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iper-classici del marxismo - 20.06.02
Testo messo a disposizione da Edizioni
La Città del Sole conversione in html a cura del CCDP
Karl Marx
Il testo apparve in cinque
articoli nella Neue Rheinische Zeitung a partire dal 4 aprile 1849
sulla base di conferenze che Marx tenne nel 1847 all’Associazione degli operai
tedeschi di Bruxelles
Traduzione conforme a quella delle Edizioni in lingue estere di
Mosca
Avvertenza:
Le note di corredo non sono dell'autore
Introduzione del 1891 di Friedrich Engels
Lavoro salariato e capitale
Cap. I
Cap. II
Cap. III
Cap. IV
Cap. V
Note
Introduzione del 1891 di Friedrich Engels
Lo scritto che segue apparve come serie di articoli editoriali nella Neue Rheinische Zeitung, a partire dal 4
aprile 1849. Base di esso sono le conferenze che Marx tenne nel 1847 alla
Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles. La sua pubblicazione fu
interrotta; il “continua”, che si trova alla fine dell’articolo pubblicato nel
numero 269, non ebbe alcun seguito a causa del precipitare degli avvenimenti,
della marcia dei russi in Ungheria, delle insurrezioni di Dresda, di Iserlohn,
di Elberfeld, del Palatinato e del Baden, che portarono alla soppressione del
giornale (19 maggio 1849). Il manoscritto del seguito non è stato trovato tra
le carte lasciate da Marx1.
Lavoro salariato e capitale
è stato pubblicato parecchie volte come opuscolo; l’ultima volta nel 1884,
Hottingen-Zürich, Tipografia cooperativa svizzera. Tutte queste edizioni
riproducevano, sinora, il testo esatto dell’originale. Ma poiché l’attuale
ristampa dovrà essere diffusa come opuscolo di propaganda e avrà una tiratura
non inferiore alle 10.000 copie, mi si è posta la questione se, in queste
condizioni, Marx stesso avrebbe permesso una riproduzione integrale
dell’originale.
Tra il 1840 e il 1850 Marx non aveva ancora condotto a termine la sua critica
dell’economia politica. Ciò avvenne solo verso la fine del decennio 1850-1860.
I suoi scritti apparsi prima del primo fascicolo: Per la critica dell’economia politica (1859), si allontanano
quindi in taluni punti da quelli che furono composti dopo il 1859, contengono
espressioni e interi periodi che, confrontati con gli scritti successivi,
appaiono infelici e perfino inesatti2. É evidente
che in edizioni comuni, destinate al gran pubblico anche questo punto di vista
primitivo, che fa parte della evoluzione mentale dell’autore, trova il suo
posto, e che l’autore e il pubblico hanno innegabilmente diritto alla edizione
di questi vecchi scritti senza alcuna modificazione. Mai mi sarei sognato di
cambiare una parola3.
Le cose stanno altrimenti, invece, quando la nuova edizione è destinata quasi
esclusivamente alla propaganda fra gli operai. In questo caso Marx avrebbe
senza dubbio messo in accordo la vecchia esposizione che risale al 1849 con il
suo nuovo modo di vedere; ed io sono sicuro di agire secondo l’animo suo,
apportando a questa edizione4 le poche varianti ed aggiunte che sono indispensabili
per raggiungere questo scopo in tutti i punti essenziali. Dico quindi subito al
lettore che questo non è l’opuscolo quale Marx lo aveva steso nel 1849, ma è
presumibilmente quale egli lo avrebbe scritto nel 1891. Il testo originale, del
resto, è diffuso in così gran numero di copie, che basteranno fino a tanto che
non potrò ristamparlo, senza modificazioni né aggiunte, in una ulteriore
edizione delle opere complete.
Le mie modificazioni si aggirano tutte attorno ad un sol punto. Secondo
l’originale, l’operaio vende al capitalista, per un salario, il suo lavoro; secondo il testo attuale egli
vende la sua forza-lavoro. A
proposito di questa modificazione devo dare una spiegazione. Una spiegazione
agli operai, perché essi vedano che non si tratta di una pedanteria verbale, ma
piuttosto di uno dei punti più importanti di tutta l’economia politica. Una
spiegazione ai borghesi, perché essi possano convincersi della enorme
superiorità degli operai incolti, ai quali si possono rendere facilmente
comprensibili i problemi più difficili dell’economia, sui nostri presuntuosi
uomini «colti», cui tali questioni intricate restano insolubili per tutta la
vita.
L’economia politica classica5 prese dalla pratica
industriale la rappresentazione corrente del fabbricante, il quale comprerebbe
e pagherebbe il lavoro dei suoi operai. Per l’uso commerciale, per la
contabilità e per il calcolo dei prezzi del fabbricante, questa
rappresentazione era più che sufficiente. Ma trasportata in modo ingenuo nella
economia politica, essa vi generò errori e confusioni strane.
L’economia si trova di fronte al fatto che i prezzi di tutte le merci, e fra questi
anche il prezzo della merce che essa chiama “lavoro”, variano continuamente;
che essi salgono e scendono in seguito a circostanze molto svariate, che spesso
non sono in relazione alcuna con la produzione della merce, cosicché di regola
i prezzi sembrano determinati dal puro caso. Non appena l’economia si presentò
come una scienza6, uno dei suoi primi compiti fu
di cercare la legge che si nasconde dietro a questo caso che apparentemente
regge i prezzi delle merci, la legge che, in realtà, regge questo caso stesso.
Fra i prezzi delle merci che continuamente oscillano e si spostano ora in alto,
ora in basso, essa cercò il punto centrale fisso attorno al quale si compiono
queste oscillazioni e questi spostamenti. In una parola, essa partì dai prezzi delle merci per cercare, come legge
che li regola, il valore delle
merci, col quale si spiegano tutte le oscillazioni dei prezzi ed al quale in
conclusione devono essere ricondotte tutte.
L’economia classica trovò dunque che il valore di una merce è determinato dal
lavoro che è contenuto in essa, dal lavoro cioè che si richiede per la sua
produzione. Di questa spiegazione essa si accontentò, e anche noi, per ora,
possiamo fermarci a questo punto. Solo per evitare malintesi, voglio ricordare
che questa spiegazione è diventata oggi assolutamente insufficiente. Marx ha
per primo indagato a fondo la proprietà del lavoro di creare valore, e ha
trovato che non ogni lavoro apparentemente o anche realmente necessario per la
produzione di una merce aggiunge a questa merce, in ogni circostanza, una
quantità di valore corrispondente alla quantità di lavoro impiegato. Perciò
quando noi oggi, per fare presto, diciamo, insieme con economisti come Ricardo,
che il valore di una merce si determina per mezzo del lavoro necessario alla
sua produzione, sottintendiamo sempre le riserve fatte da Marx. E questo basta,
per ora; il resto si trova in Marx, nello scritto: Per la critica dell’economia politica del 1859 e nel I
volume del Capitale7.
Non appena però gli economisti applicarono alla merce “lavoro” questo modo di
determinare il valore per mezzo del lavoro, caddero da una contraddizione in
un’altra. Come viene determinato il valore del “lavoro”? Dal lavoro necessario
che è contenuto in esso. Ma quanto lavoro è contenuto nel lavoro di un operaio,
per un giorno, una settimana, un mese, un anno? Il lavoro di un giorno, di una
settimana, di un mese, di un anno. Se il lavoro è la misura di tutti i valori,
possiamo esprimere il “valore del lavoro” soltanto in lavoro. Ma non sappiamo
assolutamente niente del valore di un’ora di lavoro, quando sappiamo soltanto
che esso è uguale a un’ora di lavoro. In questo modo non ci siamo avvicinati di
un capello al nostro scopo; ci aggiriamo in un circolo vizioso.
L’economia classica tentò allora un’altra via d’uscita. Essa disse: il valore
di una merce è uguale ai suoi costi di produzione. Ma che cosa sono i costi di
produzione del lavoro? Per rispondere a questa domanda gli economisti debbono
fare un po’ di violenza alla logica. Invece di ricercare i costi di produzione
del lavoro stesso, che purtroppo non è possibile stabilire, essi ricercano ora
quali sono i costi di produzione dell’operaio.
E questi è possibile stabilirli. Essi variano secondo il tempo e le
circostanze, ma per un dato stato sociale, per una data località, per una data
branca della produzione, sono essi pure dati, almeno entro limiti abbastanza
ristretti. Noi viviamo oggi sotto il dominio della produzione capitalistica, in
cui una classe della popolazione, grande e in continuo aumento, può vivere
soltanto se lavora, in cambio di un salario, per i possessori dei mezzi di
produzione: strumenti, macchine, materie prime e mezzi di sussistenza. Sulla
base di questo modo di produzione, i costi di produzione dell’operaio
consistono in quella quantità di mezzi di sussistenza — o nel loro prezzo in
denaro — che sono in media necessari per renderlo atto al lavoro, per
conservarlo atto al lavoro e per sostituirlo, quando egli scompare per
vecchiaia, per malattia o per morte, con un altro operaio, cioè per assicurare
che la classe operaia si riproduca nella misura necessaria. Supponiamo che il
prezzo in denaro di questi mezzi di sussistenza sia in media di tre marchi al
giorno.
Il nostro operaio riceve dunque dal capitalista che lo occupa un salario di tre
marchi al giorno. Per questo salario il capitalista lo fa lavorare, poniamo,
dodici ore al giorno. E il capitalista fa presso a poco i calcoli seguenti:
Supponiamo che il nostro operaio — un meccanico — debba fare un pezzo di una
macchina, e che lo finisca in un giorno. La materia — ferro e ottone, nella
forma necessaria precedentemente elaborata — costa venti marchi. Il consumo di
carbone della macchina a vapore e il deterioramento di questa stessa macchina a
vapore, del tornio e degli altri strumenti con cui l’operaio lavora,
rappresentano, per un giorno e per un operaio, il valore di un marco. Il
salario giornaliero è, secondo la nostra supposizione di tre marchi. Il totale
è, per il nostro pezzo di macchina, di ventiquattro marchi.
Il capitalista calcola però che in media riceverà dai suoi clienti un prezzo di
ventisette marchi, cioè tre marchi in più delle spese che egli ha anticipato.
Donde vengono questi tre marchi che il capitalista intasca? Secondo quanto
afferma l’economia classica, le merci in media sono vendute secondo il loro
valore, cioè a prezzi corrispondenti alle necessarie quantità di lavoro
contenute in esse. Il prezzo medio del nostro pezzo di macchina — ventisette marchi
— sarebbe dunque uguale al suo valore, uguale cioè al lavoro che è contenuto in
esso. Ma, di questi ventisette marchi, ventuno erano valori che esistevano già
prima che il nostro meccanico incominciasse a lavorare. Venti marchi erano
contenuti nelle materie prime, un marco nel carbone bruciato durante il lavoro,
o in macchine e strumenti che sono stati utilizzati e la cui capacità di
produzione è stata diminuita per un valore uguale a questo importo. Restano sei
marchi che sono stati aggiunti al valore della materia prima. Ma questi sei
marchi, come ammettono anche i nostri economisti, possono derivare soltanto dal
lavoro che il nostro operaio ha aggiunto alla materia prima. Il suo lavoro di
dodici ore ha dunque creato un nuovo valore di sei marchi. Il valore della sua
giornata di lavoro di dodici ore, sarebbe dunque uguale a sei marchi. E così
avremmo dunque finalmente scoperto che cosa è il «valore del lavoro».
«Un momento! — esclama il nostro meccanico — Sei marchi? Io non ne ho ricevuti
che tre! Il mio capitalista giura su tutti i santi che il valore del mio lavoro
di dodici ore è soltanto di tre marchi, e se io ne chiedo sei, si fa beffe di
me. Come si spiega tutto questo?».
Se prima con il nostro valore del lavoro, eravamo giunti a un circolo vizioso,
ora siamo caduti sul serio in una contraddizione insolubile. Cercavamo il
valore del lavoro, e abbiamo trovato più di quanto ci occorre. Per l’operaio il
valore del lavoro di dodici ore è di tre marchi, per il capitalista è di sei,
dei quali egli ne paga tre all’operaio come salario, e intasca gli altri tre.
Il lavoro non avrebbe dunque uno, ma due valori, e per di più molto diversi!
La contraddizione diventa ancor più assurda non appena riduciamo in tempo di
lavoro i valori espressi in denaro. Nelle dodici ore di lavoro viene creato un
nuovo valore di sei marchi; quindi in sei ore, tre marchi, la somma che
l’operaio riceve per un lavoro di dodici ore. Per dodici ore di lavoro
l’operaio riceve come uguale controvalore il prodotto di sei ore di lavoro. Perciò,
o il lavoro ha due valori, uno dei quali è doppio dell’altro, o dodici è uguale
a sei! In tutti e due i casi ci troviamo di fronte a un puro controsenso.
Possiamo voltarci e rigirarci come vogliamo, non usciremo da questa
contraddizione fino a tanto che parleremo di compra e di vendita del lavoro e
di valore del lavoro. Ed è appunto ciò che è accaduto agli economisti. L’ultimo
prodotto dell’economia classica, la scuola ricardiana, fallì in gran parte per
non aver saputo risolvere questa contraddizione. L’economia classica si era
cacciata in un vicolo cieco. Chi trovò la via per uscirne fu Karl Marx8.
Ciò che gli economisti avevano considerato come costo di produzione del
“lavoro”, erano i costi di produzione non del lavoro, ma dello stesso operaio
vivente. E ciò che questo operaio vendeva al capitalista non era il suo lavoro.
« Appena il suo lavoro comincia realmente — dice Marx — esso ha già cessato di
appartenergli e quindi non può più essere venduto da lui»9.
Egli potrebbe dunque tutt’al più vendere il suo lavoro futuro, cioè assumersi l’obbligo di
compiere una determinata prestazione di lavoro in un tempo determinato. Ma in
questo modo egli non vende lavoro (che si dovrebbe ancora fare), ma pone a
disposizione del capitalista per un certo tempo (salario giornaliero) o per una
determinata prestazione di lavoro (salario a cottimo) la sua forza-lavoro,
contro una determinata paga; egli cede, cioè vende, la sua forza-lavoro. Questa forza-lavoro è però
unita insieme con la sua persona e inseparabile da essa. I suoi costi di
produzione coincidono dunque con i costi di produzione dell’operaio: ciò che
gli economisti chiamavano costi di produzione del lavoro, sono appunto i costi
di produzione dell’operaio e quindi della forza-lavoro. E così possiamo
risalire dai costi di produzione della forza-lavoro al valore della forza-lavoro, e determinare
la quantità di lavoro socialmente necessario che si richiede per la produzione
di una forza-lavoro di qualità determinata, come ha fatto Marx nel capitolo
sulla compra e vendita della forza-lavoro .
Che cosa avviene ora, dopo che l’operaio ha venduto al capitalista la sua
forza-lavoro, cioè dopo che l’ha posta a sua disposizione, per un salario
convenuto, giornaliero o a cottimo? Il capitalista conduce l’operaio nella sua
officina o fabbrica, dove già si trovano tutti gli oggetti necessari per il
lavoro, le materie prime, le materie ausiliarie (carbone, coloranti, ecc.), gli
utensili, le macchine. E qui l’operaio incomincia a sgobbare. Poniamo che il
suo salario giornaliero sia, come prima, di tre marchi, poco importa se
guadagnati a giornata o a cottimo. Supponiamo di nuovo, anche in questo caso,
che con il suo lavoro di dodici ore l’operaio aggiunga alla materia prima
impiegata un nuovo valore di sei marchi, un nuovo valore che il capitalista
realizza con la vendita del pezzo finito. Di questo importo egli paga
all’operaio tre marchi, e gli altri tre li tiene per sé. Se l’operaio produce
in dodici ore un valore di sei marchi, in sei ore produce un valore di tre
marchi. Quindi dopo aver lavorato sei ore egli ha già restituito al capitalista
l’equivalente dei tre marchi ricevuti come salario. Dopo sei ore di lavoro,
tutti e due sono pari; nessuno dei due deve più un soldo all’altro.
«Un momento! — esclama ora il capitalista — Io ho noleggiato l’operaio per un
giorno intero, per dodici ore. Sei ore non sono che una mezza giornata. Avanti
dunque al lavoro, fino a che anche le altre sei ore siano passate. Solo allora
saremo pari!» E in realtà l’operaio deve attenersi al suo contratto
“liberamente” concluso, con il quale si impegna a lavorare dodici ore intere,
per un prodotto di lavoro che costa sei ore di lavoro.
Con il salario a cottimo è la stessa cosa. Supponiamo che il nostro operaio
produca in dodici ore dodici pezzi di merce. Ognuno di essi costa in materie
prime e deterioramento due marchi, ed è venduto a marchi 2,50. Per attenerci
all’ipotesi di prima, il capitalista darà all’operaio 25 centesimi il pezzo, il
che fa, per dodici pezzi, tre marchi, per guadagnare i quali l’operaio deve
lavorare dodici ore. Per i dodici pezzi il capitalista riceve trenta marchi;
deducendo ventiquattro marchi per materie prime e deterioramento, restano sei
marchi, tre dei quali egli li paga per salario, e gli altri tre li intasca.
Come nell’esempio di prima. Anche in questo caso l’operaio lavora sei ore per
sé, cioè per produrre l’equivalente del suo salario (mezz’ora per ognuna delle
dodici ore), e sei ore per il capitalista.
La difficoltà che era insuperabile per i migliori economisti fino a tanto che
partivano dal valore del “lavoro”, scompare non appena, invece, si parte dal
valore della forza-lavoro. Nella
nostra attuale società capitalistica, la forza-lavoro è una merce, una merce
come ogni altra, ma ciò nonostante una merce tutta affatto speciale. Essa ha
cioè la proprietà specifica di essere forza produttrice di valore, anzi di
essere, se viene impiegata in modo appropriato, fonte di un valore maggiore di
quello che essa possiede. Nello stato attuale della produzione la forza-lavoro
dell’uomo non solo produce in un giorno un valore superiore a quello che essa
possiede e a quello che costa; ad ogni nuova scoperta scientifica, ad ogni
nuovo perfezionamento tecnico questa eccedenza del suo prodotto giornaliero sul
suo costo giornaliero aumenta, cioè si riduce quella porte della giornata di
lavoro in cui l’operaio produce l’equivalente del suo salario, e si allunga
perciò d’altro lato quella parte della giornata in cui egli deve regalare al capitalista il suo lavoro
senza essere pagato10.
Tale è la costituzione economica di tutta la nostra società attuale: solo la
classe operaia è quella che produce tutti i valori. Poiché valore non è che
un’altra espressione per lavoro, l’espressione con la quale, nella nostra
attuale società capitalistica, viene indicata la quantità di lavoro socialmente
necessaria che è contenuta in una merce determinata. Questi valori prodotti
dagli operai non appartengono però agli operai. Essi appartengono ai
proprietari delle materie prime, delle macchine, degli strumenti e del capitale
anticipato, i quali permettono a questi proprietari di comperare la
forza-lavoro della classe operaia. Di tutta la massa di prodotti da essa
fabbricata, alla classe operaia ne viene restituita solo una parte. E come
abbiamo visto, l’altra parte, che la classe capitalista trattiene per sé, o
tutt’al più, deve ancora dividere con la classe dei proprietari fondiari,
diventa sempre maggiore ad ogni nuova invenzione e ad ogni nuova scoperta,
mentre la parte che tocca alla classe operaia (calcolata per testa) o aumenta
lentamente e in modo insignificante o non aumenta affatto, e in talune
circostanze può persino diminuire.
Ma questa successione sempre più rapida di invenzioni e di scoperte, questo
rendimento del lavoro umano che aumenta di giorno in giorno in misura sinora
inaudita, fa sorgere infine un conflitto, in cui l’odierna economia
capitalistica deve perire. Da un lato ricchezze incommensurabili e una
sovrabbondanza di prodotti, che i compratori non riescono ad assorbire.
Dall’altro lato la grande massa della società proletarizzata, trasformata in
salariati, e resa perciò incapace di appropriarsi quella sovrabbondanza di
prodotti. La scissione della società in una piccola classe smisuratamente ricca
e in una grande classe di salariati nullatenenti fa sì che questa società
soffoca nella sua stessa sovrabbondanza, mentre la grande maggioranza dei suoi
membri è appena protetta, e spesso non lo è affatto, dall’estrema indigenza.
Questo stato di cose diventa di giorno in giorno più assurdo e più inutile11. Esso deve
venire eliminato, esso può venire
eliminato. Un nuovo ordine sociale è possibile, nel quale spariranno le attuali
differenze di classe e nel quale — forse dopo un breve periodo di transizione,
un po’ travagliato, ma ad ogni modo molto utile dal punto di vista morale —
grazie allo sfruttamento secondo un piano 12 e
all’ulteriore sviluppo delle esistenti immense forze produttive di tutti i
membri della società, ad un uguale obbligo al lavoro corrisponderà una
situazione in cui anche i mezzi per vivere, per godere la vita, per la
educazione e lo sviluppo di tutte le facoltà fisiche e spirituali saranno a
disposizione di tutti, in modo uguale e in misura sempre crescente13. E che gli operai sono sempre più decisi a
conquistarsi questo nuovo ordine sociale, ne faran prova, sulle due rive dell’Oceano,
il Primo Maggio di domani e domenica prossima, 3 maggio14.
Londra, 30 aprile 1891
LAVORO SALARIATO E CAPITALE15
Colonia, 4 aprile.
Da diverse parti ci è stato rimproverato che non abbiamo esposto quali sono i rapporti economici, che formano la base
materiale delle attuali lotte di classe e nazionali16.
Di proposito, abbiamo sfiorato questi rapporti soltanto là dove essi esplodevano
immediatamente in collisioni politiche.
Importava innanzi tutto seguire la lotta di classe nella sua storia quotidiana
e dimostrare empiricamente, sulla scorta del materiale storico esistente e
giornalmente arricchito, che lo schiacciamento della classe operaia, che aveva
fatto le rivoluzioni di febbraio e di marzo17, ha
significato contemporaneamente la disfatta dei suoi avversari, i repubblicani
borghesi in Francia, le classi borghesi e contadine in lotta contro
l’assolutismo feudale su tutto il continente europeo; che la vittoria
dell’«onesta repubblica» in Francia ha segnato in pari tempo la sconfitta delle
nazioni che avevano risposto alla rivoluzione di febbraio con eroiche guerre di
indipendenza; che, infine, con la disfatta degli operai rivoluzionari l’Europa
è ricaduta nella sua vecchia duplice schiavitù, nella schiavitù anglo-russa. Le giornate di giugno a
Parigi, la caduta di Vienna, la tragicommedia del novembre 184818 a Berlino, gli sforzi disperati della Polonia,
dell’Italia e dell’Ungheria, l’affamamento dell’Irlanda19:
tali furono i momenti principali in cui si riassunse in Europa la lotta di
classe fra borghesia e classe operaia, e in base ai quali noi abbiamo
dimostrato che ogni sollevamento rivoluzionario, anche se i suoi scopi appaiono
ancora molto lontani dalla lotta di classe, è destinato a fallire fino a che la
classe operaia rivoluzionaria non abbia vinto, e che ogni riforma sociale resta
un’utopia fino a che la rivoluzione proletaria e la controrivoluzione feudale
non si siano misurate con le armi in una guerra
mondiale. Nella nostra esposizione, come nella realtà, il Belgio e la Svizzera figuravano nel grande quadro storico come
macchiette pittoresche tragicomiche e caricaturali; l’uno, lo Stato modello
della monarchia borghese, l’altra, lo Stato modello della repubblica borghese,
due Stati che si immaginano entrambi di essere estranei alla lotta di classe e
alla rivoluzione europea.
Ora, dopo che i nostri lettori hanno visto svilupparsi la lotta di classe, nel
1848, in forme politiche colossali, è tempo di penetrare più a fondo i rapporti
economici, sui quali si fondano tanto l’esistenza della borghesia e il suo
dominio di classe quanto la schiavitù degli operai.
In tre grandi capitoli esporremo:
1) il rapporto fra il lavoro salariato e il
capitale, la schiavitù dell’operaio, il dominio del capitalista;
2) la decadenza inevitabile delle classi
medie borghesi e del ceto contadino20 nel sistema attuale;
3) l’asservimento commerciale e lo
sfruttamento delle classi borghesi delle diverse nazioni europee da
parte del despota del mercato mondiale, l’Inghilterra21.
Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre
la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari dell’economia politica.
Vogliamo farci comprendere dagli operai. Tanto più che la più curiosa ignoranza
e confusione di concetti riguardo ai rapporti economici più semplici regnano in
Germania, a partire dai difensori patentati delle condizioni esistenti fino ai socialisti miracolisti e ai genî politici incompresi, di cui la
spezzettata Germania è più ricca che di padri della patria.
Passiamo dunque alla prima questione: Che
cosa è il salario? Come viene esso determinato?
Se domandiamo agli operai: «Qual’è l’importo del vostro salario?», essi
risponderanno, l’uno: «Io ricevo un franco22 al
giorno dal mio borghese», l’altro: «Io ricevo due franchi», ecc. Secondo le
varie branche di lavoro alle quali appartengono, essi indicheranno diverse
somme che ricevono dal loro rispettivo padrone per un determinato tempo di
lavoro23 o per fare un determinato lavoro, ad
esempio per tessere un braccio di lino, o per comporre un foglio di stampa.
Malgrado la diversità delle loro risposte essi concordano tutti su un punto :
il salario è la somma di denaro che il borghese24
paga per un determinato tempo di lavoro o per una determinata prestazione di
lavoro.
Il borghese25 compera,
dunque, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro26.
Con la stessa somma di denaro con la quale il borghese ha comperato il loro
lavoro27, per esempio con due franchi, avrebbe
potuto comperare due libbre di zucchero o una determinata quantità di qualsiasi
altra merce. I due franchi con i quali egli ha comperato le due libbre di
zucchero sono il prezzo delle due
libbre di zucchero. I due franchi con i quali egli ha comperato dodici ore di
lavoro28, sono il prezzo del lavoro di dodici
ore. Il lavoro29, dunque, è una merce, né più né
meno che lo zucchero. La prima si misura con l’orologio, la seconda con la
bilancia.
Gli operai scambiano la loro merce, il lavoro29,
con la merce del capitalista, il denaro, e questo scambio si effettua secondo
un rapporto determinato. Tanto denaro per tanto lavoro30.
Per tessere dodici ore, due franchi. E i due franchi, non rappresentano essi
forse tutte le altre merci che posso comperare per due franchi? Di fatto,
quindi, l’operaio ha scambiato la sua merce, il lavoro29,
contro altre merci di ogni genere, e secondo un rapporto determinato. Dandogli
due franchi il capitalista gli ha dato, in cambio della sua giornata di lavoro,
tanto di carne, tanto di abiti, tanto di legna, di luce, ecc. I due franchi
esprimono dunque il rapporto in cui il lavoro si scambia con altre merci, il valore di scambio del suo lavoro. Il
valore di scambio di una merce, valutato in denaro, si chiama appunto il suo prezzo. Il salario non è quindi che un nome speciale dato al prezzo del lavoro31;
non è che un nome speciale dato al prezzo di questa merce speciale, che è
contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo.
Prendiamo un operaio qualsiasi, per esempio un tessitore. Il borghese32 gli fornisce il telaio e il filo. Il tessitore si pone
al lavoro e il filo si fa tela. Il borghese s’impadronisce della tela e la
vende, poniamo, a venti franchi. È il salario del tessitore una parte della tela, dei venti franchi, del
prodotto del proprio lavoro? Niente affatto. Il tessitore ha ricevuto il suo
salario molto tempo prima che la tela sia venduta, forse molto tempo prima che
essa sia tessuta. Il capitalista, dunque, paga questo salario non con il denaro
che egli ricaverà dalla tela, ma con denaro d’anticipo. Come il telaio e il
filo non sono prodotti del tessitore, al quale vengono forniti dal borghese,
così non lo sono le merci che egli riceve in cambio della sua merce, il lavoro29. È possibile che il borghese non trovi nessun
compratore per la sua tela. È possibile che dalla vendita di essa egli non
ricavi neppure il salario. È possibile che egli la venda in modo molto
vantaggioso in confronto col salario del tessitore. Tutto ciò non è affare del
tessitore. Il capitalista compera con una parte del suo patrimonio
preesistente, del suo capitale, il lavoro29 del
tessitore, allo stesso modo che con un’altra parte del suo patrimonio ha
comperato la materia prima, il filo, e lo strumento di lavoro, il telaio. Dopo
aver fatto queste compere — e in queste compere è compreso il lavoro29 necessario per la produzione della tela — egli produce
soltanto con materie prime e strumenti di
lavoro che gli appartengono. Tra questi ultimi è naturalmente
compreso anche il nostro bravo tessitore, che partecipa al prodotto o al prezzo
di esso non più di quello che vi partecipi il telaio!
Il salario non è, dunque, una partecipazione
dell’operaio alla merce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce,
già preesistente, con la quale il capitalista si compera una determinata
quantità di lavoro29 produttivo33.
Il lavoro29 è dunque una merce, che il suo
possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere.
Il lavoro29, è però l’attività vitale propria
dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un
terzo questa attività vitale per
assicurarsi i mezzi di sussistenza
necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter
vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua
vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli
ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo
scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli
tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli
costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario;
e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di
mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in
un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana,
costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse
questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre
per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La
vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al
banco dell’osteria, nel letto34. Il significato
delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc.,
ma soltanto nel guadagnare ciò
che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco
da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un
perfetto salariato.
Il lavoro29 non è sempre stata una merce. Il lavoro non è sempre stato lavoro
salariato, cioè lavoro libero. Lo
schiavo non vendeva il suo lavoro29 al padrone di schiavi, come il bue non vende al
contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme con il suo lavoro29, è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è
una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro.
Egli stesso è una merce, ma il
lavoro29 non è merce sua. Il servo della gleba
vende soltanto una parte del suo lavoro29. Non è
lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il
proprietario della terra che riceve da lui un tributo. Il servo della gleba
appartiene alla terra e porta frutti al signore della terra.
L’operaio libero invece vende se
stesso, e pezzo a pezzo. Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita,
ogni giorno, al migliore offerente, al possessore delle materie prime, degli
strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, cioè ai capitalisti. L’operaio
non appartiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 ore della
sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera. L’operaio abbandona
quando vuole il capitalista al quale si dà in affitto, e il capitalista lo
licenzia quando crede, non appena non ricava più da lui nessun utile o non
ricava più l’utile che si prefiggeva. Ma l’operaio, la cui sola risorsa è la
vendita del lavoro29, non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei
capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza. Egli non appartiene a questo o a quel borghese35,
ma alla borghesia36, alla classe borghese; ed è affar suo
disporre di se stesso, cioè trovarsi in questa classe borghese36 un compratore37.
Prima di esaminare ora più da vicino il rapporto fra capitale e lavoro
salariato, esporremo brevemente i fattori più generali che intervengono nella
determinazione del salario.
Come abbiamo visto, il salario è
il prezzo di una merce
determinata, del lavoro29. Il salario è dunque
determinato dalle stesse leggi che determinano il prezzo di qualsiasi altra
merce38.
Si chiede dunque: come viene determinato il
prezzo di una merce?
Colonia, 5 aprile. Da che cosa è determinato il prezzo di una merce?
Dalla concorrenza fra compratori e venditori, dal rapporto tra la domanda e la
disponibilità, tra l’offerta e la richiesta. La concorrenza, da cui viene
determinato il prezzo di una merce, ha tre
aspetti.
La stessa merce è offerta da diversi venditori. Colui che vende merci della
stessa qualità più a buon mercato è sicuro di eliminare gli altri venditori e
di assicurarsi lo smercio maggiore. I venditori si disputano dunque
reciprocamente le possibilità di vendita, il mercato. Ognuno di essi vuol
vendere, vendere il più possibile, e possibilmente vendere solo, escludendo
tutti gli altri venditori. L’uno, quindi, vende più a buon mercato dell’altro.
Esiste perciò una concorrenza tra i
venditori, che ribassa
i prezzi delle merci che essi offrono.
Esiste però anche una concorrenza tra i
compratori, che a sua volta fa
salire il prezzo delle merci offerte.
Esiste, infine, anche una concorrenza tra i
compratori e i venditori; gli uni vogliono comperare il più che sia
possibile a buon mercato, gli altri vogliono vendere il più caro possibile. Il
risultato di questa concorrenza tra compratori e venditori dipenderà dal modo
come si comportano gli altri due aspetti della concorrenza che abbiamo
indicato, cioè dal fatto che la concorrenza sia più forte nel campo dei
compratori o in quello dei venditori. L’industria mette in campo l’un contro
l’altro due eserciti, ognuno dei quali sostiene una lotta nelle proprie file,
fra le proprie truppe. L’esercito nei cui ranghi hanno luogo gli scontri più
lievi, riporta vittoria sull’avversario.
Supponiamo che si trovino sul mercato 100 balle di cotone, e in pari tempo dei
compratori per 1.000 balle. In questo caso la domanda è dunque dieci volte
maggiore della disponibilità. La concorrenza fra i compratori sarà dunque molto
forte; ognuno di essi vorrà accaparrarsi almeno una e possibilmente tutte le
100 balle. Questo esempio non è un’ipotesi arbitraria. Nella storia del
commercio abbiamo conosciuto periodi di cattivi raccolti di cotone, nei quali
alcuni capitalisti, associati fra loro, tentarono di accaparrarsi non 100
balle, ma tutta la disponibilità di cotone del mondo. Nel caso citato, dunque,
un compratore cercherà di eliminare l’altro offrendo per le balle di cotone un
prezzo relativamente superiore. I venditori di cotone, i quali vedono che le
truppe nemiche si battono accanitamente fra loro, e sono completamente sicuri
di vendere tutte le loro 100 balle, si guarderanno bene dal prendersi per i
capelli per abbassare i prezzi del cotone in un momento in cui i loro avversari
vanno a gara per spingerli in alto. Nell’esercito dei venditori si stabilisce
quindi improvvisamente la pace. Essi stanno come un sol uomo di fronte ai
compratori, incrociano filosoficamente le braccia, e le loro richieste non
avrebbero alcun limite se le offerte dei compratori, anche dei più insistenti,
non avessero i loro limiti ben determinati.
Dunque, se la disponibilità di una merce è inferiore alla domanda, la
concorrenza fra i venditori è minima o nulla. Nella stessa proporzione in cui
questa concorrenza diminuisce, aumenta quella fra i compratori. Risultato:
aumento più o meno notevole dei prezzi della merce.
È noto che il caso contrario, che porta a risultati contrari, si verifica più
spesso. Disponibilità di merci notevolmente superiore alla domanda: concorrenza
disperata fra i venditori; mancanza di compratori: liquidazione delle merci a
prezzi irrisori39.
Ma che cosa significa aumento, diminuzione dei prezzi, prezzo alto e prezzo
basso? Un granello di sabbia è alto se lo si guarda al microscopio, e una torre
è bassa in confronto con una montagna. E se il prezzo è determinato dal
rapporto tra la domanda e la disponibilità, da che cosa è determinato a sua
volta quest’ultimo rapporto?
Rivolgiamoci a un qualsiasi borghese. Egli non esiterà un momento, e, come un
secondo Alessandro il Grande, taglierà questo nodo metafisico con l’aiuto della
tavola pitagorica. Se la produzione della merce che io vendo mi è costata 100
franchi, ci dirà, e dalla vendita di essa ricavo 110 franchi, entro lo spazio
di un anno, s’intende, questo è un guadagno civile, onesto, legittimo. Ma se
ricevo in cambio 120, 130 franchi, il guadagno è forte; se poi ne ricavo 200
franchi, il guadagno sarebbe straordinario, enorme. Che cosa serve dunque al
borghese come misura del
guadagno? I costi di produzione
della sua merce. Se in cambio di questa merce egli riceve una somma di altre
merci la cui produzione è costata di meno, ha perduto. Se in cambio della sua
merce egli riceve una somma di altre merci la cui produzione è costata di più,
ha guadagnato. La diminuzione o l’aumento del guadagno egli li misura dai gradi
che il valore di scambio della sua merce si trova sopra o sotto lo zero, cioè
sopra o sotto i costi di produzione40.
Abbiamo visto come il rapporto mutevole tra la domanda e la disponibilità
provoca ora un ribasso, ora un rialzo dei prezzi, ora prezzi alti, ora prezzi
bassi.
Se il prezzo di una merce aumenta notevolmente in seguito alla scarsità della
disponibilità o ad un aumento sproporzionato della domanda, necessariamente
ribassa, in proporzione, il prezzo di qualsiasi altra merce; poiché in ultima
analisi il prezzo di una merce esprime soltanto in denaro il rapporto in cui
altre merci vengono date in cambio di essa. Se per esempio il prezzo di un
braccio di tessuto di seta aumenta da cinque a sei franchi, il prezzo
dell’argento, in rapporto al tessuto di seta, cade, e cadono pure, nei
confronti del tessuto di seta, i prezzi di tutte le altre merci che sono
rimaste ferme al loro prezzo primitivo. Per ricevere la stessa quantità di
tessuto di seta bisogna dare in cambio una maggiore quantità di queste merci.
Quali conseguenze avrà l’aumento del prezzo di una merce? Una massa di capitali
si getterà nel ramo di industria fiorente, e questa immigrazione di capitali
nel campo dell’industria favorita durerà fino a tanto che essa tornerà ai
guadagni abituali, o, piuttosto, fino a tanto che il prezzo dei suoi prodotti
cadrà, in seguito a sovrapproduzione, al di sotto dei costi di produzione.
Viceversa, se il prezzo di una merce cade al di sotto dei suoi costi di
produzione, i capitali si ritrarranno dalla produzione di questa merce.
Eccettuato il caso in cui un ramo di industria non è più adatto al suo tempo, e
quindi deve decadere, la produzione di tale merce, cioè la disponibilità di
essa, diminuirà, in seguito a questa fuga dei capitali, fino a tanto che essa
corrisponda alla domanda, fino a tanto, cioè, che il suo prezzo si porti
nuovamente al livello dei suoi costi di produzione, o meglio, fino a tanto che
la disponibilità sarà caduta al di sotto della domanda, cioè fino a tanto che
il suo prezzo abbia nuovamente superato i suoi costi di produzione, poiché il prezzo corrente di mercato di una merce sta sempre
al di sopra o al di sotto dei suoi costi di produzione.
Così vediamo come i capitali emigrano e immigrano costantemente dal campo di
un’industria a quello di un’altra. Il prezzo alto provoca una immigrazione
eccessiva e il prezzo basso una eccessiva emigrazione41.
Ponendoci da un altro punto di vista potremmo mostrare che non soltanto
la disponibilità, ma anche la domanda è determinata dai costi di produzione; ma
questa dimostrazione ci condurrebbe troppo lontano dal nostro argomento.
Abbiamo visto testé che le oscillazioni della domanda e della disponibilità
riconducono sempre il prezzo di una merce ai costi di produzione. In realtà il prezzo di una merce è sempre al di sopra
o al di sotto dei costi di produzione; ma il rialzo e il ribasso si integrano a
vicenda, di modo che, entro un determinato limite di tempo, e tenuto
conto degli alti e bassi dell’industria, le merci vengono scambiate l’una con
l’altra a seconda dei loro costi di produzione; il loro prezzo, dunque, viene
determinato dai loro costi di produzione.
Questa determinazione del prezzo sulla base dei costi di produzione non deve
essere intesa nel senso in cui la intendono gli economisti. Gli economisti
dicono che il prezzo medio delle
merci è uguale ai costi di produzione; che tale è la legge. Il movimento anarchico, per cui il rialzo viene
compensato dal ribasso e il ribasso dal rialzo, lo considerano come un fatto
occasionale. Con lo stesso diritto, come hanno fatto altri economisti, si
potrebbero considerare le oscillazioni come legge e la determinazione sulla
base dei costi di produzione come fatto occasionale. Ma solo queste
oscillazioni che, considerate più da vicino, portano con sé le più terribili
devastazioni e scuotono la società borghese dalle fondamenta come terremoti,
solo queste oscillazioni determinano nel loro corso il prezzo secondo i costi
di produzione. Il movimento complessivo di questo disordine è il suo ordine.
Nel corso di questa anarchia industriale, in questo movimento ciclico la
concorrenza compensa, per così dire, una stravaganza con l’altra42.
Noi dunque vediamo che il prezzo di una merce è determinato dai suoi costi di
produzione, in modo che i periodi in cui il prezzo della merce supera i costi
di produzione sono compensati dai periodi in cui esso scende sotto i costi di
produzione e viceversa. Naturalmente, ciò non vale per un singolo prodotto
industriale determinato, ma soltanto per l’intero ramo dell’industria, allo
stesso modo che non vale per il singolo industriale, ma soltanto per la classe
degli industriali nel suo complesso.
La determinazione del prezzo secondo i costi di produzione è uguale alla
determinazione del prezzo sulla base della durata del lavoro che si richiede
per la produzione di una merce, poiché i costi di produzione consistono: 1) in
materie prime e strumenti di lavoro43, cioè in
prodotti industriali la cui produzione è costata una certa quantità di giornate
di lavoro, e che rappresentano perciò una certa quantità di giornate di lavoro,
e che rappresentano perciò una certa quantità di tempo di lavoro e 2) in lavoro
immediato, la cui misura è appunto il tempo.
Le stesse leggi generali che regolano in generale il prezzo delle merci,
regolano naturalmente anche il salario,
il prezzo del lavoro.
Il salario ora aumenterà, ora diminuirà, a seconda del rapporto tra domanda e
disponibilità, a seconda del modo come si configura la concorrenza fra i
compratori di lavoro29, i capitalisti, e i
venditori di lavoro29, gli operai. Alle
oscillazioni dei prezzi delle merci in generale corrispondono le oscillazioni
del salario. Nei limiti di queste
oscillazioni, però, il prezzo del lavoro sarà determinato dai costi di
produzione, dal tempo di lavoro che si richiede per produrre questa merce, il
lavoro29.
Ma quali sono i costi di produzione del lavoro29?
Sono i costi necessari per conservare l’operaio come operaio e per formarlo
come operaio44.
Quanto meno tempo si richiede per apprendere un lavoro, tanto minori sono i
costi di produzione dell’operaio, tanto più basso è il prezzo del suo lavoro,
il suo salario45. Nei rami industriali dove non
si richiede nessun apprendistato e basta la semplice esistenza fisica
dell’operaio, i costi di produzione richiesti per la sua formazione si riducono
quasi esclusivamente alle merci necessarie per mantenerlo in vita46. Il prezzo del suo
lavoro sarà dunque determinato dal prezzo
dei mezzi di sussistenza necessari.
Ma bisogna fare ancora una considerazione. Il fabbricante, che calcola i costi
di produzione e, a seconda di essi, il prezzo dei prodotti, tiene conto del
logorio degli strumenti di lavoro. Se una macchina gli costa, per esempio,
1.000 franchi e si logora in dieci anni, egli conteggia 100 franchi all’anno
nel prezzo della merce, per potere, dopo dieci anni, sostituire la macchina
vecchia con una nuova. Allo stesso modo, nei costi di produzione del semplice
lavoro46 devono essere conteggiati i costi di
riproduzione, per cui la razza degli operai viene posta in condizione di
moltiplicarsi e di sostituire gli operai logorati dal lavoro con nuovi operai.
Il logorio dell’operaio viene dunque conteggiato allo stesso modo del logorio
della macchina.
I costi di produzione del semplice lavoro ammontano quindi ai costi di esistenza e di riproduzione dell’operaio.
Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce il
salario. Il salario così determinato si chiama salario
minimo48. Questo salario minimo, come,
in generale, la determinazione del prezzo delle merci secondo i costi di
produzione, vale non per il singolo
individuo, ma per la specie.
Singoli operai, milioni di operai non ricevono abbastanza per vivere e
riprodursi; ma il salario dell’intera classe
operaia, entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo
minimo49.
Ora che ci siamo intesi sulle leggi più generali che regolano il salario, come
regolano il prezzo di ogni altra merce, possiamo passare all’esame del nostro
argomento più in particolare50.
Colonia, 6 aprile. Il capitale consta di materie prime, di strumenti
di lavoro e di mezzi di sussistenza d’ogni genere, che vengono impiegati per la
produzione di nuove materie prime, di nuovi strumenti di lavoro, di nuovi mezzi
di sussistenza. Tutte queste sue parti costitutive sono creazioni del lavoro,
prodotti del lavoro, lavoro accumulato.
Il capitale è lavoro accumulato che serve come mezzo per una nuova produzione.
Così dicono gli economisti.
Che cos’è uno schiavo negro? Un uomo di razza nera. Una spiegazione vale
l’altra.
Un negro è un negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa uno schiavo. Una macchina filatrice di cotone
è una macchina per filare il cotone. Soltanto in determinate condizioni essa
diventa capitale. Sottratta a
queste condizioni essa non è capitale, allo stesso modo che l’oro in sé e per
sé non è denaro e lo zucchero non
è il prezzo dello zucchero51.
Nella produzione gli uomini non hanno rapporto soltanto con la natura52. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un
determinato modo e scambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre,
essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e il loro
rapporto con la natura53, la produzione, ha luogo
soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali.
Questi rapporti sociali che legano i produttori gli uni agli altri, le
condizioni nelle quali essi scambiano le loro attività e partecipano all’atto
complessivo della produzione, sono naturalmente diversi a seconda del carattere
dei mezzi di produzione. Con l’invenzione di un nuovo strumento di guerra,
dell’arma da fuoco, tutta l’organizzazione interna dell’esercito
necessariamente si modificò, si modificarono i rapporti sulla base dei quali i
singoli costituiscono un esercito e possono operare come esercito, e si
modificò pure il rapporto dei diversi eserciti tra di loro.
I rapporti sociali entro i quali gli individui producono, i rapporti sociali di produzione, si modificano,
dunque, si trasformano con la trasformazione e con lo sviluppo dei mezzi
materiali di produzione, delle forze produttive. I rapporti di produzione
costituiscono nel loro assieme ciò che riceve il nome di rapporti sociali, di
società, e precisamente una società a un grado di sviluppo storico determinato,
una società con un carattere particolare che la distingue. La società antica, la società feudale, la società borghese sono simili complessi di rapporti
di produzione, e ognuno di questi complessi caratterizza, nello stesso tempo,
un particolare stadio di sviluppo nella storia dell’umanità54.
Anche il capitale è un rapporto
sociale di produzione. Esso è un rapporto
borghese di produzione, un rapporto di produzione della società
borghese. I mezzi di sussistenza, gli strumenti di lavoro, le materie prime di
cui il capitale è costituito, non furono essi prodotti e accumulati in
determinate condizioni sociali, in determinati rapporti sociali? Non vengono
essi impiegati per una nuova produzione in determinate condizioni sociali, in
determinati rapporti sociali? E non è proprio questo carattere sociale
determinato che fa diventare capitale
i prodotti che servono per una nuova produzione?55
Il capitale non consta soltanto di mezzi di sussistenza, di strumenti di lavoro
e di materie prime, non consta soltanto di prodotti materiali; esso consta pure
di valori di scambio. Tutti i
prodotti di cui esso consta sono merci.
Il capitale non è dunque soltanto una somma di prodotti materiali; esso è una
somma di merci, di valori di scambio, di grandezze
sociali.
Il capitale rimane lo stesso se mettiamo cotone al posto di lana, riso al posto
di frumento, piroscafi al posto di ferrovie, alla sola condizione che il
cotone, il riso, i piroscafi — il corpo del capitale — abbiano lo stesso valore
di scambio, lo stesso prezzo della lana, del frumento, delle ferrovie, in cui
esso prima era incorporato. Il corpo del capitale può trasformarsi
continuamente senza che il capitale subisca il minimo cambiamento.
Ma se ogni capitale è una somma di merci, cioè di valori di scambio, non ogni
somma di merci, di valori di scambio, è capitale.
Ogni somma di valori di scambio è un valore di scambio. Ogni singolo valore di
scambio è una somma di valori di scambio. Per esempio, una casa che vale 1.000
franchi, è un valore di scambio di 1.000 franchi. Un pezzo di carta che vale un
centesimo56 è una somma di valori di scambio di
100/100 di centesimo. Prodotti che si possono scambiare con altri prodotti,
sono merci. Il rapporto
determinato, secondo il quale esse possono venir scambiate, costituisce il loro
valore di scambio, o, espresso in
denaro, il loro prezzo. La
quantità di questi prodotti non può cambiare nulla della loro destinazione di
essere merce, o di costituire un valore di scambio, o di avere un prezzo determinato. Un albero, sia esso
grande o piccolo, resta sempre un albero. Se scambiamo il ferro in once, o se
lo scambiamo in quintali contro altri prodotti, cambia forse il suo carattere
di essere una merce, un valore di scambio? A seconda della sua quantità, esso è
una merce di maggiore o di minor valore, di prezzo più alto o più basso.
Come dunque una somma di merci, di valori di scambio, diventa capitale?
Per il fatto che essa, come forza
sociale indipendente, cioè come forza di una
parte della società, si conserva e si accresce attraverso lo scambio con il lavoro29
vivente, immediata57. L’esistenza di una classe che non possiede null’altro
che la capacità di lavorare, è una premessa necessaria del capitale.
Soltanto il dominio del lavoro accumulato, passato, materializzato, sul lavoro
immediato, vivente, fa del lavoro accumulato capitale.
Il capitale non consiste nel fatto che il lavoro accumulato serve al lavoro
vivente come mezzo per una nuova produzione. Esso consiste nel fatto che il
lavoro vivente serve al lavoro accumulato come mezzo per conservare e per
accrescere il suo valore di scambio57.
Che cosa avviene nello scambio fra capitale e lavoro59
salariato?60
L’operaio riceve in cambio del suo lavoro29 dei
mezzi di sussistenza, ma il capitalista, in cambio dei suoi mezzi di
sussistenza, riceve del lavoro, l’attività produttiva dell’operaio, la forza
creatrice con la quale l’operaio non soltanto ricostituisce ciò che consuma, ma
conferisce al lavoro accumulato un valore
maggiore di quanto aveva prima. L’operaio riceve dal capitalista una
parte dei mezzi di sussistenza esistenti. A che gli servono questi mezzi di
sussistenza? Al consumo immediato. Ma non appena io consumo mezzi di
sussistenza essi sono per me irrimediabilmente perduti, nel caso in cui io non
utilizzi il tempo durante il quale essi mi tengono in vita per produrre nuovi
mezzi di sussistenza, per creare, cioè, con il mio lavoro, durante il consumo,
nuovi valori al posto dei valori perduti nel consumo stesso. Ma è appunto
questa nobile forza riproduttiva che l’operaio cede al capitale in cambio dei
mezzi di sussistenza ricevuti. Per se stesso quindi egli l’ha perduta.
Prendiamo un esempio: un fittavolo dà al suo giornaliero cinque groschen d’argento al giorno. Per questi
cinque groschen d’argento il
salariato lavora sul campo del fittavolo per tutta la giornata, assicurandogli
in tal modo un’entrata di dieci groschen
d’argento. Il fittavolo non riceve soltanto, ricostituiti, i valori ch’egli ha
dato al salariato, ma li raddoppia. Quindi, egli ha impiegato, consumato in
modo profittevole, produttivo, i cinque groschen
d’argento ch’egli ha dato al salariato. Per cinque groschen d’argento egli ha comprato il lavoro e la forza del
salariato i quali rendono prodotti del suolo per un valore doppio, e di cinque groschen d’argento ne fanno dieci. Il
salariato, invece, al posto della sua forza produttiva, i cui effetti egli ha
ceduto al fittavolo, riceve cinque groschen
d’argento che egli scambia contro mezzi di sussistenza, che consuma più o meno
rapidamente. I cinque groschen
d’argento sono stati dunque consumati in due modi: in modo riproduttivo per il capitale, poiché essi
sono stati scambiati con una forza-lavoro che ha prodotto dieci groschen d’argento; in modo improduttivo per l’operaio, poiché essi
sono stati scambiati con mezzi di sussistenza, che sono scomparsi per sempre e
il cui valore egli potrà riavere soltanto ripetendo il medesimo scambio con il
fittavolo. Il capitale presuppone dunque il
lavoro salariato, il lavoro salariato presuppone il capitale. Essi si
condizionano a vicenda; essi si generano a vicenda61.
Un operaio in un cotonificio produce egli soltanto tessuti di cotone? No, egli
produce capitale. Egli produce valori che serviranno nuovamente a comandare il
suo lavoro, per creare a mezzo di essi nuovi valori.
Il capitale può accrescersi soltanto se si scambia con il lavoro29, soltanto se produce lavoro salariato. Il lavoro
salariato62 si può scambiare con capitale
soltanto a condizione di accrescere il capitale, di rafforzare il potere di cui
è schiavo. Aumento del capitale è quindi
aumento del proletariato, cioè della classe lavoratrice.
L’interesse del capitalista e dell’operaio è quindi lo stesso, sostengono i borghesi e i loro
economisti. E infatti! L’operaio va in malora se il capitale non lo occupa. Il
capitale va in malora se non sfrutta il lavoro29,
e per sfruttarlo deve comperarlo. Quanto più rapidamente si accresce il
capitale destinato alla produzione, il capitale produttivo, tanto più fiorente
è l’industria; quanto più la borghesia si arricchisce, quanto più gli affari
vanno bene, tanto più il capitalista ha bisogno di operai, tanto più caro si
vende l’operaio.
La condizione indispensabile per una situazione sopportabile dell’operaio è dunque l’accrescimento più rapido possibile del
capitale produttivo.
Ma che cosa vuol dire accrescimento del capitale produttivo? Accrescimento del
potere del lavoro accumulato sul lavoro vivente. Accrescimento del dominio
della borghesia sulla classe operaia. Quando il lavoro salariato produce la
ricchezza estranea che lo domina, il potere che gli è nemico, il capitale, i
mezzi di occupazione, cioè i mezzi di sussistenza, rifluiscono nuovamente verso
di lui, a condizione ch’esso si trasformi di nuovo in una parte del capitale,
in una leva che imprima di nuovo al capitale un accelerato movimento di
sviluppo.
Dire che gli interessi del capitale e gli
interessi del lavoro63 sono gli stessi, significa soltanto che il capitale
e il lavoro salariato sono due termini di uno stesso rapporto. L’uno condiziona
l’altro, allo stesso modo che si condizionano a vicenda lo strozzino e il
dissipatore.
Sino a tanto che l’operaio salariato è operaio salariato, la sua sorte dipende
dal capitale. Questa è la tanto rinomata comunità di interessi fra operaio e
capitalista.
Colonia, 7 aprile. Se cresce il capitale, cresce la massa del
lavoro salariato, cresce il numero dei salariati; in una parola, il dominio del
capitale si estende sopra una massa più grande di individui. E supponiamo pure
il caso più favorevole: se cresce il capitale produttivo, cresce la domanda di
lavoro, e sale perciò il prezzo del lavoro, il salario.
Una casa, per quanto sia piccola, fino a tanto che le case che la circondano
sono ugualmente piccole, soddisfa a tutto ciò che socialmente si esige da una
casa. Ma se, a fianco della piccola casa, si erge un palazzo, la casetta si
ridurrà a una capanna. La casetta dimostra ora che il suo proprietario non può
far valere nessuna pretesa, o solamente pretese minime; e per quanto ci si
spinga in alto nel corso della civiltà, se il palazzo che le sta vicino si
eleva in ugual misura e anche più, l’abitante della casa relativamente piccola
si troverà sempre più a disagio, sempre più scontento, sempre più oppresso fra
le sue quattro mura.
Un aumento sensibile del salario presuppone un rapido aumento del capitale
produttivo. Il rapido aumento del capitale produttivo provoca un aumento
ugualmente rapido della ricchezza, del lusso, dei bisogni sociali e dei
godimenti sociali. Benché dunque i godimenti dell’operaio siano aumentati, la
soddisfazione sociale che essi procurano è diminuita in confronto con gli
accresciuti godimenti del capitalista, che sono inaccessibili all’operaio, in
confronto con il grado di sviluppo della società in generale. I nostri bisogni
e i nostri godimenti sorgono dalla società; noi li misuriamo quindi sulla base
della società, e non li misuriamo sulla base dei mezzi materiali per la loro
soddisfazione. Poiché sono di natura sociale, essi sono di natura relativa64.
Il salario non è in generale determinato soltanto dalla massa di merci che
posso ottenere in cambio di esso. Esso contiene parecchi rapporti.
Ciò che gli operai, anzitutto, ricevono in cambio del loro lavoro29, è una determinata somma di denaro. È il salario
determinato soltanto da questo prezzo in denaro65?
Nel secolo XVI, in seguito alla scoperta dell’America66,
l’oro e l’argento circolanti in Europa aumentarono. Il valore dell’oro e
dell’argento cadde quindi, in rapporto alle altre merci. Gli operai
continuarono a ricevere per il loro lavoro la stessa quantità di argento
monetato. Il prezzo in denaro del loro lavoro rimase lo stesso, eppure il loro
salario era diminuito, poiché, nello scambio, con la stessa quantità di argento
essi ricevevano una quantità minore di altre merci. Questa fu una delle
circostanze che favorirono l’accrescimento del capitale, lo sviluppo della
borghesia nel secolo XVI.
Prendiamo un altro caso. Nell’inverno del 1847, in seguito a un cattivo
raccolto, i generi alimentari di prima necessità, frumento, carne, burro,
formaggi, ecc., aumentarono notevolmente di prezzo. Supposto che gli operai
avessero continuato a ricevere per il loro lavoro la stessa somma di denaro, il
loro salario non sarebbe forse diminuito? Senza dubbio. Per lo stesso denaro
essi ricevevano in cambio meno pane, meno carne, ecc. Il loro salario era
diminuito, non perché fosse diminuito il valore dell’argento, ma perché era
aumentato il valore dei mezzi di sussistenza.
Supponiamo infine che il prezzo in denaro del lavoro non muti, mentre tutti i
prodotti agricoli e industriali, in seguito all’introduzione di nuove macchine,
ad annate più favorevoli, ecc., siano diminuiti di prezzo. Con lo stesso denaro
gli operai possono ora comperare più merci di ogni sorta. Il loro salario è
dunque aumentato, appunto perché il suo valore in denaro non è cambiato.
Il prezzo in denaro del lavoro, il salario nominale, non coincide quindi con il
salario reale, cioè con la quantità di merci che vengono realmente date in
cambio del salario. Quando parliamo, dunque, di aumento o diminuzione del
salario, non dobbiamo tener presente soltanto il prezzo del lavoro in denaro,
il salario nominale.
Ma né il salario nominale, cioè la somma di denaro per la quale l’operaio si
vende al capitalista, né il salario reale, cioè la quantità di merci ch’egli
può comperare con questo denaro, esauriscono i rapporti contenuti nel salario.
Innanzi tutto il salario è determinato anche dal suo rapporto col guadagno, col
profitto del capitalista. Questo è il salario proporzionale, relativo.
Il salario reale esprime il prezzo del lavoro in rapporto col prezzo delle
altre merci67, il salario relativo, invece, il
prezzo del lavoro immediato, in rapporto col prezzo del lavoro accumulato, il
valore relativo di lavoro salariato e capitale, il valore reciproco di
capitalisti e operai68.
Il salario reale può restare immutato, anzi può anche aumentare, e
ciononostante il salario relativo può diminuire. Supponiamo, per esempio, che
il prezzo di tutti i mezzi di sussistenza sia caduto di due terzi, mentre il
salario giornaliero non è caduto che di un terzo, poniamo da tre a due franchi.
Quantunque l’operaio con questi due franchi disponga di una maggiore quantità
di merci, che non prima con tre, il suo salario però è diminuito in rapporto al
guadagno del capitalista. Il profitto del capitalista (del fabbricante, per
esempio) è aumentato di un franco, il che vuol dire che per una minore quantità
di valori di scambio ch’egli paga all’operaio, l’operaio deve produrre una
quantità di valori di scambio maggiore di prima. La parte che va al capitale,
in rapporto alla parte che va al lavoro, è cresciuta69.
La distribuzione della ricchezza sociale fra capitale e lavoro è diventata
ancora più disuguale. Il capitalista, con lo stesso capitale, comanda una
maggiore quantità di lavoro. Il potere della classe capitalista sulla classe
operaia è aumentato; la posizione sociale del lavoratore è peggiorata, è stata
sospinta un gradino più in basso al di sotto di quella del capitalista70.
Qual è dunque la legge generale che
determina l’aumento e la diminuzione del salario e del profitto nel loro
rapporto reciproco?
Essi stanno in rapporto inverso. Il valore di scambio del capitale71, il profitto,
aumenta nella stessa proporzione in cui diminuisce il valore di scambio del
lavoro72, il salario giornaliero, e viceversa. Il profitto sale nella misura in
cui il salario diminuisce, e diminuisce nella misura in cui il salario sale.
Ci si obietterà, forse, che il capitalista può guadagnare per uno scambio
vantaggioso dei suoi prodotti con altri capitalisti, per un aumento della
domanda della sua merce, sia in seguito all’apertura di nuovi mercati, sia in
seguito a un aumento momentaneo dei bisogni dei vecchi mercati, ecc.; che il
profitto del capitalista, quindi, può aumentare a scapito di terzi capitalisti,
indipendentemente dall’aumento o dalla diminuzione del salario, del valore di
scambio del lavoro29; oppure, che il profitto del
capitalista può aumentare anche in seguito a un perfezionamento degli strumenti
di lavoro, a un nuovo impiego di forze naturali, ecc.
Innanzi tutto, si ammetterà che il risultato resta lo stesso, benché raggiunto
per via opposta. Il profitto, infatti, non è aumentato perché il salario è
diminuito, ma il salario è diminuito perché il profitto è aumentato. Il
capitalista, con la stessa somma di lavoro73, ha
comperato una maggiore somma di valori di scambio, senza per questo aver pagato
di più il lavoro; cioè il lavoro viene pagato di meno in rapporto al beneficio
netto che esso procura al capitalista.
Ricordiamo inoltre che, nonostante le oscillazioni dei prezzi delle merci, il
prezzo medio di ogni merce, il rapporto secondo il quale essa si scambia con
altre merci, è determinato dai suoi costi di
produzione. Perciò nel seno della classe capitalista i guadagni
straordinari si compensano necessariamente. Il perfezionamento delle macchine,
il nuovo impiego di forze naturali al servizio della produzione rendono
possibile creare in un dato tempo di lavoro, con la stessa somma di lavoro e di
capitale, una maggiore quantità di prodotti, ma non una maggiore quantità di
valori di scambio. Se con l’impiego della filatrice posso produrre in un’ora il
doppio di filato di quanto non ne producessi prima, per esempio cento libbre
invece di cinquanta, in cambio di queste cento libbre non riceverò74 più merci di quante ne ricevevo prima per cinquanta,
perché i costi di produzione sono caduti della metà, oppure perché con gli
stessi costi posso produrre il doppio.
Infine, qualunque sia la produzione nella quale la classe capitalista, la
borghesia, sia essa di un solo paese o dell’intero mercato mondiale, si
ripartisce il beneficio netto della produzione, la somma totale di questo
beneficio netto non è altro, in ogni circostanza, che la somma di cui il lavoro
accumulato è stato accresciuto, grosso modo, dal lavoro vivo75.
Questa somma totale aumenta dunque nella proporzione in cui il lavoro accresce
il capitale, cioè nella proporzione in cui il profitto aumenta rispetto al
salario.
Noi vediamo dunque che, anche se rimaniamo nel
quadro dei rapporti fra capitale e lavoro salariato, gli interessi del capitale
e gli interessi del lavoro salariato sono diametralmente opposti76.
Un rapido aumento del capitale significa un rapido aumento del profitto. Il
profitto può aumentare rapidamente soltanto quando il valore di scambio77 del lavoro, quando il salario relativo diminuisce con
la stessa rapidità. Il salario relativo può diminuire anche se il salario reale
sale assieme salario nominale cioè assieme al valore monetario del lavoro, a
condizione che esso non salga nella stessa proporzione che il profitto. Se, per
esempio, in epoche di buoni affari il salario aumenta del 5 per cento mentre il
profitto aumenta del 30 per cento, il salario proporzionale, relativo, non è aumentato, ma diminuito.
Se dunque con il rapido aumento del capitale aumentano le entrate dell’operaio,
nello stesso tempo però si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio
dal capitalista, aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del
lavoro dal capitale.
Dire che l’operaio ha interesse al rapido aumento del capitale significa
soltanto che, quanto più rapidamente l’operaio accresce la ricchezza altrui,
tanto più grasse sono le briciole che gli sono riservate, tanto più numerosi
sono gli operai che possono essere impiegati e messi al mondo, tanto più può
essere aumentata la massa degli schiavi alle dipendenze del capitale.
Abbiamo dunque visto:
Anche la situazione più favorevole
per la classe operaia, un aumento quanto più
possibile rapido del capitale, per quanto possa migliorare la vita
materiale dell’operaio non elimina il contrasto fra i suoi interessi e gli
interessi del capitalista. Profitto e
salario stanno, dopo come prima, in proporzione
inversa.
Se il capitale aumenta rapidamente, per quanto il salario possa aumentare, il
profitto del capitale aumenta in modo sproporzionatamente più rapido. La
situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua
situazione sociale.
Infine:
Dire che la condizione più favorevole per il lavoro salariato è un aumento il
più rapido possibile del capitale produttivo, significa soltanto che, quanto
più rapidamente la classe operaia accresce e ingrossa la forza che le è nemica,
la ricchezza che le è estranea e la domina, tanto più favorevoli sono le
condizioni in cui le è permesso di lavorare a un nuovo accrescimento della
ricchezza borghese, a un aumento del potere del capitale, contenta di forgiare
essa stessa le catene dorate con le quali la borghesia la trascina dietro di
sé.
Colonia, 10 aprile. L’accrescimento del capitale produttivo e l’aumento del
salario sono però davvero così inseparabilmente uniti come
pretendono gli economisti borghesi? Non dobbiamo creder loro sulla parola. Non
dobbiamo nemmeno creder loro che, quanto più florido è il capitale, tanto
meglio viene ingrassato il suo schiavo. La borghesia è troppo intelligente,
essa sa fare i conti troppo bene, per condividere i pregiudizi dei signori
feudali, i quali si vantavano dello sfarzo della loro servitù. Le condizioni di
esistenza della borghesia la costringono a calcolare.
Dobbiamo quindi esaminare più da vicino la questione seguente:
Quale influenza esercita sul salario
l’accrescimento del capitale produttivo?
Se il capitale produttivo della società borghese si accresce nel suo insieme,
ha luogo una accumulazione di lavoro più
vasta. I capitalisti crescono di numero, i loro capitali crescono di
dimensione. L’aumento del numero
dei capitali aumenta la concorrenza fra i
capitalisti. La crescente
dimensione dei capitali fornisce i mezzi per portare sul campo di battaglia dell’industria
eserciti sempre più potenti di operai, con strumenti di guerra sempre più
giganteschi.
Un capitalista può cacciare l’altro dal campo e conquistare il suo capitale
solamente vendendo più a buon mercato. Per poter vendere più a buon mercato
senza rovinarsi, deve produrre più a buon mercato, cioè aumentare quanto più è
possibile la forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro viene
però aumentata, innanzi tutto, con una maggiore
divisione del lavoro, con un’introduzione generale e un
perfezionamento costante del macchinario.
Quanto più grande è l’esercito degli operai fra i quali il lavoro viene diviso,
quanto più gigantesca è la scala in cui vengono introdotte le macchine, tanto
più diminuiscono proporzionalmente i costi di produzione, tanto più fruttuoso
diventa il lavoro. Sorge quindi una gara generale fra i capitalisti per
accrescere la divisione del lavoro e il macchinario e per sfruttarli sulla
scala più grande che sia possibile78.
Se ora un capitalista, con una più grande divisione del lavoro, con l’impiego e
col perfezionamento di nuove macchine, con uno sfruttamento più vantaggioso e
più grandioso delle forze naturali, ha trovato il modo di produrre con la
stessa quantità di lavoro o di lavoro accumulato una maggiore quantità di
prodotti, di merci, che i suoi concorrenti; se, per esempio, nello stesso tempo
di lavoro in cui i suoi concorrenti tessono un mezzo braccio di tela, egli può
produrne un braccio, come si comporterà?
Egli potrebbe continuare a vendere mezzo braccio di tela al precedente prezzo
di mercato; ma questo non sarebbe un mezzo per eliminare i suoi avversari e
aumentare il proprio smercio. Ma nella stessa misura in cui si è estesa la sua
produzione, si è esteso il suo bisogno di smercio. I mezzi di produzione più
potenti e più costosi ch’egli ha messo in azione gli danno la capacità di vendere le sue merci più a buon
mercato, ma lo costringono in
pari tempo a vendere più merci, a
conquistare un mercato incomparabilmente più
vasto per le sue merci. Il nostro capitalista venderà dunque il
mezzo braccio di tela più a buon mercato dei suoi concorrenti.
Ma il capitalista non venderà l’intero braccio di tela allo stesso prezzo a cui
i suoi concorrenti vendono il mezzo braccio, quantunque la produzione di un
intero braccio a lui non costi più di quanto costi agli altri la produzione di
mezzo braccio. Se facesse così, non realizzerebbe dei guadagni straordinari,
non farebbe che riavere in cambio i costi di produzione. La sua eventuale
maggiore entrata dipenderebbe in tal caso soltanto dal fatto che egli ha messo
in movimento un capitale più grande, e non dal fatto di aver valorizzato il suo
capitale in misura maggiore degli altri. Inoltre, se fissa il prezzo della sua
merce soltanto di qualche unità percentuale più in basso dei suoi concorrenti,
egli raggiunge lo scopo che vuol raggiungere. Egli li elimina, egli strappa
loro almeno una parte del loro smercio, vendendo
a un prezzo inferiore. E infine, ricordiamo che il prezzo corrente
sta sempre al di sopra o al di sotto dei
costi di produzione, a seconda che la vendita di una merce cade
nella stagione favorevole o sfavorevole all’industria. A seconda che il prezzo
di mercato della tela sta al di sopra o al di sotto dei costi di produzione che
prima le erano abituali, varia la percentuale con cui il capitalista, che ha
impiegato mezzi di produzione nuovi e più fruttuosi, vende al di sopra dei suoi
costi di produzione reali.
Ma il privilegio del nostro
capitalista non è di lunga durata; altri capitalisti concorrenti introducono le
stesse macchine, la stessa divisione del lavoro, lo fanno su una stessa scala o
su una scala più grande, e così questa introduzione diventa generale, fino a
che il prezzo della tela cade non soltanto al
di sotto dei suoi vecchi costi di produzione, ma al di sotto dei nuovi.
I capitalisti si trovano dunque, reciprocamente, nella stessa situazione in cui
si trovavano prima dell’introduzione
dei nuovi mezzi di produzione; e se essi possono, con questi mezzi, portare al
mercato agli stessi prezzi una quantità doppia di prodotti, sono però costretti
ora a vendere questo doppio
prodotto al di sotto del vecchio
prezzo. Sulla base di questi nuovi costi di produzione ricomincia lo stesso
giuoco. Maggiore divisione del lavoro, più macchinario, una scala più grande su
cui vengono sfruttati la divisione del lavoro e il macchinario. E la
concorrenza produce nuovamente la stessa reazione a questo risultato79.
Vediamo dunque che così il modo di produzione, i mezzi di produzione, sono
costantemente sconvolti, rivoluzionati, che la
divisione del lavoro porta con sé necessariamente una maggiore divisione del
lavoro; l’impiego di macchine, un maggior impiego di macchine; il lavoro su
vasta scala, un lavoro su scala ancora più vasta.
È questa la legge che di continuo getta la produzione borghese fuori del suo
vecchio binario e costringe il capitale a intensificare sempre più le forze
produttive del lavoro, perché
esso le ha intensificate una prima volta; la legge che non gli concede nessuna
tregua e gli mormora senza interruzione : Avanti! Avanti!
Questa legge non è altro che la legge la quale, entro i limiti delle oscillazioni
dei cicli commerciali, riconduce
necessariamente il prezzo di una merce ai suoi costi
di produzione.
Per quanto potenti siano i mezzi di produzione che un capitalista mette in
campo, la concorrenza generalizzerà questi mezzi di produzione, e, a partire
dal momento che essa li ha generalizzati, l’unico vantaggio della maggiore
produttività del suo capitale è che egli ora dovrà fornire al mercato per lo stesso prezzo, dieci, venti, cento
volte più merci di prima. Ma poiché egli dovrà forse vendere mille volte di più
per compensare con una maggiore massa di prodotti venduti il prezzo di vendita
più basso; poiché una vendita molto più larga è ora necessaria non soltanto per
guadagnare, ma per reintegrare i costi di produzione, lo strumento di
produzione stesso diventa, come abbiamo visto, sempre più caro, poiché questa
vendita così larga è divenuta una questione di vita o di morte non solo per
lui, ma anche per i suoi rivali; per questo la vecchia lotta ricomincia tanto più aspra, quanto più fruttuosi sono i mezzi di
produzione già scoperti. La divisione del lavoro e l’impiego del macchinario
proseguiranno dunque a svilupparsi sempre più, in misura sempre più grande.
Qualunque sia la potenza dei mezzi di produzione impiegati, la concorrenza
cerca di rapire al capitale i frutti dorati di questa potenza, riconducendo il
prezzo della merce ai costi di produzione; facendo sì che, nella misura in cui
si può produrre di più a buon mercato, cioè nella misura in cui si può produrre
di più con la stessa somma di lavoro, la produzione più a buon mercato, la
fornitura di masse sempre maggiori di prodotti per lo stesso prezzo diventi una
legge inesorabile. In tal modo con i suoi sforzi il capitalista non avrebbe
guadagnato nient’altro che l’obbligo di produrre di più nello stesso tempo di
lavoro, in una parola, nient’altro che condizioni
più difficili di valorizzazione del suo capitale. Mentre la
concorrenza lo perseguita senza tregua con la sua legge dei costi di produzione
e ogni arma che egli forgia contro i suoi rivali si ritorce contro lui stesso,
il capitalista cerca continuamente di superare la concorrenza sostituendo senza
tregua al vecchio macchinario e alla vecchia divisione del lavoro macchinari
nuovi e nuove divisioni del lavoro, più costose, ma che producono più a buon
mercato, e ciò senza attendere che la concorrenza abbia rese vecchie anche le
nuove.
Se ci rappresentiamo questa agitazione febbrile contemporaneamente su tutto il mercato mondiale, comprenderemo
come l’aumento, l’accumulazione e la concentrazione del capitale hanno come
conseguenza una divisione del lavoro ininterrotta, che travolge se stessa e
viene introdotta su una scala sempre più gigantesca, un ininterrotto impiego di
nuovo macchinario e il perfezionamento del vecchio.
Ma come agiscono queste circostanze, le
quali sono inseparabili dall’aumento del capitale produttivo, sulla
determinazione del salario?
La maggiore divisione del lavoro
rende capace un operaio di fare
il lavoro di cinque, di dieci, di venti; essa aumenta quindi di cinque, di
dieci, di venti volte la concorrenza fra gli operai. Gli operai si fanno
concorrenza non soltanto vedendosi più a buon mercato l’uno dell’altro; essi si
fanno concorrenza nella misura in cui uno
fa il lavoro di cinque, di dieci, di venti, e la divisione del lavoro, introdotta dal capitale e sempre
accresciuta, costringe gli operai a farsi questo genere di concorrenza.
Inoltre, nella stessa misura in cui la divisione
del lavoro aumenta, il lavoro si semplifica.
L’abilità particolare dell’operaio perde il suo valore. Egli viene trasformato
in una forza produttiva semplice, monotona, che non deve più far ricorso a
nessuno sforzo fisico e mentale. Il suo lavoro diventa lavoro accessibile a
tutti. Perciò da ogni parte si precipitano su di lui dei concorrenti; e
ricordiamo inoltre che quanto più il lavoro è semplice, quanto più facilmente
lo si impara, quanto minori costi di produzione occorrono per rendersene
padroni, tanto più in basso cade il salario, perché, come il prezzo di
qualsiasi altra merce, esso è determinato dai costi di produzione.
Nella misura, dunque, in cui il lavoro
diventa tedioso e privo di soddisfazioni, nella stessa misura aumenta la
concorrenza e diminuisce il salario. L’operaio cerca di conservare
la massa del suo salario lavorando di più, sia lavorando più ore, sia
producendo di più nella stessa ora. Spinto dal bisogno, egli rende ancora più
gravi gli effetti malefici della divisione del lavoro. Il risultato è il
seguente: più egli lavora, meno salario
riceve, e ciò per la semplice ragione che nella stessa misura in cui
egli fa concorrenza ai suoi compagni di lavoro, egli si fa di questi compagni
di lavoro altrettanti concorrenti, che si offrono alle stesse cattive
condizioni alle quali egli si offre, perché, in ultima analisi, egli fa concorrenza a se stesso, a se stesso in quanto
membro della classe operaia81.
Le macchine portano agli stessi
risultati su una scala molto più vasta, perché sostituiscono operai qualificati
con operai non qualificati, uomini con donne, adulti con ragazzi, perché le
macchine là dove vengono introdotte per la prima volta gettano sul lastrico
masse enormi di operai manuali, e dove vengono migliorate e perfezionate,
sostituite ad altre più redditizie, provocano il licenziamento degli operai a
gruppi più piccoli. Abbiamo già tracciato a grandi tratti il quadro della
guerra industriale fra capitalisti; questa
guerra ha come carattere specifico che le battaglie in essa vengono vinte meno
con l’arruolamento di nuove armate di operai che con il loro licenziamento. I
comandanti, i capitalisti, fanno a gara a chi può licenziare il maggior numero
di soldati dell’industria.
È vero che gli economisti ci raccontano che gli operai resi superflui dalle
macchine trovano lavoro in nuove
branche dell’industria.
Essi non osano sostenere direttamente che gli stessi operai che vengono
licenziati trovino un rifugio in nuovi rami di lavoro. I fatti gridano troppo
forte contro questa menzogna. Essi si limitano ad affermare che per altre parti costitutive della classe operaia,
per esempio per quella parte della giovane generazione operaia che era già
pronta a entrare nel ramo dell’industria rovinato, si apriranno nuovi campi di
impiego82. Ciò costituisce, evidentemente, una
grande soddisfazione per gli operai colpiti. Ai signori capitalisti non
mancheranno carne e sangue freschi da sfruttare; si lascerà che i morti
seppelliscano i loro morti83. È questo un
conforto che i borghesi concedono più a se stessi che agli operai. Se tutta la
classe dei salariati fosse distrutta dalle macchine, che cosa terribile per il
capitale, il quale senza lavoro salariato cessa di essere capitale!
Ma supponiamo pure che gli operai, che le macchine hanno eliminato dal lavoro
direttamente, e tutta quella parte della nuova generazione, la quale già era in
attesa di essere assunta in quel ramo, trovino
una nuova occupazione. Credete voi che tale occupazione sarà
retribuita come quella che è andata perduta? Ciò
sarebbe in contraddizione con tutte le leggi dell’economia. Abbiamo
visto come l’industria moderna tenda sempre a sostituire a una occupazione
complessa, superiore, una occupazione più semplice, di ordine inferiore.
Come potrebbe dunque una massa di operai, che le macchine hanno espulso da una
branca dell’industria, trovare rifugio in un’altra, a meno che non sia pagata peggio, con un salario inferiore?
Sono stati citati come eccezione gli operai che lavorano alla fabbricazione
delle macchine stesse. Non appena nell’industria si richiedono e consumano più
macchine, le macchine devono necessariamente aumentare, quindi anche la
fabbricazione di macchine, quindi anche l’occupazione degli operai che lavorano
alla fabbricazione di macchine; e gli operai occupati in questa branca
d’industria sarebbero operai qualificati, anzi operai specializzati.
A partire dal 1840 questa affermazione, già prima vera soltanto per metà, ha
perduto ogni parvenza di verità, in quanto per la fabbricazione delle macchine
si impiegano in modo sempre più generale le macchine, né più né meno che per la
fabbricazione del filo di cotone, e gli operai occupati nelle fabbriche di
macchine tengono soltanto più il posto di macchine estremamente imperfette di
fronte a macchine estremamente perfezionate84.
Ma al posto dell’uomo che la macchina ha eliminato, la fabbrica occupa forse
ora tre ragazzi e una donna. Il salario dell’uomo non
avrebbe dovuto bastare per tre bambini e una donna? Il salario minimo non
avrebbe dovuto bastare per conservare e accrescere la razza? Che cosa prova
dunque questa affermazione così cara ai borghesi? Essa non prova altro, se non
che ora vengono consumate quattro volte più vite operaie di prima, per
guadagnare il sostentamento di una sola
famiglia operaia.
Riassumendo: quanto più il capitale
produttivo cresce, tanto più si estendono la divisione del lavoro e l’impiego
della macchine. Quanto più la divisione del lavoro e l’impiego della macchine
si estendono, tanto più si estende la concorrenza fra gli operai, tanto più si
contrae il loro salario.
Per di più, la classe operaia si recluta anche fra gli strati più alti della società; in essa va
a finire una massa di piccoli industriali e di gente che viveva di una piccola
rendita, che non ha nulla di più urgente da fare che il levare le braccia
accanto alle braccia degli operai. Così la foresta delle braccia tese in alto e
imploranti lavoro si fa sempre più folta, e le braccia stesse si fanno sempre
più scarne.
Il fatto che il piccolo industriale non può sopravvivere a questa guerra85, in cui una delle prime condizioni è di produrre su
una scala sempre più vasta, cioè di essere appunto un grande e non un piccolo
industriale, si comprende da sé.
Il fatto che l’interesse del capitale diminuisce nella stessa misura in cui la
massa e il numero dei capitali aumentano, nella misura in cui il capitale
cresce, e che perciò colui che vive di una piccola rendita non può più vivere
della sua rendita e deve buttarsi nell’industria, contribuendo con ciò a
ingrossare le file dei piccoli industriali, e quindi dei candidati al
proletariato, tutto questo non ha bisogno di essere maggiormente chiarito86.
Infine, nella misura in cui i capitalisti sono costretti, dal movimento che
abbiamo descritto, a sfruttare su una scala più grande i mezzi di produzione
giganteschi già esistenti, e a mettere in moto per questo scopo tutte le leve
del credito87, nella stessa misura aumentano i
terremoti88, in cui il mondo del commercio si
mantiene soltanto sacrificando agli dèi inferi una parte della ricchezza, dei
prodotti e persino delle forze produttive: in una parola, nella stessa misura
aumentano le crisi. Esse
diventano più frequenti e più forti per il solo fatto che, nella misura in cui
la massa della produzione, cioè il bisogno di estesi mercati, diventa più
grande, il mercato mondiale sempre più si contrae, i nuovi mercati da sfruttare
si fanno sempre più rari, poiché ogni crisi precedente ha già conquistato al
commercio mondiale un mercato fino ad allora non conquistato o sfruttato dal
commercio soltanto in modo superficiale89. Ma il
capitale non vive soltanto del
lavoro. Signore ad un tempo barbaro e grandioso, esso trascina con sé
nell’abisso i cadaveri dei suoi schiavi, intere ecatombe di operai che
periscono nelle crisi. Noi vediamo dunque che, se
il capitale cresce rapidamente, cresce in modo incomparabilmente più rapido la
concorrenza fra gli operai, cioè sempre più diminuiscono proporzionalmente i
mezzi di occupazione, i mezzi di sussistenza per la classe operaia e ad onta di
ciò il rapido aumento del capitale è la condizione più favorevole per il lavoro
salariato.
(Continua)90
1 Resta uno schema manoscritto di sedici pagine, relativo alle
conferenze tenute a Bruxelles, pubblicato postumo per la prima volta nel 1925
sulla rivista Unter dem banner des Marxismus,
riportato nelle opere complete con il titolo di Salario, il cui testo è a pag. 59 del presente volume.
2 Nella “Prefazione” a Per
la critica dell'economia politica Marx accenna specificamente al suo
progetto di una pubblicazione tratta dai suoi appunti del 1847: «La
pubblicazione d'una dissertazione, scritta in lingua tedesca, sul Lavoro salariato, in cui raccoglievo le
conferenze tenute da me su questo argomento nella Associazione degli operai
tedeschi di Bruxelles, venne interrotta dalla rivoluzione di febbraio e dalla
mia espulsione dal Belgio che ne seguì».
3 Nel 1881, all'insaputa di tutti (probabilmente dello stesso
Marx), era stata realizzata a Breslavia una edizione di 24 pagine
dell'opuscolo. Nel 1884, dopo la morte di Marx, Engels aveva ripubblicato gli
articoli apparsi sulla “Neue Reinische Zeitung” con il titolo di Lohnarbeit und Kapital.
4 In questa sua notazione, e in quelle successive, Engels si
riferisce naturalmente alla sua redazione del 1891. Come sottolineato nella
“Nota editoriale” introduttiva a pag. 5 di questo volume, il testo
riportato nella presente edizione è, invece, quello originario pubblicato sulla
“Neue Reinische Zeitung” nel 1849. Le modificazioni apportate da Engels nell'edizione
del 1891 sono tutte riportate in nota.
5 Cfr.: K.Marx, Il Capitale,
vol.I, Cap.I: «... Per economia politica classica io intendo tutta l'economia,
da W.Petty in poi, che indaga il nesso interno dei rapporti di produzione
capitalistici». I maggiori rappresentanti dell'economia politica classica in
Inghilterra furono A.Smith e D.Ricardo.
6 Cfr.: F.Engels, Antidüring,
Sez.II, Cap.I: «L'economia politica, pur essendo sorta in alcune menti geniali
verso la fine del secolo XVII, nella sua forma positiva è però stata creata dai
fisiocratici e da Adam Smith; essa è dunque essenzialmente figlia del secolo
XVIII».
7 Cfr. anche: K.Marx,
Salario, prezzo e profitto, pubblicato per la prima volta nel 1898,
dopo la morte di Marx, e che costituisce una esposizione popolare di questo
stesso problema.
8 Val la pena di sottolineare ulteriormente che fin qui Marx
non ha “inventato” né “scoperto” niente: egli si è limitato ad evidenziare
impietosamente la contraddizione irrisolvibile a cui era approdata l'economia
politica classica. Merito di Marx — come sottolinea Engels — è di aver indicato
la via per uscirne in modo rigoroso e di aver individuato il plus-lavoro e il plu-valore.
9 Cfr.: K.Marx, Il Capitale,
Vol..I.
10 Con estrema lucidità e semplicità Engels fornisce una chiave
di lettura attualissima dell'applicazione del progresso scientifico e
tecnologico al processo produttivo all'interno dei rapporti di produzione
capitalistici: ad ogni scoperta scientifica applicata alla produzione, ad ogni
innovazione tecnologica inserita nel ciclo produttivo aumenta la quantità di lavoro non retribuita all'operaio, aumenta il plus-lavoro di cui si appropria
il capitalista sotto forma di plus-valore, aumenta
— quindi — lo sfruttamento. Il progresso scientifico e tecnologico, dunque, conferma — non contraddice — l'analisi
marxista, poiché moltiplica e ingigantisce gli effetti iniqui del sistema
capitalistico di produzione.
11 Dopo oltre un secolo la constatazione di Engels è ancora più
vera ed attuale, malgrado le conquiste parziali strappate dai lavoratori, e
nonostante che il capitalismo liberoscambista abbia ceduto il passo al
capitalismo monopolista e imperialista. Proprio la mondializzazione dei mercati
ha generalizzato su scala planetaria quel tipo di società che «soffoca nella
sua stessa abbondanza», in cui cresce incessantemente la divaricazione tra «una
piccola classe smisuratamente ricca» e una «grande classe di salariati
nullatenenti». E lo sviluppo storico ha confermato come «questo stato di cose
diventa di giorno in giorno più assurdo e più inutile». Cfr. anche: Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo.
12 La politica di piano è irrinunciabile nella società
socialista, ma non è di per sé sufficiente e non ne costituisce elemento
esclusivo e caratterizzante. Necessaria per coordinare e finalizzare le
«immense forze produttive di tutti i membri della società» e per evitare che si
riproponga l'anarchia tipica dell'economia capitalistica, trova i suoi
presupposti in valori, obbiettivi e meccanismi del tutto opposti a quelli del
modo di produzione e di distribuzione del capitalismo. È in questa differenza
che risiede l'inutilità degli sforzi di pianificazione che la borghesia va
compiendo e, probabilmente, anche di molti errori e distorsioni nelle
esperienze del socialismo “realizzato”. Non va, infine, dimenticato che anche
tutti gli opportunisti fanno ricorso alla pianificazione come mezzo per
superare il caos dell'economia capitalistica, o come traguardo di un “supercapitalismo”
che, padrone incontrastato del mondo e privo (!) di contraddizioni interne,
potrebbe finalmente programmare lo sviluppo e il benessere dell'intera società
(!).
13 Engels delinea con rapidissimi tratti lo straordinario
orizzonte che si apre per l'umanità con il “nuovo ordine sociale” in cui,
finalmente, l'immenso potenziale di forze e di creatività della società avrà la
possibilità di dispiegare tutte le proprie capacità di progresso. E — oggi più
di ieri — il grande sviluppo scientifico e tecnologico, la crescita
straordinaria di tutte le forze produttive — che il sistema capitalistico
distorto oggi soffoca e distrugge e che debbono essere liberate — rendono più
che mai possibile e necessario questo nuovo punto di partenza per l'umanità, un
diverso e straordinario sviluppo (“in misura crescente” e “a disposizione di
tutti”) quale la storia non ha mai conosciuto.
14 Il 1° Maggio fu proclamato giornata di lotta e di festa
della classe operaia nel 1889 con una risoluzione del I° Congresso operaio
internazionale (con cui fu fondata la II Internazionale) tenutosi a Parigi. Le
Trade-Unions inglesi decisero di celebrare questa giornata di solidarietà la
prima domenica del mese che, nel 1891, cadeva il giorno 3.
15 Marx, nella lettera del 1° agosto 1849 all'amico Joseph
Weydemeyer indica questo lavoro con il titolo di Il salario. La suddivisione in capitoli qui riportata
corrisponde alla sequenza di pubblicazione dei cinque editoriali sulla Neue Rheinisce Zeitung rispettivamente dei
5, 6, 7, 8 e 11 aprile 1849.
16 È il concetto fondamentale che sta alla base della
concezione materialistica della storia elaborata da Marx: ogni società è divisa
in classi e i loro rapporti politici poggiano sulle rispettive condizioni
materiali e, cioè, sui loro reciproci rapporti economici. Così, nella società
borghese, le lotte tra la classe dei capitalisti e quella dei proletari si
basano sulle condizioni materiali insite nei rapporti capitalistici di
produzione e di scambio che vedono queste due classi proprietarie l'una di
tutti i mezzi di produzione (e, quindi dei prodotti e del loro valore di
scambio), e l'altra esclusivamente della propria forza-lavoro.
Quanto alle lotte “nazionali” occorre sottolineare come la lotta del
proletariato, pur essendo senza frontiere, è in ciascun paese diretta in primo
luogo necessariamente contro la borghesia organizzata come classe dominante
(economicamente e politicamente) su base nazionale.
17 Si tratta delle rivoluzioni del 23 e 24 febbraio 1848 a Parigi,
del 13 marzo a Vienna e del 18 marzo a Berlino.
18 «1848» è aggiunto nella edizione del 1891 da Engels.
19 Marx si riferisce agli avvenimenti più importanti del
biennio 1848-49: l'insurrezione del proletariato di Parigi dei 23-26 giugno
1848; la repressione dell'insurrezione popolare dell'ottobre dello stesso anno
a Vienna, culminata con la conquista della città il 1° novembre da parte delle
truppe di Windischgrätz; il colpo di Stato controrivoluzionario in Prussia del
novembre 1848 con lo scioglimento dell'Assemblea nazionale prussiana il 5
dicembre successivo; le lotte di liberazione e di indipendenza nazionale in
Polonia, Italia e Ungheria. Infine l'Irlanda, dove negli anni tra il 1845 e il
1847 si ebbe una terribile carestia seguita al ripetersi di pessimi raccolti di
patate.
20 Engels, edizione del 1891: «del cosiddetto ceto inurbato».
21 Questo opuscolo è, appunto, il primo dei tre capitoli
previsti da Marx, l'unico che fu possibile pubblicare prima che la “Neue Rheinische
Zeitung” fosse soppressa nel maggio 1849 dalle autorità, in seguito al
precipitare della situazione politica. Come sottolinea Engels nella Introduzione del 1891 «il manoscritto del
seguito non è stato trovato tra le carte lasciate da Marx» (cfr. pag. 9 e nota
n.1).
22 Engels, nell'edizione del 1891, sostituisce sempre «franco»
con «marco».
23 Engels, 1891: le parole «per un determinato tempo di lavoro
o» sono omesse.
24 Engels, 1891: «capitalista» invece di «borghese».
25 Engels, 1891: «Il capitalista, sembra,».
26 Engels nell'edizione del 1891 ha aggiunto: «Ma ciò non
è che l'apparenza. Ciò che essi in realtà vendono al capitalista per denaro è
la loro forza-lavoro. Il
capitalista compera per un giorno questa forza-lavoro, una settimana, un mese,
ecc. E dopo averla comperata, egli la usa facendo lavorare gli operai per il
tempo pattuito».
La differenza tra lavoro e forza-lavoro è decisiva in tutta la
elaborazione marxista sul salario e sul plus-valore: è alla base della
spiegazione scientifica data da Marx della determinazione del salario e della
natura dello sfruttamento capitalistico. La forza-lavoro è la capacità
lavorativa (energia muscolare, capacità mentale, abilità, etc.) che
l'operaio possiede, che deve essere continuamente riprodotta e che consente
all’operaio di effettuare un lavoro concreto (ad esempio, di fabbricare un
determinato oggetto). È del tutto evidente che tale lavoro concreto è cosa del
tutto diversa dalla capacità di lavoro (o forza-lavoro) che l’operaio
possiede.
27 Engels, 1891: «il capitalista ha comperato la loro
forza-lavoro».
28 Engels, 1891: invece di «lavoro», «uso di forza-lavoro».
29 Engels, 1891: «forza-lavoro» invece di «lavoro».
30 Engels, 1891: «per tanto uso di forza-lavoro».
31 Engels, 1891: «prezzo della forza-lavoro, che d'abitudine si
chiama il prezzo del lavoro».
32 Nell'edizione del 1891 Engels sostituisce, qui e di seguito
«borghese» con «capitalista».
33 Dunque: anche per Marx, come per gli economisti classici,
l'acquisto di forza-lavoro produttiva da parte del capitalista costituisce un investimento di capitale al pari
dell'acquisto degli impianti, degli strumenti di lavoro, delle materie prime,
etc.
34 Qui Marx accenna ad un altro suo concetto fondamentale,
quello del «lavoro estraniato» e, quindi, dell’alienazione
dell’operaio nella società capitalistica. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx
aveva scritto: «L’espropriazione dell’operaio
nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un
oggetto, un’esterna esistenza,
bensì che esso esiste fuori di lui,
indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e
che la vita, da lui data all’oggetto lo confronta estranea e nemica». «In che
cosa consiste ora l’espropriazione del lavoro? Primieramente in questo: che il
lavoro resta esterno all’operaio,
cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel
suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna
libera energia fisica o spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il
suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro,
e fuori di sé nel lavoro. Come a casa sua è solo quando non lavora e quando
lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi
la soddisfazione di un bisogno bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni a esso». Il lavoro
in cui l’operaio si aliena è, dunque, un sacrificio, una mortificazione; la sua
attività non appartiene più a lui ma ad un altro. «Il risultato è che l’uomo
(il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel
mangiare, nel bere e nel generare [....] e che nelle sue funzioni umane si
sente solo più che una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il
bestiale».
35 Engels, 1891: «a questo o quel capitalista, ma alla classe
dei capitalisti».
36 Engels, 1891: «classe dei capitalisti».
37 L'ordinamento giuridico borghese considera — sotto il
profilo formale — il proletario “libero”, mentre il sistema economico borghese
ne fa — di fatto — una sorta di schiavo. Il lavoratore salariato è, per così
dire, “libero di essere schiavo”. E, del resto, questa sua condizione di
completa subordinazione economica è sancita da quello stesso ordinamento
giuridico borghese che, mentre tutela solo formalmente la “libertà” e la
“uguaglianza” dei cittadini, disciplina, nella sostanza, attraverso la tutela
della proprietà privata, la disuguaglianza e due ben diversi concetti di
libertà. Da questa evidente contraddizione tra rapporti giuridici formali e
rapporti economici reali scaturisce il rifiuto marxista della democrazia
liberale borghese.
38 Nel manoscritto copiato dall'amico di Marx, Weydemeyer, si
legge qui di seguito: «... secondo le leggi della concorrenza. Ed esse, come ho
già spiegato, riconducono sempre il prezzo della merce al suo costo di
produzione. Ciò però non avviene in modo tale che le merci si vendano e si
comprino sempre ugualmente ai prezzi indicati, ma in modo che ai costi di
produzione si uguaglia il prezzo medio, che si ottiene come risultato di grandi
oscillazioni della domanda e dell'offerta».
39 Il lettore tenga conto che Marx, ovviamente, analizza il
fenomeno all'interno della realtà del suo tempo, l'unica che egli conosca e
possa studiare, quella di un capitalismo ancora basato sulla libera
concorrenza. L'avvento dei monopoli, intorno alla fine del secolo scorso, ha
spesso notevolmente modificato il meccanismo studiato da Marx, portando anche a
fenomeni paradossali apparentemente opposti, proprio per la capacità delle
concentrazioni monopolistiche di assumere, entro certi limiti, decisioni e
comportamenti che un sistema concorrenziale non permetterebbe.
40 Marx, in linea con l'economia classica, sostiene che per
comprendere effettivamente le ragioni delle oscillazioni dei prezzi occorre
superare la “banalità” della legge della domanda e dell'offerta ed elaborare
una teoria dei costi che si basi sul valore delle merci in termini di lavoro.
La quantità, cioè, di forza-lavoro necessaria alla produzione individua il
costo di produzione intorno a cui i prezzi oscillano. L'economia politica
borghese moderna ha creduto di poter superare questa teoria sostituendovi
quella della cosiddetta “utilità marginale” che, in realtà ha ben poco di
scientifico poiché sostituisce al criterio oggettivo
dei costi di produzione quello soggettivo della
valutazione, da parte dei singoli individui, del grado di utilità — da ciascuno
attribuibile arbitrariamente — per definire il valore delle merci.
41 La formazione dei monopoli ha evidentemente modificato
questo meccanismo descritto da Marx: la mobilità assoluta dei capitali è
possibile soltanto in un sistema di piena concorrenza. Il regime monopolistico
ostacola o impedisce l'immigrazione di capitali e la formazione di nuove
aziende in un determinato settore produttivo. Il regime dei prezzi, di
conseguenza, non subisce l'influenza di questa mobilità dei capitali e delle
conseguenti variazioni della produzione. Cfr. anche: Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo.
42 Vale a dire che in regime di libera concorrenza la
formazione del prezzo delle merci si spiega con la variazione complessiva della produzione e della
circolazione delle merci: i prezzi sono spinti ciclicamente ora in alto ora in
basso a seconda delle fasi alterne di queste variazioni. La formazione dei
prezzi, cioè, si determina, sì, sulla base dei
costi di produzione delle merci, ma attraverso
il meccanismo della concorrenza. Ne Il capitale Marx spiegherà che i prezzi di vendita delle
merci oscillano intorno ai “prezzi di produzione” (costi di produzione +
profitto medio). Cfr.: Marx, Il Capitale,
II, sez. I-IV).
43 Engels, 1891: «logorio degli strumenti di lavoro».
44 Nel manoscritto ricopiato da Weydemeyer si legge qui di
seguito: «Ancora una volta abbiamo stabilito che il prezzo di una merce è
determinato dai costi di produzione, e i costi di produzione del lavoro sono i
costi che si esigono per conservare l'operaio come operaio e fare di lui un
operaio».
45 Marx tiene in debito conto che il valore della forza-lavoro
può avere grandezze diverse, vuoi per motivi storici, vuoi per il maggior costo
della formazione e dell'apprendimento. Non per caso, ed anche per questo
motivo, il salario di un lavoratore qualificato o specializzato è superiore a
quello di un lavoratore generico. E poiché il valore della forza-lavoro può
essere diverso Marx ha sempre polemizzato con la tesi ingenua del “livellamento
dei salari”, ritenuta da lui priva di qualsiasi fondamento. Cfr.: Marx, Critica al programma di Gotha.
46 Engels, 1891, aggiunto: «e capace di lavorare».
47 Engels, 1891: «della semplice forza-lavoro».
48 In Miseria della
filosofia Marx fa una affermazione simile. A quel brano Engels
annota: «La tesi secondo la quale il prezzo ”naturale”, cioè, normale, della
forza-lavoro coincide col minimo del salario, cioè con l’equivalente del valore
dei mezzi di sussistenza assolutamente necessari per la vita e per la
riproduzione dell’operaio, questa tesi venne stabilita la prima volta da
me, nello Schizzo di una critica
dell’economia politica (Deutschfranzösische Jahrbücher, Parigi,
1844) e nella Situazione della classe
operaia in Inghilterra. Comesi vede da questo passo, Marx aveva
allora accettato questa tesi. Da noi due la prese Lassalle. Ma sebbene in
realtà il salario abbia continuamente la tendenza ad avvicinarsi a questo
minimo, la tesi suddetta è falsa. Il fatto che la forza-lavoro viene pagata in
media e di regola al di sotto del suo valore, non può mutare il valore di essa.
Nel Capitale Marx ha ad un tempo
rettificato quella tesi (cap. “Compera e vendita della forza-lavoro”) e
inoltre (capitolo XXIII, “La legge generale dell’accumulazione capitalista”)
mostrato quali sono le circostanze che permettono alla produzione capitalistica
di ridurre il prezzo della forza-lavoro al disotto del suo valore».
49 In Salario, prezzo e
profitto Marx spiega che il valore della forza-lavoro è costituito
di due elementi «di cui l’uno è unicamente fisico, l’altro è storico o sociale.
Il suo limite minimo è determinato
dall’elemento fisico; ilche vuoI
dire che la classe operaia, per conservarsi e per rinnovarsi, per perpetuare la
propria esistenza fisica, deve ricevere gli oggetti d’uso assolutamente
necessari per la sua vita e la sua riproduzione. Il valore di questi oggetti d’uso assolutamente necessari
costituisce quindi il limite minimo del valore
del lavoro... Oltre che da questo elemento puramente fisico il
valore del lavoro è determinato dal tenore
di vita tradizionale in ogni paese. Esso non consiste soltanto nella
vita fisica, ma nel soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono dalle
condizioni sociali in cui gli uomini vivono e sono stati educati». Cfr.
anche: Marx, Il Capitale, I, cap.
“Compera e vendita della forza-lavoro”, e sezione VI “Il salario”.
50 Nel manoscritto copiato da Weydemeyer vi è aggiunto: «Prima
di considerare il capitale nelle sue relazioni reciproche con il lavoro,
dobbiamo determinare in modo più esatto il concetto di capitale».
51 Marx intende sottolineare che il capitale non è soltanto
lavoro accumulato, ma lo è in modo storicamente determinato, all'interno
di un determinato rapporto di produzione, quello della società borghese, che è
fondato sullo sfruttamento della forza lavoro del proletariato da parte della
classe dei capitalisti. Questa natura sociale del capitale viene, ovviamente,
ignorata nelle elaborazioni economiche borghesi.
Nel manoscritto copiato da Weydemeyer si legge di seguito: «... ponete la
macchina in condizione tale che non sia accessibile al lavoro umano, ed essa
non sarà più capitale, così come non lo è uno scoglio del mare, il quale,
benché possa distruggere del valore, non ne può creare. Vedete dunque che il
concetto di capitale non si può assolutamente ridurre al concetto di lavoro
accumulato. Il concetto di capitale significa in pari tempo un determinato rapporto
sociale, e precisamente il rapporto di produzione della società borghese».
52 Engels, 1891: «non agiscono soltanto sulla natura, ma anche
gli uni sugli altri»
53 Engels, 1891: «la loro azione sulla natura».
54 Per un ulteriore approccio alla concezione materialistica
della storia, cfr., tra l'altro: Marx, “Prefazione” a Per la critica dell'economia politica;
Marx, Tesi su Feuerbach; Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia
classica tedesca; Engels, L'evoluzione
del socialismo dall'utopia alla scienza; Marx-Engels, L'ideologia tedesca.
55 Marx esplicita in modo inequivocabile che «il capitale è un
rapporto sociale di produzione», anzi «è un
rapporto borghese di produzione, un rapporto di produzione della
società borghese». Vedi anche nota n.51. Si noti come Marx indichi anche i mezzi di sussistenza tra gli elementi
costitutivi del capitale.
56 Engels, 1891: qui e oltre: «pfenning» invece di «centesimo»
57 Invece dei quattro capoversi precedenti, nel manoscritto
copiato da Weydemeyer si legge: «Come ho già detto, il concetto di capitale
significa un rapporto sociale determinato, il rapporto di produzione della
società borghese».
58 Il capitale, cioè, esiste in quanto tale esclusivamente
grazie alla forza-lavoro “vivente” e alla possibilità di sfruttarla «come mezzo
per conservare e per accrescere il valore di scambio». Senza l'uso della
forza-lavoro — all'interno di ben determinati rapporti di produzione — da parte
del capitalista, non esisterebbe il capitale. A differenza di ogni altra merce,
inoltre, la forza-lavoro è l'unica che accresce il valore di scambio.
59 Engels, 1891: «tra capitalista e lavoratori salariati».
60 Nel manoscritto copiato da Weydemeyer, invece di questa
frase, si legge: «Consideriamo più da vicino lo scambio tra capitale e lavoro».
61 Ma con una differenza che emerge chiarissima dal testo di
Marx: il rapporto si risolve in modo improduttivo
per il lavoratore salariato (che ha ricevuto e consumato mezzi di sussistenza),
e in modo riproduttivo e produttivo per il capitalista (che ha
reintegrato e accresciuto il capitale anticipato). È questa la contraddizione
reale e ineliminabile insita nel rapporto capitalistico di produzione.
62 Engels, 1891: «la forza-lavoro del salariato».
63 Engels, 1891: «dei lavoratori».
64 L'aumento della ricchezza prodotta dalla forza-lavoro
salariata porta ad una crescita del capitale ed anche (ma non necessariamente)
dei salari. Tuttavia, poiché i frutti del lavoro sociale non sono equamente
distribuiti (in massima parte al capitale, in minima parte, e non sempre, al
salario), il divario sociale tra la classe dei capitalisti e la classe dei
proletari aumenta. Ben vero che l'operaio può soddisfare con il salario
aumentato un numero maggiore di bisogni, ma è altrettanto vero che la crescita
economica ne crea di nuovi che l'operaio non potrà soddisfare o potrà
soddisfare solo in piccola parte. Ciò che Marx evidenzia è che i bisogni dei
lavoratori salariati non sono soltanto quelli assoluti, legati alla mera
sopravvivenza naturale, ma anche e soprattutto quelli relativi, legati alla
società in cui il lavoratore salariato vive. Essi, quindi, crescono sia con la
crescita della società nel suo complesso, sia con la crescita del divario
sociale (ed oggi, dovremmo aggiungere, con la crescita dei bisogni indotti
artificiosamente per creare nuovi spazi di mercato). Occorre tener conto di
questo essenziale passaggio dell'elaborazione marxiana per poter comprendere
come la condizione operaia in regime capitalistico è destinata — a causa del
divario sociale inevitabilmente crescente — a peggiorare in termini relativi.
65 Nel manoscritto copiato da Weydemeyer, in luogo dell'ultima
frase interrogativa, si legge: «Il salario non viene soltanto determinato da
questo prezzo in denaro».
66 Engels, 1891: «alla scoperta in America di miniere più
ricche e più facili a essere sfruttate».
67 È la modificazione più consistente apportata da Engels
nell'edizione del 1891 che, da questo punto e fino alla fine del capoverso
sopprime lo scritto originario e lo sostituisce con questo lungo brano:
«... il salario relativo, invece, esprime la parte del valore nuovamente creato
che spetta al lavoro immediato, in confronto con la parte che spetta al lavoro
accumulato, al capitale.
«Dicevamo sopra, p.14 [cfr. pag.25 del
presente volume]:“Il salario non è una partecipazione dell’operaio
alla merce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce, già
preesistente, con la quale il capitalista si compera una determinata quantità
di forza-lavoro produttiva”. Ma questo salario il capitalista deve reintegrarlo
dal prezzo al quale egli vende il prodotto creato dall'operaio; e lo deve
reintegrare in modo tale che, di regola, gli resti ancora un'eccedenza
sui costi di produzione anticipati, un profitto. Il prezzo di vendita della
merce prodotta dall'operaio si suddivide, per il capitalista, in tre parti: primo, la reintegrazione del prezzo delle
materie prime da lui anticipate e il logorio degli strumenti, macchine e altri
mezzi di lavoro ugualmente anticipati da lui; secondo,
la reintegrazione del salario da lui anticipato, e, terzo, un'eccedenza, il profitto del capitalista. Mentre la
prima parte reintegra soltanto dei valori preesistenti,
è evidente che tanto la reintegrazione del salario quanto l'eccedenza di
profitto del capitalista vengono tratti, grosso modo, dal nuovo valore creato dal lavoro dell'operaio,
e aggiunto alle materie prime. In questo
senso, per confrontarli tra di loro, possiamo considerare tanto il
salario quanto il profitto come partecipazione al prodotto dell'operaio».
68 Se non lo si considera come anticipazione del capitale (al
pari delle materie prime, dei macchinari, etc.), ma come derivazione del nuovo
valore creato con la propria forza-lavoro dall'operaio, il salario è una parte
del valore aggiunto dalla forza-lavoro, una parte del prodotto dell'operaio.
Esattamente come lo è il profitto che è ciò che resta del valore aggiunto, una
volta detratto il salario. Salario e profitto sono, dunque, relativi l'uno
all'altro.
69 Engels, 1891, sostituisce l'intera frase: «La parte di
capitale in rapporto alla parte del lavoro è cresciuta».
70 È il concetto di «plus-valore relativo» (complementare a
quello di «salario relativo»), con cui Marx dimostra come l'aumento della
ricchezza prodotta dalla forza-lavoro dell'operaio, sia pure con un incremento
dei salari non solo nominali ma reali, porta ad un peggioramento della
posizione sociale del lavoratore rispetto
a quella del capitalista, ad un suo impoverimento relativo, perché è maggiore la parte di prodotto (vale a
dire del valore aggiunto dalla forza-lavoro operaia) che va al profitto del
capitalista rispetto a quella che va al salario dell'operaio. Cfr. anche: Marx,
Salario, prezzo e profitto; Marx,
Il Capitale, I, cap.XXIII, “La
legge generale dell'accumulazione capitalistica”.
71 Engels, 1891: «Il valore
di scambio del capitale» è sostituita da «La parte che spetta al capitale».
72 Engels, 1891: «il valore
di scambio del lavoro» è sostituita da «la parte che spetta al lavoro».
73 Engels, 1891 aggiunge: «altrui».
74 Engels, 1891 aggiunge: «a lungo andare».
75 Engels, 1891 sostituisce «lavoro vivo» con «lavoro
immediato».
76 È la conclusione assolutamente rigorosa della elaborazione
fin qui sviluppata da Marx. Ma questa contraddizione assoluta tra capitale e
lavoro è anche la premessa di tutta l'elaborazione politica marxiana, basata
sulla irriconciliabilità degli opposti interessi di classe tra capitalisti e
lavoratori. E quel che occorre sottolineare a questo punto è che lo scontro tra
borghesia e proletariato non è un dato superabile volontaristicamente, ma
irriducibile perché è basato sulle leggi oggettive che sovraintendono in modo
ferreo ai meccanismi del modo di produzione capitalistico. Anzi, quanto più lo
sviluppo della società — che si realizza attraverso l'aumento della produzione
sociale — accresce il divario tra la classe che produce nuova ricchezza e la
classe che se ne appropria, in misura per di più crescente, tanto più la
contraddizione si fa irriconciliabile.
77 Engels, 1891 sostituisce «valore di scambio» con «prezzo».
78 Tutto lo sviluppo capitalistico dall'epoca in cui Marx
scriveva si è basato sulla crescente divisione del lavoro e sull’introduzione
sempre più gigantesca di macchine via via più perfezionate tecnicamente. Questi
fattori hanno consentito ai capitalisti di ridurre i costi di produzione,
di accrescere enormemente i profitti e, quindi, di far divenire “tanto più
fruttuoso” lo sfruttamento del lavoro. In regime di libera concorrenza
questi potenti stimoli alla crescita hanno svolto in pieno il loro ruolo.
E quando sono intervenuti i monopoli l’effetto è stato rinnovato con l'impiego
ancora più massiccio di macchinari ormai in grado di incorporare una quantità
straordinaria di lavoro “diviso”. Cfr.: Il
Capitale, III, cap. X.
79 Si tenga sempre presente che Marx ha analizzato il processo
dell'aumento di produttività del lavoro, dello sfruttamento crescente
della forza-lavoro, dell’accumulazione del capitale e dell’ampliamento del
mercato nelle condizioni della libera concorrenza. Con l'avvento dei monopoli
molti effetti si determinano in modo diverso: la rigidità dei prezzi, ad
esempio, consente ai monopolisti di aumentare i profitti riducendo i costi, e
di mantenere quei profitti straordinari che in condizioni di concorrenza sono
temporanei.
80 Engels, 1891 aggiunge: «di più».
81 Naturalmente qui Marx non tiene volutamente conto
dell'azione delle organizzazioni di classe dei lavoratori che agiscono proprio
in senso opposto. Cfr., ad esempio: Marx, Salario,
prezzo e profitto.
82 È un'analisi quanto mai rigorosa e che l'avvento dei monopoli
ha reso ancora più attuale. Così come la critica agli economisti borghesi che
continuano a raccontare sciocchezze di compensazione tra posti di lavoro andati
perduti e quelli nuovi creati. Cfr.: Marx: Il
Capitale, I «Macchine e grande industria», in cui viene dimostrato
come «l'effetto “temporaneo” delle macchine è permanente,
invece, quando si impadronisce di sempre nuovi campi di produzione», vale a
dire che la quantità finale di forza-lavoro “liberata” dall'introduzione delle
macchine è superiore a quella che può nel frattempo complessivamente essere
riassorbita.
83 Anche per quello che riguarda la sostituzione dei lavoratori
espulsi dalla produzione con le nuove generazioni operaie l'elaborazione di
Marx mantiene tutta la sua freschezza e attualità. Quel che Marx non poteva
immaginare è che i capitalisti sono riusciti — senza una consistente
opposizione delle organizzazioni operaie — a trarne ulteriore vantaggio
abbassando con artifici giuridici il prezzo della forza-lavoro giovanile sostitutiva.
84 Lo sviluppo dell'industria pesante e, ancor di più, del
settore della produzione delle macchine utensili, in cui il rapporto tra
capitale e forza-lavoro è più alto, ha confermato l'analisi di Marx
85 Engels, 1891: «lotta» invece di «guerra».
86 Cfr.: Marx, Il Capitale,
III).
87 Cfr.: Marx, Il Capitale,
cap.XXVII, “La funzione del credito nella produzione capitalistica”).
88 Engels, 1891 aggiunge: «industriali».
89 Anche questo passo è di estrema attualità. Anzi, l'avvento
dei monopoli e la mondializzazione dei mercati ha ulteriormente aggravato la
contraddizione del capitalismo costituita dalle crisi. Di più: nell'epoca
dell'imperialismo lo stato di crisi è la condizione di normalità e, perfino, di
ulteriore “crescita” del capitalismo.
Per una trattazione più sistematica del problema da parte di Marx, cfr. Il Capitale, II, “Le crisi”?
90 Il 20 aprile 1848 la “Neue
Reinische Zeitung” annunciava
l'imminente ripresa delle pubblicazioni: «L'assenza momentanea dell'autore ci
obbliga a interrompere l'analisi dei rapporti tra lavoro salariato e capitale.
La riprenderemo tuttavia tra poco e la condurremo a termine senza
interruzione». La stampa di Lavoro salariato
e capitale, invece, restò incompiuta. Cfr. anche l'“Introduzione” di
Engels all'edizione del 1891 contenuta in questo volume.