa tornare ogni cosa a suo vantaggio, come ad es. a suo tempo l'incendio di New York (211), e il culmine dell'immoralità è la speculazione sui titoli in borsa, con la quale la storia e, con essa, gli uomini, vengono degradati a mezzi per soddisfare l'avidità dello speculatore che calcola o gioca d'azzardo. E se almeno il rispettabile e «serio» commerciante non si elevasse farisaicamente al di sopra del gioco di borsa rendendo grazie al Signore ecc.! Egli non è migliore degli speculatori di borsa, ma specula quanto loro; deve farlo, costrettovi dalla concorrenza, sicché il suo commercio implica la medesima immoralità del gioco di borsa. La verità del rapporto di concorrenza è il rapporto della forza consumatrice alla forza produttrice. In una condizione degna della umanità non ci sarà altra concorrenza che questa. La comunità dovrà calcolare quanto essa potrà produrre con i mezzi a sua disposizione e determinare, secondo il rapporto di questa forza produttiva con la massa dei consumatori, in che misura dovrà accrescere o frenare la produzione, far delle concessioni al lusso o limitarlo. Ma allo scopo di giudicare rettamente intorno a questo rapporto ed all'accrescimento della forza produttiva che ci si può attendere da una organizzazione razionale della comunità invito i miei lettori a prender visione delle opere dei socialisti inglesi e, in parte, anche di Fourier.
 
La concorrenza soggettiva, la competizione di un capitale contro l'altro, di un lavoro contro un altro, ecc., si ridurrà, nelle circostanze descritte, alla emulazione che ha il suo fondamento nella natura umana e che, fino ad oggi, è stata trattata decentemente dal solo Fourier. Tale emulazione, una volta che siano stati eliminati gli interessi contrapposti, sarà limitata alla sua sfera peculiare e razionale.
 
La lotta del capitale contro il capitale, del lavoro contro il lavoro, della terra contro la terra provoca uno stato febbrile nella produzione che, in esso, capovolge tutti i rapporti naturali e razionali. Nessun capitale può resistere alla concorrenza dell'altro se non lo si porta al massimo grado di attività. Nessun terreno potrà esser coltivato con profitto se non accresce costantemente la sua capacità produttiva. Nessun lavoratore può sopravvivere ai suoi concorrenti senza impegnare nel lavoro tutte le sue energie. Nessuno che entri nella lotta della concorrenza può sostenerla senza tendere al massimo le sue energie e senza rinunziare ad ogni scopo autenticamente umano. La conseguenza di questa tensione eccessiva da un lato è necessariamente un infiacchimento dall'altro lato. Quando l'oscillazione della concorrenza è minima, quando la domanda e l'offerta, la produzione e il consumo si trovano quasi in equilibrio, nello sviluppo della produzione deve intervenire una fase nella quale la forza produttiva oltrepassa di tanto la quantità richiesta che la gran massa della nazione non ha di che vivere, che la gente muore di fame a causa della sovrabbondanza.
 
In questa situazione folle, in questa vivente assurdità si trova già da un certo tempo l'Inghilterra. Se la produzione oscilla maggiormente, come avviene necessariamente in conseguenza d'un simile stato di cose, si ha l'alternarsi di prosperità e di crisi, di sovrapproduzione e di ristagno. L'economista non ha mai saputo spiegarsi questa pazza situazione; per cercare di capirla ha inventato la teoria della popolazione, che è parimenti dissennata, anzi ancora più dissennata di questa contraddizione di ricchezza e miseria in uno stesso periodo. L'economista non poteva scorgere la verità; non poteva accorgersi che questa contraddizione è una semplice conseguenza della concorrenza, poiché altrimenti tutto il suo sistema sarebbe crollato.
 
Per noi invece è facile spiegare questo fenomeno. La forza produttiva di cui l'umanità dispone è smisurata. La fertilità del suolo può essere accresciuta all'infinito col concorso del capitale, del lavoro e della scienza. La «sovrappopolata» Gran Bretagna, secondo i calcoli degli economisti e degli statisti più valenti (cfr. Alison, «Principles of population», vol. 1, cap. 1 et 2), può nello spazio di dieci anni, giungere a produrre frumento sufficiente al consumo di una popolazione sei volte più numerosa dell'attuale. Il capitale si accresce di giorno in giorno; la forza lavoro cresce col crescere della popolazione, e la scienza assoggetta ogni giorno di più le energie naturala all'uomo. Questa immensa capacità produttiva, se adoperata con consapevolezza e nell'interesse di tutti, ridurrebbe ben presto ad un minimo il lavoro spettante all'umanità; abbandonata alla concorrenza essa provoca gli stessi effetti, ma nel contrasto. Una porzione della terra viene coltivata nel modo migliore mentre un'altra - in Gran Bretagna e in Manda ben 30 milioni di acri di buona tema - resta incolta. Una parte del capitale circola con incredibile celerità, un'altra giace morta nella cassaforte. Una parte dei lavoratori lavora da quattordici a sedici ore al giorno, mentre un'altra resta pigra e inoperosa e muore di fame. Oppure, da questa contemporaneità, scaturisce la distribuzione: oggi il commercio rende, la domanda è notevole, tutti lavorano, il capitale cambia di mano con prodigiosa velocità, l'agricoltura prospera, i lavoratori lavorano fino allo stremo; domani si ha invece un ristagno, l'agricoltura cessa d'essere remunerativa, grandi estensioni di terra restano incolte, il capitale si arresta nel bel mezzo della circolazione, i lavoratori non hanno più occupazione e tutto il paese patisce d'un eccesso di ricchezza e d'un eccesso di popolazione.
 
L'economista non può ammettere che le cose vadano così; altrimenta, come s'è detto, egli dovrebbe rinunciare al suo sistema della concorrenza, dovrebbe avvedersi della vacuità dell'opposizione di produzione e consumo, di popolazione eccedente e ricchezza eccedente. Epperò, posto che il fatto non poteva essere negato, allo scopo di mettere questo fatto d'accordo con la teoria, si inventò la teoria della popolazione.
 
Malthus, autore di questa dottrina, afferma che la popolazione esercita costantemente una pressione sui mezzi di sussistenza, e che non appena la produzione si accresce la popolazione aumenta nella stessa proporzione e che la tendenza inerente alla popolazione, di accrescersi al di là dei mezzi di sussistenza disponibili, è causa di ogni miseria e di ogni vizio. Infatti, quando ci sono troppi uomini, essi debbono esser tolti di mezzo in un modo o nell'altro, debbono esser soppressi violentemente o morire di fame. Ma quando ciò si verifica ecco che abbiamo ancora una volta una lacuna, che viene immediatamente ricolmata da altri fattori di incremento della popolazione, sicché la miseria di prima ricompare. Ciò avviene in qualunque condizione, non solo nello stato civile, ma anche in quello di natura; i selvaggi della Nuova Olanda (* antica denominazione dell'Australia), ciascuno dei quali dispone d'un miglio quadrato, sono afflitti dalla sovrappopolazione non meno dell'Inghilterra. In breve, se vogliamo esser coerenti, dobbiamo ammettere che la terra era già sovrappopolata quando esisteva un solo uomo. Le conseguenze di questo ragionamento sono che, dal momento che i poveri sono appunto quelli in sovrannumero, non si deve far nulla per essi se non facilitar loro al massimo la morte per fame, convincerli che non si può cambiar niente e che per tutta la loro classe non c'è altra salvezza che non sia una riduzione al minimo possibile della riproduzione o, qualora non si riuscisse a persuaderli, istituire un'organizzazione statale per l'uccisione indolore dei figli dei poveri, quale l'ha proposta «Marcus» (212), per il quale nessuna famiglia di lavoratori dovrebbe avere più di due figli e mezzo, mentre quella in soprannumero dovrebbero venire uccisi in modo indolore. Fare elemosine sarebbe un delitto, poiché sostiene l'incremento della popolazione eccedente; ma sarà al contrario molto vantaggioso fare della povertà un delitto e delle case dei poveri degli istituti carcerari, come è già avvenuto in Inghilterra ad opera della «liberale» nuova legge sui poveri (110). È bensì vero che questa teoria non concorda molto con la dottrina biblica della perfezione di Dio e della sua creazione, ma «è una cattiva confutazione schierare in campo la Bibbia contro i fatti»!
 
Debbo esporre ancora più esplicitamente e seguire ulteriormente nelle sue conseguenze questa dottrina nefanda e infame, questa orrenda bestemmia contro la natura e l'umanità? Qui abbiamo finalmente portato al culmine l'immoralità dell'economista. Cosa sono tutte le guerre e gli orrori del sistema monopolista di fronte a questa teoria? E proprio essa è la chiave di volta del sistema liberale della libertà di commercio, il cui crollo provocherebbe la rovina dell'intero edificio. Se infatti qui abbiamo dimostrato che la concorrenza è la causa della miseria, della povertà e del delitto, chi oserà ancora parlare in suo favore?
 
Nel libro che abbiamo sopra citato Alison ha assestato un duro colpo alla teoria di Malthus facendo appello alla capacità produttiva della terra ed opponendo al principio malthusiano il fatto che ogni uomo adulto può produrre più di quanto egli stesso consuma, che è un fatto senza del quale l'umanità non soltanto non potrebbe accrescersi, ma neppure sussistere; di che cosa vivrebbero altrimenti i non ancora adulti? Ma Alison non va fino in fondo e quindi, alla fine, giunge allo stesso risultato di Malthus. Egli dimostra bensì che il principio di Malthus è errato, ma non sa negare i fatti che indussero Malthus ad enunciare il suo principio.
 
Se Malthus non avesse considerato la questione così unilateralmente, avrebbe dovuto essersi accorto che la popolazione o la forza-lavoro in eccesso è sempre connessa ad un'eccedenza di ricchezza, di capitale e di proprietà fondiaria. La popolazione è troppo numerosa solo dove la forza produttiva è troppo grande. Lo dimostra con la massima evidenza la condizione di ogni paese sovrappopolato, in questo caso dell'Inghilterra, a partire dal tempo in cui Malthus scrisse le sue opere. Malthus avrebbe dovuto considerare questi fatti nel loro insieme e la considerazione di essi avrebbe dovuto portare al risultato giusto; invece egli ne prese soltanto uno, trascurando glialtri, e giunse quindi al suo folle risultato. Il secondo errore che egli commise fu lo scambio di mezzi di sussistenza ed occupazione. È bensì merito di Malthus aver constatato che la popolazione fa sempre pressione sui mezzi dell'occupazione, che vengono generati tanti uomini quanti ne possono venire occupati, in breve, che la riproduzione della forza-lavoro è stata finora regolata dalla legge della concorrenza ed è stata quindi esposta alle crisi ed alle oscillazioni periodiche. Ma i mezzi dell'occupazione non sono i mezzi di sussistenza. I mezzi dell'occupazione vengono accresciuti soltanto ne1 loro risultato finale ad opera della forza delle macchine e del capitale; i mezzi di sussistenza si accrescono non appena la forza produttiva viene accresciuta di una qualche quantità. Qui emerge ancora una contraddizione dell'economia. La domanda dell'economista non è la domanda reale ed il suo consumo è fittizio. Per l'economista è un reale richiedente o un reale consumatore soltanto colui che può offrire un equivalente in cambio di ciò che riceve. Ma se è un fatto che ogni adulto produce più di quanto egli stesso non possa consumare, se è un fatto che i fanciulli sono come degli alberi, che restituiscono in sovrabbondanza quanto è stato speso per coltivarli - e non sono fatti questi? - si dovrebbe ritenere che ciascun lavoratore dovrebbe produrre molto di più di quanto non gli occorra, e la comunità dovrebbe quindi fornirgli volentieri tutto quanto gli abbisogna e si dovrebbe pensare che una famiglia numerosa sia un dono che la comunità dovrebbe desiderare. Ma l'economista, nella sua visione rozza, non conosce altro equivalente che non sia quello che gli viene corrisposto in forma di tangibile moneta sonante. Egli se ne sta tanto saldo nelle sue opposizioni che i fatti più clamorosi lo lasciano altrettanto indifferente dei principi più scientifici.
 
Noi, semplicemente, annulliamo la contraddizione superandola. Fondendo gli interessi finora contrapposti si dilegua l'opposizione fra la sovrappopolazione qui el'eccesso di ricchezza li, si dilegua il fatto prodigioso, più prodigioso di tutti i prodigi di tutte le religioni messe insieme, che una nazione debba morire di fame a causa della ricchezza e della sovrabbondanza; si dilegua la folle tesi che la terra non abbia la capacità di nutrire gli uomini. Questa tesi è il culmine dell'economia cristiana; che la nostra economia sia cristiana nella sua essenza avrei potuto dimostrarlo a proposito d'ogni teorema e d'ogni categoria e lo farò anche a suo tempo (213); la teoria malthusiana non è se non l'espressione economica del dogma religioso della contraddizione di spirito e natura e della conseguente corruzione di entrambi. Io spero d'aver dimostrato l'inconsistenza di questa contraddizione, che è superata per la religione e si è da lungo tempo dissolta con essa; inoltre non accoglierò come pertinente nessuna difesa della teoria di Malthus che preliminarmente non mi spieghi sulla base del suo principio come possa avvenire che un popolo possa morire di fame a causa della sovrabbondanza e non metta d'accordo questo fatto con la ragione e con i fatti.
 
La teoria malthusiana è stata d'altronde un punto di transizione assolutamente necessario, che ci ha fatto compiere enormi passi avanti. Grazie ad essa e, in generale, grazie all'economia, abbiamo cominciato a volgere l'attenzione alla forza produttiva della terra e dell'umanità e, dopo il superamento di questa disperazione economica siamo stati liberati una volta per tutte dal timore della sovrappopolazione. Da essa traiamo gli argomenti economici più forti in favore d'una trasformazione della società; infatti, anche se Malthus avesse completamente ragione, bisognerebbe immediatamente proporsi questa trasformazione, poiché soltanto essa, soltanto l'educazione che mediante essa si dovrebbe dare alle masse, rende possibile quella limitazione morale dell'istinto della riproduzione che lo stesso Malthus considera il rimedio più efficace ed agevole contro la sovrappopolazione. Grazie a questa teoria abbiamo imparato a conoscere la massima degradazione dell'umanità e la sua dipendenza dal rapporto della concorrenza; essa ci ha mostrato come, in ultima istanza, la proprietà privata abbia fatto dell'uomo una merce, la cui produzione ed il cui annientamento dipende anche ed esclusivamente dalla domanda, come il sistema della concorrenza abbia cosi sterminato e stermini ogni giorno milioni di uomini; tutto ciò abbiamo visto, e tutto ciò ci spinge .alla soppressione di questa degradazione dell'umanità attraverso la soppressione della proprietà privata, della concorrenza e degli interessi contrapposti.
 
Ma per togliere ogni fondamento al timore universalmente diffuso della sovrappopolazione torniamo ancora una volta a considerare il rapporto della forza produttiva con la popolazione. Malthus fa un calcolo sul quale poi basa tutto il suo sistema. La popolazione si accresce in progressione geometrica: 1+2 + 4 + 8 + 16 + 32 ecc., la capacità produttiva del suolo in progressione aritmetica: 1+2 + 3 + 4 + 5 + 6. La differenza è evidentissima e suscita terrore; ma è giusta? Dove è mai dimostrato che la fertilità del suolo si accresce in progressione aritmetica? L'estensione del suolo è limitata, e questo è vero. La forza-lavoro che può essere spesa su questa superficie cresce con la popolazione; assumiamo anche che l'incremento del prodotto dovuto all'incremento del lavoro non si verifichi nella medesima proporzione dell'incremento del lavoro; resta tuttavia ancora un terzo elemento che l'economista non prende mai in considerazione: la scienza, il cui progresso è infinito ed almeno altrettanto rapido dell'accrescimento della popolazione. Di quali progressi non è debitrice l'agricoltura di questo secolo soltanto alla chimica, anzi soltanto all'opera di due uomini, Sir Humphry Davy e Justus Liebig? La scienza cresce almeno quanto la popolazione; quest'ultima si accresce in rapporto al nomero dell'ultima generazione; la scienza progredisce in rapporto alla somma di tutte le conoscenze che ha ereditato dalle generazioni precedenti, e dunque, nelle circostanze più comuni, anche in progressione geometrica. Che c'è di impossibile per la scienza? Ma è ridicolo allora parlare di sovrappopolazione finché «la valle del Mississippi ha tanto terreno incolto da potervi trasferire tutta la popolazione d'Europa» (214), finché solo un terzo della terra può esser considerato coltivato e la produzione di questo terzo può ancora essere accresciuta di sei volte e più mediante l'applicazione degli espedienti oggi già noti.
 
La concorrenza oppone dunque capitale a capitale, lavoro a lavoro, proprietà fondiaria a proprietà fondiaria, e ciascuno di questi elementi a tutti gli altri. Nella lotta prevale il più forte e, allo scopo di prevedere l'esito di questa lotta, dovremo studiare la forza degli avversari in campo. Anzitutto la proprietà fondiaria ed il capitale sono, ciascuno, più forti del lavoro. Infatti il lavoratore deve lavorare per vivere, mentre il proprietario fondiario può vivere delle sue rendite ed il capitalista dei suoi interessi e, in caso di necessità, del suo capitale o del possesso fondiario capitalizzato. La conseguenza di ciò è che al lavoro spetta soltanto lo stretto necessario, i meri mezzi di sussistenza, mentre la massima parte dei prodotti si ripartisce fra il capitale ed il possesso fondiario. Il lavoratore più forte scaccia inoltre dal mercato il più debole, il capitale maggiore quello minore, il possesso fondiario più grande quello più piccolo. La prassi conferma questa conclusione. Sono noti i vantaggi dell'industriale e del commerciante più grosso sul più piccolo, dei grande proprietario fondiario sul proprietario d'un solo iugero. La conseguenza di ciò è che, in circostanze normali, il grande capitale e la grande proprietà fondiaria divorano, secondo il diritto del più forte, il capitale e la proprietà fondiaria più piccoli; la conseguenza è la centralizzazione del possesso. Nelle crisi commerciali ed agricole la centralizzazione si compie assai più rapidamente. La grande proprietà si accresce assai più rapidamente della piccola, poiché dal ricavato complessivo viene detratta una parte assai più piccola da spendere per la proprietà. Questa centralizzazione del possesso è una legge immanente alla proprietà privata non meno di tutte le altre leggi; le classi medie tendono sempre di più a scomparire, finché il mondo sarà diviso in milionari e poveri, in grandi proprietari terrieri e poveri giornalieri. Tutte le leggi, ogni divisione della proprietà fondiaria, qualsiasi scorporazione del capitale non sortisce alcun effetto. Questo esito è necessario e si verificherà, a meno che non intervenga un totale rivoluzionamento dei rapporti sociali, una fusione degli interessi contrapposti, una soppressione della proprietà privata.
 
La libera concorrenza, che è la battuta con la quale per lo più esordiscono i nostri economisti alla moda, è impossibile. Il monopolio aveva almeno l'intenzione, pur non avendo potuto realizzarla, di tutelare il consumatore dalla frode. Ma l'abolizione del monopolio spalanca porte e finestre alla frode. Voi dite che la concorrenza ha in se stessa il rimedio contro la frode, dite che nessuno acquisterà degli articoli scadenti, e cioè presupponete che ognuno sia un esperto di ogni articolo, il che è impossibile, donde la necessità del monopolio che si mostra anche in molti articoli. Le farmacie ecc. debbono avere un monopolio, e l'articolo più importante, il denaro, necessita più d'ogni altro del monopolio. Il mezzo circolante ha dato luogo ad una crisi commerciale tutte le volte che ha cessato d'essere monopolio dello Stato, e gli economisti inglesi, fra gli altri il dottor Wade, ammettono anche la necessità di questo monopolio. Ma il monopolio è impotente contro il denaro falsificato. Qualunque sia il lato dell'alternativa che si sceglie, ciascuno da luogo a difficoltà gravi quanto l'altro, il monopolio genera la libera concorrenza e questa ancora il monopolio; perciò entrambe le cose devono essere eliminate e questa difficoltà dovrà essere rimossa eliminando il principio che la genera.
 
La concorrenza ha penetrato tutti gli aspetti della nostra vita ed ha portato a perfezione la reciproca schiavitù nella quale oggi vivono gli uomini. La concorrenza è l'impulso potente che sprona continuamente all'attività il nostro ordine, o meglio il nostro disordine sociale, che è vecchio e si fa sempre più fiacco, ma che, ad ogni nuovo sforzo, consuma anche una parte delle energie declinanti. La concorrenza governa il progresso numerico dell'umanità, ma ne governa anche il progresso morale. Chi abbia una certa familiarità con la statistica della criminalità non potrà non aver notato la caratteristica regolarità con la quale, annualmente, aumentano i delitti, con la quale determinate cause danno luogo a determinati delitti. L'estensione del sistema delle fabbriche ha dovunque la conseguenza di aumentare la criminalità.
 
Si può prevedere con una precisione sempre crescente il numero degli arresti, dei crimini, addirittura il numero degli assassìni!, dei furti con scasso, dei piccoli furti ecc. che si verificheranno annualmente in una grande città o in un distretto, come è di frequente avvenuto in Inghilterra. Questa regolarità prova che anche il delitto viene governato dalla concorrenza, che la società genera una domanda di delitti che viene soddisfatta da una adeguata offerta, che la lacuna che ha origine dall'arresto, dalla deportazione o dall'esecuzione capitale d'un certo numero di persone viene immediatamente colmata da altre persone, esattamente al modo in cui ogni lacuna nella popolazione viene immediatamente colmata da nuovi venuti, in altre parole prova che il delitto esercita sui mezzi della punizione una pressione pari a quella che le popolazioni esercitano sui mezzi dell'occupazione. Quanto sia giusto in queste circostanze, trascurando ogni altra cosa, punire i delinquenti, voglio lasciarlo giudicare al lettore. Qui mi preme soltanto dimostrare come la concorrenza si estenda anche al campo della morale e far vedere a che punto di degradazione l'uomo sia stato spinto dalla proprietà privata.
 
Nella lotta del capitale e della terra contro il lavoro i primi due elementi hanno ancora un particolare vantaggio rispetto al lavoro: l'aiuto della scienza. Anche questa, infatti, nelle attuali circostanze è diretta contro il lavoro. Quasi tutte le invenzioni meccaniche, per es., sono state occasionate dalla carenza di forza-lavoro, come in particolare le macchine filatrici di cotone di Hargreaves, di Crompton ed Arkwright. Non è mai avvenuto che il lavoro fosse molto richiesto senza che da ciò non scaturisse una invenzione che accrescesse notevolmente la forza-lavoro e dunque distogli esse la domanda dal lavoro umano. La storia d'Inghilterra, dal 1770 fino ad oggi, ne è una continua dimostrazione. L'ultima grande invenzione nel campo della filatura del cotone, la selfacting mule, fu occasionata esclusivamente dalla richiesta di lavoro e dall'aumento dei salari; essa raddoppiò il lavoro meccanico e ridusse dunque della metà il lavoro manuale, gettò la metà dei lavoratori nella disoccupazione e quindi abbassò della metà il salario degli altri; annientò una congiura dei lavoratori contro gli industriali e distrusse l'ultimo residuo di energia con la quale il lavoro aveva potuto ancora affrontare l'impari lotta contro il capitale (cfr. Dr. Ure, «Philosophy of Manufactures», vol. 2). L'economista dice bensì che, nel risultato finale, la meccanizzazione torna a vantaggio dei lavoratori in quanto rende più economica la produzione ed apre quindi un nuovo grande mercato per i suoi prodotti e quindi finisce per ridare l'occupazione a quei lavoratori cui aveva tolto il lavoro. Del tutto giusto; ma l'economista non dimentica che la produzione della forza-lavoro viene regolata dalla concorrenza, che la forza-lavoro preme sempre sui mezzi dell'occupazione e che, dunque, proprio quando questi vantaggi debbono poter essere goduti, abbiamo già di nuovo una eccedenza di concorrenti al lavoro in attesa di quei vantaggi, che li renderà illusori, mentre non è illusorio lo svantaggio, l'improvvisa sottrazione dei mezzi di sussistenza per una metà e la caduta del salario per l'altra metà dei lavoratori? Non dimentica l'economista che il progresso delle invenzioni non si arresta mai e che, dunque, questo svantaggio si perpetua? Non dimentica egli che, a causa della divisione del lavoro spinta all'infinito dalla nostra civiltà, un lavoratore è in condizione di vivere solo se può essere addetto a questa determinata macchina, per svolgere questo lavoro determinato e irrilevante? Non dimentica che il passaggio da una occupazione ad un'altra e diversa è, quasi sempre, impossibile per il lavoratore adulto?
 
Esaminando gli effetti dela meccanizzazione giungo ad un nuovo tema, più remoto da questo, il sistema delle fabbriche, che non ho qui tempo e voglia di trattare. Spero però di aver presto l'occasione di svolgere ampiamente l'orrenda immoralità di questo sistema e di smascherare spietatarnente l'ipocrisia degli economisti, che qui si manifesta in tutto il suo splendore (215).
 
Scritto alla fine del 1843 - gennaio 1844.
«Deutsch-Franzosische Jahrbucher» Paris, 1844.
 
Note:
 
110) Si tratta della legge sul pauperismo ("An act for the amendment and better administration of the laws, relating to the poor England and Wales") entrata in vigore il 14 agosto 1834 e che consentiva un solo tipo di assistenza ai poveri, il loro collocamento ai lavori coatti. Queste case di lavoro furono dette dal popolo "bastiglie della legge sui poveri".
 
167) La Lega contro le leggi sul grano (Anti-Corn-Law League), fondata nel 1838 dagli industriali Cobden e Bright a Manchester, era un'organizzazione liberista organizzata in Inghilterra dai capitalisti industriali che miravano insieme a indebolire le posizioni della grande proprietà fondiaria e ad abbassare il livello dei salari. Le leggi sul grano che limitavano o impedivano importazioni di cereali dall'estero, avevano l'effetto di mantenere elevato il prezzo del grano e quindi anche il livello dei salari. Nella loro lotta contro i proprietari fondiari, gli industriali liberali tentarono di allearsi alle masse operaie, ma proprio in questo periodo in Inghilterra divenne politicamente attivo il primo movimento operaio autonomo (il cartismo), che si schierò contro l'abolizione delle leggi sul grano e in genere, sulla base delle rivendicazioni enunciate nella "Carta del Popolo", contro l'alleanza con il liberalismo. Le leggi sul grano saranno abrogate nel 1846.
 
210) È il primo scritto di economia politica di Engels. Costituiva uno dei lavori più importanti pubblicati nei «Deutsch-Franzosische Jahrbùcher» e insieme agli articoli programmatici di Marx determinò l'impostazione comunista della rivista. Marx espresse grande considerazione per questo lavoro di Engels e ne scrisse un compendio (nel presente volume, pp. 411 - 412). In seguito lo citerà più volte nelle sue opere. Nella prefazione alla prima edizione di «Per la critica dell'economia politica» (1859) lo definì «uno schizzo geniale di critica delle categorie economiche». Nonostante alcuni tratti di immaturità - d'altronde inevitabili nello stadio iniziale di formazione delle idee -, l'influenza dell'umanesimo astratto di Feuerbach non ancora completamente superato, un approccio unilaterale della teoria del valore lavoro ecc. (manchevolezze cui Engels stesso accennerà in maniera generale nella sua lettera a Wilhelm Liebknecht del 13 aprile 1876), lo scritto conteneva profonde anticipazioni della nuova teoria economica materialista.
 
211) II riferimento è all'incendio di New York del 16 dicembre 1835.
 
212) Marcus è lo pseudonimo dell'autore di vari opuscoli apparsi in Inghilterra nei quali si propagandava la teoria malthusiana, in particolare: «On the possibility of limiting populousness», stampato da John Hill, Black Horse Court, Fleet Street, 1838 e «The theory of painless extinction», la cui pubblicazione fu an nunciata sul «New Moral World» del 29 agosto 1840.
 
213) In base al materiale disponibile, è difficile stabilire a quale progetto letterario questa dichiarazione si riferisce. Probabilmente Engels si riferiva alla storia sociale dell'Inghilterra che aveva intenzione di scrivere e cui accenna alla fine di questo stesso saggio (vedi presente vol., p. 481 e nota 215). Nella sua serie di articoli, «La situazione dell'Inghilterra», che è un breve abbozzo preliminare di tale opera, Engels considera l'insegnamento economico di Adam Smith e le teorie utilitaristiche di Jeremy Bentham e James Mill una teorizzazione del dominio della proprietà privata, dell'egoismo, dell'alienazione dell'uomo, che rappresentano la realizzazione dei principi derivanti dalla visione e dall'ordine del mondo cristiani (vedi presente volume, pp. 526-527). È probabile, tuttavia, che Engels progettasse un lavoro specifico di carattere economico. Un anno dopo, ad esempio, Engels accenna all'intenzione di preparare un opuscolo sull'economista tedesco List (vedi la sua lettera a Marx del 19 novembre 1844, nella presente edizione, vol. XXXVIII, p. 11).
 
214) Archibald Alison, «The principles of population...», London, 1840, vol. I, p. 548.
 
215) Engels si riferisce qui al progetto di una storia sociale dell'Inghilterra, per la quale aveva raccolto la documentazione durante il suo soggiorno inglese (novembre 1842 - agosto 1844). Engels intendeva includere in quest'opera un capitolo interamente dedicato alila situazione degli operai inglesi. In seguito Engels mutò il suo piano e decise di dedicaire un lavoro specifico al proletariato inglese, che scrisse dopo il suo ritorno in Germania. Il libro, «La situazione della classe operaia in Inghilterra», apparve a Lipsia nel 1845 (nella presente edizione, vol. IV).
 

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