www.resistenze.org - materiali resistenti in linea - iper-classici - 17-03-10 - n. 310

Karl Marx, La guerra civile in Francia, Casa editrice Giulia, Trieste, 1946
da marx-karl.com/spgm - Trascrizione di Valerio e pubblicazione a cura del CCDP per l'anniversario della Comune di Parigi (18/03/1871)

 
La guerra civile in Francia
 
di Carlo Marx (1870-1871)
 
Indirizzo del Consiglio dell’Associazione Internazionale dei lavoratori, con l’aggiunta dei due indirizzi del consiglio generale intorno alla guerra franco-tedesca e d’una introduzione di Federico Engels
 
Indice
 
Introduzione di Engels (1891)
Primo Indirizzo del Consiglio generale intorno alla guerra franco-tedesca
Secondo Indirizzo del Consiglio generale intorno alla guerra franco-tedesca
Indirizzo del Consiglio generale intorno alla guerra civile in Francia del 1871
 

 
Introduzione
 
di Friedrich Engels
 
L’invito di ripubblicare l’indirizzo del Consiglio generale dell’Internazionale intorno alla “Guerra civile in Francia”, e di accompagnarlo con una prefazione, mi è riuscito inaspettato. Non posso, quindi, che accennar qui a punti sostanziali.
 
Al lavoro suddetto, piuttosto lungo, faccio precedere le due circolari più brevi, del Consiglio generale, intorno alla guerra franco-tedesca. In primo luogo, perché alla seconda - la quale senza la prima non sarebbe per sé perfettamente intelligibile - si accenna nella Guerra civile. In secondo, poi, perché queste circolari, redatte del pari dal Marx, sono, non meno della Guerra civile, dei notevoli tentativi di quella meravigliosa facoltà dell’autore, manifestatasi la prima volta nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte, di compendiare, cioè, lucidamente il carattere, la portata e le conseguenze necessarie dei grandi avvenimenti storici nel tempo in cui codesti avvenimenti si sviluppano sotto i nostri occhi o si sono compiuti di recente. In fine, perché noi, in Germania, dobbiamo soffrire ancor oggi per le conseguenze di quegli avvenimenti, che il Marx aveva preannunziate.
 
Non è, forse, accaduto ciò che dice la prima circolare, che, cioè, degenerando la guerra difensiva della Germania contro Luigi Bonaparte in una guerra di conquista contro il popolo francese, sarebbero riapparse con rinnovellata violenza tutte le sciagure piombate sulla Germania dopo le così dette guerre della liberazione? Non abbiamo avuto altri vent’anni di tirannide bismarkiana, e, invece delle persecuzioni de’ demagoghi, la legge eccezionale e la caccia al socialista, con gli stessi arbitrii della polizia e con la stessa, identica, raccapricciante interpretazione della legge? E non si è verificata alla lettera la predizione che l’annessione dell’Alsazia-Lorena avrebbe «gettata la Francia in braccio alla Russia», e che dopo questa annessione, la Germania o sarebbe divenuta pubblicamente il servitore della Russia, o avrebbe dovuto, dopo una tregua, armarsi ad una nuova guerra e precisamente «ad una guerra di razza contro le razze collegate degli slavi e de’ Latini?» L’annessione delle provincie francesi non ha gettato la Francia in braccio alla Russia? Bismark non ha ambito inutilmente per ben vent’anni il favore dello zar? e non l’ha ambito con atti di servilismo più ignobili ancora di quelli che la piccola Prussia, non ancora diventata «prima fra le grandi potenze europee», era solita di umiliare a’ piedi della Santa Russia? E non pende forse quotidianamente sopra il nostro capo la spada di Damocle d’una guerra, nei cui primo giorno tutte le alleanze ufficiali fra i principi si disperderanno come la polvere; una guerra di cui niente è certo se non l’assoluta incertezza del suo esito; di una guerra di razze, che assoggetterà al militarismo l’Europa intera con quindici o venti milioni di armati, e che non imperversa fin da questo momento solo perché il più forte dei grandi Stati militari è preoccupato dalla totale impossibilità di calcolarne le conseguenze finali?
 
Tanto maggior dovere è dunque, di metter nuovamente sott’occhio agli operai tedeschi questo splendido, per quanto in parte dimenticato documento della acuta preveggenza della politica operaia internazionale del 1870.
 
Ciò che vale per queste due circolari, vale anche per quella intorno alla Guerra civile in Francia. Il 28 maggio gli ultimi combattenti della Comune soggiacquero alla violenza sui clivi di Belleville, e già due giorni dopo, il 30, Marx leggeva al Consiglio generale il lavoro nel quale l’importanza storica della Comune di Parigi è espressa in linee così rapide, possenti e sopratutto cosi vere, come non si poté ottenere più in tutta la enorme letteratura intorno all’argomento.
 
Grazie allo sviluppo economico e politico della Francia dal 1789 in qua, Parigi fu messa da cinquant’anni in tale posizione, che nessuna rivoluzione vi è potuta scoppiare, la quale non avesse assunto un carattere proletario: di guisa che il proletariato, come quello che aveva acquistata la vittoria a prezzo del suo sangue. si presentava innanzi, dopo la vittoria, con pretese sue. Coteste pretese erano più o meno imprecise. perfino confuse, secondo la relativa condizione di sviluppo degli operai di Parigi, ma alla fine tutte si appuntarono nel concetto di farla finita con la diversità di classe fra i capitalisti e gli operai. Come tutto questo dovesse accadere, certo nessuno sapeva. Ma la pretesa stessa, per quanto potesse apparire indeterminata, conteneva un pericolo per l’ordinamento sociale vigente: gli operai, che l’avevano messa in campo erano tuttavia armati; per i borghesi, che si trovavano al governo dello Stato, il disarmo degli operai era quindi la prima condizione. Ecco quindi sorgere da ogni rivoluzione guerreggiata dai lavoratori una nuova lotta, la quale finisce con la disfatta dei lavoratori. Questo accadde per la prima volta nel 1848. I borghesi liberali della opposizione parlamentare tennero corte bandita di riforme per far passare quella riforma elettorale che doveva assicurare il potere al loro partito. In lotta col Governo, e più e più costretti ad appellarsi al popolo, essi dovettero a poco a poco far largo alle fazioni radicali e repubblicane della borghesia.
 
Ma alle spalle di questi, si trovavano i lavoratori rivoluzionari, i quali, dal 1830, avevano acquistato maggiore indipendenza politica di quel che non sospettassero i borghesi e gli stessi repubblicani. Nel momento della crisi fra il governo e l’opposizione, gli operai aprirono la lotta sulla via. Luigi Filippo scomparve, con la riforma elettorale; e in vece loro sorse la Repubblica, e precisamente una repubblica designata come «sociale» dagli stessi operai vittoriosi. Ciò che poi si dovesse intendere con questa «repubblica sociale» nessuno lo sapeva chiaramente, e gli operai nemmeno. Ma adesso, essi avevano armi, e rappresentavano una potenza nello Stato. Così’ non appena i borghesi-repubblicani, ì quali allora si trovavano al potere, s’accorsero in certo qual modo d’avere sotto i piedi terra ferma, la loro prima mèta fu di disarmare gli operai. E questo accadde con la rivoluzione del giugno 1848 nella quale furono spinti, in seguito alla parola apertamente mancata, al pubblico dileggio, e in forza del tentativo di confinare i disoccupati in una provincia remota. Il governo aveva provveduto per una repressione eroica. Dopo cinque giorni di eroico combattimento, gli operai furono sopraffatti. E ne segui un vero bagno di sangue fra i prigionieri inermi; del quale un simile non s’era veduto dal tempo delle guerre civili che preludiarono al tramonto della Repubblica romana. Fu la prima volta che la borghesia mostrò a qual dissennata crudeltà di vendetta essa può venir incitata, appena che il proletariato osa mostrarsi in faccia a lei come classe a sé, con propri interessi e con proprie esigenze. Eppure, il 1848 non fu che un giuoco di ragazzi, in confronto della bufera che infuriò nel 1871.
 
La pena seguì immediatamente. Se il proletariato non poteva ancora governare la Francia, la borghesia non poteva governarla più. E molto meno allora perché essa, in maggioranza di sentimenti monarchici, era divisa in tre partiti dinastici, e in un quarto, repubblicano. Le sue discordie interne permisero a Luigi Bonaparte - un avventuriero - di impadronirsi di tutte le posizioni del potere: dell’esercito, della polizia, del meccanismo amministrativo; e di far saltare in aria, il 2 dicembre 1851, l’ultima cittadella della borghesia, l’Assemblea nazionale. Cominciò il secondo Impero, cominciò il depredamento della Francia da parte di una banda di avventurieri della politica e della finanza, ma nel tempo stesso anche uno sviluppo industriale, quale non era stato possibile sotto il regime ristretto e titubante di Luigi Filippo e con l’esclusivo dominio d’una piccola parte della grande borghesia. Luigi Bonaparte sottrasse ai capitalisti la loro potenza politica, col pretesto di proteggere loro stessi, i borghesi, contro gli operai, e d’altra parte, gli operai contro i primi; ma per ciò il suo governo favorì la speculazione e l’attività industriale, in modo fino allora inaudito. In proporzione maggiore ancora si sviluppò quindi la corruzione e il furto in una massa di uomini della finanza che si raggrupparono intorno alla Corte imperiale e si arricchì con le loro forti percentuali.
 
Ma il secondo Impero fu l’appello allo sciovinismo francese, fu la pretesa di riavere i confini del primo Impero perduti nel 1814, o almeno quelli della prima repubblica. Un Impero francese nei confini della vecchia monarchia, anzi in quelli ancor meglio determinati del 1815, era una cosa impossibile. Di qui la necessità di guerre periodiche e di allargamento di confini. Nessun ampliamento di confini accecava però così potentemente la fantasia dei sciovinisti francesi come quello della sponda sinistra, tedesca, del Reno. Un miglio quadrato sul Reno valeva assai più, per loro, di dieci miglia fra le Alpi o in qualsiasi altro luogo. Dato il secondo Impero, la pretesa della sponda sinistra del Reno, tutto in una volta o a pezzi, non era che questione di tempo. E il tempo venne con la guerra austro-prussiana del 1866. Preso in trappola dal Bismark e dalla sua stessa oltremodo raffinata politica temporeggiatrice per l’atteso «indennizzo di territorio», al Bonaparte non restava ora più se non la guerra che scoppiò nel 1870 e che sbalzò a Sedan, e di là a Vilhelmshöhe.
 
La conseguenza necessaria fu la rivoluzione di Parigi del 4 settembre 1870. L’Impero si sfasciò come un castelluccio di carte e la repubblica fu di bel nuovo proclamata. Ma il nemico era alle porte. Gli eserciti dell’Impero, o rinchiusi senza speranze, a Metz, o prigionieri in Germania. In questo frangente il popolo concesse ai deputati parigini di costituirsi in corpo legislativo come «Governo della difesa nazionale». Questo fu concesso tanto più facilmente in quanto allora, allo scopo della difesa, tutti i parigini atti alle armi erano entrati nella guardia nazionale ed erano armati; in guisa che gli operai formavano la maggioranza. Ma ben presto scoppiò il dissidio fra il Governo, composto quasi esclusivamente di borghesi, e il proletariato armato. Il 31 ottobre, battaglioni d’operai espugnarono il palazzo municipale e fecero prigionieri una parte dei componenti il governo; il tradimento, la mancanza di parola del Governo e il sopraggiungere di alcuni battaglioni di cittadini della peggiore specie, li liberarono; e per non far scoppiare la guerra civile nell’interno d’una città, assediata da una potenza straniera, in armi, si lasciò in carica il governo di prima.
 
Finalmente, il 28 gennaio 1871, Parigi, affamata, capitolò. Ma con onori senza precedenti nella storia delle guerre. I fortilizi furono consegnati, il muro di circonvallazione disarmato, le armi della linea e della guardia mobile consegnate, la guardia stessa considerata come prigioniera di guerra. Ma la guardia nazionale mantenne le sue armi e i suoi cannoni, e di fronte ai vincitori era come durante un armistizio. I vincitori stessi non osarono di entrare in Parigi in trionfo. Soltanto un piccolo angolo di Parigi, in parte consistente, per giunta, di parchi pubblici, essi osarono di occupare; e anche questo, solo per un paio di giorni. E durante questo tempo, essi, che avevano stretta d’assedio Parigi per 131 giorni, erano assediati alla loro volta dagli operai parigini armati, i quali vigilavano accuratamente perché nessun «prussiano» varcasse i ristretti confini di quel tratto ceduto ai conquistatori stranieri. Un tale sentimento di rispetto gli operai parigini seppero infondere anche all’esercito, innanzi al quale tutte le truppe dell’impero avevan ceduto le armi che gli junker prussiani, i quali erano sopraggiunti per pigliarsi le vendette al focolare della rivoluzione, dovettero starsene pieni di riguardo, e fare il saluto appunto alla rivoluzione armata.
 
Durante la guerra gli operai parigini s’erano limitati a reclamare l’energico proseguimento della lotta. Ma adesso, ritornata la pace dopo la capitolazione di Parigi, Thiers, il nuovo capo supremo del Governo, dovette convincersi che il predominio delle classi abbienti - grande possesso fondiario e capitalisti - era in continuo pericolo, finché gli operai di Parigi avevano in mano le armi. Suo primo atto fu il tentativo di disarmarli. Il 18 marzo, mandò delle truppe di linea col comando di spogliare l’artiglieria appartenente alla guardia nazionale, formatasi durante l’assedio dì Parigi e pagata per mezzo di sottoscrizione pubblica. Il colpo andò a vuoto; Parigi si armò come un sol uomo, pronta a resistere, e la guerra fra Parigi e il Governo francese residente a Versailles fu dichiarata. Il 26 marzo fu eletta la Comune di Parigi e il 28 fu proclamata. Il Comitato centrale della guardia nazionale, che fino ad ora aveva guidato il Governo, dette le sue dimissioni, dopo di aver decretata l’abrogazione della scandalosa «polizia di costumi» di Parigi. Il 30, la Comune abrogò la coscrizione e l’esercito permanente e proclamò la guardia nazionale, alla quale dovevano appartenere tutti i cittadini atti alle armi, come unica forza armata; del pari condonò tutti gli importi delle pigioni per le abitazioni dall’ottobre 1870 fino all’aprile, computando gli importi già passati alle pigioni future; e sospese nel monte di Pietà cittadino tutte le vendite di pegni. Nel giorno stesso, gli stranieri eletti nella Comune furono riconfermati nella loro carica, perché «la bandiera della Comune è la repubblica mondiale!».
 
Il 1° aprile, stabilirono che lo stipendio più elevato d’un impiegato presso la Comune non dovesse superare le 600 lire (4800 marchi). Il giorno seguente si decretò la separazione fra Chiesa e Stato e l’abrogazione di tutti i pagamenti dello Stato a scopi religiosi, come pure la trasformazione di tutti i beni ecclesiastici in patrimonio nazionale; in seguito a ciò fu imposto il bando dalle scuole di tutti i simboli religiosi, immagini, dogmi, preghiere, insomma di tutto ciò che appartiene al campo della coscienza di singoli; e che a poco a poco fu soppresso. - Il giorno 5, in contrapposto alle fucilazioni che ogni giorno si rinnovavano dei combattenti della Comune fatti prigionieri, per opera delle truppe di Versailles, fu emanato un decreto non mai però eseguito, per l’arresto degli ostaggi. -
 
Il giorno 6 fu tirata fuori la ghigliottina con l’aiuto del 136° battaglione della guardia nazionale e bruciata in pubblico fra alte grida di giubilo popolare.
 
Il 12, la Comune deliberò di abbattere la colonna della Vittoria di piazza Vendôme, fusa con i cannoni presi da Napoleone I dopo la guerra del 1809 ed eretta come simbolo dello sciovinismo e della discordia dei popoli. Ciò che fu messo in esecuzione il 16 maggio. - Il 16 aprile, la Comune ordinò un’esposizione statistica delle fabbriche lasciate chiuse dai rispettivi fabbricati e la enumerazione di progetti per l’esercizio di queste fabbriche a mezzo degli operai fino allora ivi occupati, da riunirsi ora in società cooperative, come pure per una organizzazione di queste società in grande fascio. Il 20, essa abolì il lavoro notturno dei fornai, come pure il controllo del lavoro esercitato come monopolio fin dal secondo Impero per mezzo di soggetti nominati dalla polizia - autentici sfruttatori degli operai; -- questo fu poi assegnato ai municipi dei venti circondari di Parigi. - Il 30 aprile, la Comune ordinò l’abolizione delle case di legno, che non erano se non uno sfruttamento privato degli operai agli strumenti del lavoro e al credito. - Il 5 maggio decretò la demolizione della cappella espiatoria costruita in ammenda dell’esecuzione capitale di Luigi XVI.
 
Così, dal 18 marzo in poi, balza fuori preciso e netto quel carattere di classe dei moti parigini, respinto fino allora nella penombra in causa della lotta contro l’invasione straniera. Come nella Comune non c’erano se non operai o rappresentanti riconosciuti degli operai, così anche le loro deliberazioni portavano un’impronta proletaria ben designata. O decretavano riforme che la borghesia repubblicana aveva trascurata soltanto per viltà, ma che rappresentavano una base necessaria per la libertà d’azione delle classi lavoratrici: come l’ammissione del principio che «di fronte allo Stato» la religione non è che un semplice affar privato; oppure emettevano deliberazioni nell’interesse diretto delle classi operaie, e talvolta anche in profondo dissidio con l’antico ordinamento sociale. Tutto questo però. in una città assediata, non poteva conseguire tutt’al più che un principio di realizzazione.
 
E dal principio di maggio in poi, la lotta contro la massa degli eserciti del Governo di Versailles che sempre più si facevano numerose, assorbì tutte le forze.
 
Il 7 aprile, quelli di Versailles s’erano impadroniti del passaggio sulla Senna presso Neuilly, dalla parte orientale di Parigi; e però l’11, in seguito ad un attacco sul lato meridionale eseguito dal generale Eudes, furono sanguinosamente respinti. Parigi fu bombardata in continuazione e precisamente da quella gente che aveva bollato a fuoco il bombardamento della stessa città per opera dei prussiani come una profanazione di cosa sacra.
 
E cotesta gente ora andava limosinando dal governo prussiano la pronta restituzione dei soldati francesi prigionieri di Sedan e di Metz, i quali avrebbero dovuto riconquistare Parigi. Il graduale concentramento di tutte queste truppe diede ai Versagliesi, dal principio di maggio in poi, un deciso soppravvento. E questo si manifestò fin da quando il 23 aprile Thiers ruppe le trattative a proposito di scambio, offerto dalla Comune, dell’arcivescovo di Parigi e di tutta una schiera di altri ecclesiastici tenuti in ostaggio a Parigi per l’unico Blanqui che era stato eletto due volte nella Comune ma che era prigioniero a Clairvaux. E più ancora nel mutato linguaggio di Thiers: fino adesso prudente ed ambiguo, costui divenne a un tratto insolente, minaccioso brutale. Dal lato meridionale, i Versagliesi presero il 3 maggio il fortilizio di Moulin; il 9 maggio il forte d’Issy ridotto in completa rovina, il 14 quello di Vanves. Dal lato orientale, avanzavano a poco a poco, espugnando i numerosi villaggi e gli edifici che si estendevano fino alle mura di cinta, fino al vallo principale; l’11 riuscì loro finalmente, grazie a un tradimento ed in seguito alla negligenza della guardia comandata a quel posto, di penetrare nella città. I prussiani che occupavano i forti a nord e a ovest, permisero ai Versagliesi di spingersi verso il nord della città attraverso il terreno loro vietato dall’armistizio e con ciò di marciare innanzi attaccando su larga fronte, che i parigini dovettero credere protetta dall’armistizio e che perciò non avevano occupato che debolmente. In conseguenza di ciò, la resistenza nella metà a ovest di Parigi, cioè nella vera città aristocratica, non poté che esser debole; diventò più vivace e più fiera, quanto più le truppe avanzanti si accostavano alla metà ad ovest, la vera città operaia.
 
Soltanto dopo un combattimento di otto giorni gli ultimi difensori della Comune caddero sulle alture di Bellevue e di Menilmontant; e l’eccidio degli uomini inermi, delle donne, dei fanciulli, che infuriò con crescente impeto per tutta la settimana, raggiunse qui il suo più alto culmine. Il retrocarica non uccideva più abbastanza prontamente; i vinti venivano trucidati collettivamente a centinaia dalle mitragliatrici. Il muro dei federali nel cimitero del Père Lachaise dove fu consumato l’ultimo eccidio in massa; rimane ancor oggi come un muto ma eloquente documento di qual furibonda follia è capace la classe dominatrice, non appena il proletariato osa farsi innanzi per i suoi diritti. Vennero quindi gli arresti in massa, e, come si riconobbe impossibile il macello di tutti, si ebbe la fucilazione di vittime scelte arbitrariamente tra le file dei prigionieri, il trasporto di tutti i rimanenti in un grande campo dove essi aspettavano di essere tradotti innanzi ai consigli di guerra. Le truppe prussiane, che stringevano d’assedio la parte nord-ovest di Parigi, avevano l’ordine di non lasciar passare alcun fuggiasco; con tutto questo gli ufficiali chiudevano un occhio, quanto i soldati obbedivano più al precetto dell’umanità che a quello del comando superiore; e in particolare spetta al corpo d’armata sassone la lode d’essersi comportato molto umanamente, d’aver lasciato libero il passo a molti, la cui qualità di combattenti della Comune era evidente.
 
Se rivolgiamo ora. dopo vent’anni, uno sguardo alla attività e alla importanza storica della Comune di Parigi del 1870, troveremo che alla esposizione datane nella «guerra civile in Francia» conviene fare qualche aggiunta.
 
I membri della Comune si dividevano in una maggioranza, i Blanquisti, i quali avevano predominato anche anteriormente nel Comitato centrale della guardia nazionale, e in una minoranza, composta di membri della Associazione inter. dei lavoratori, derivanti in prevalenza dai seguaci della scuola socialista del Proudhon. I Blanquisti erano allora per la gran parte socialisti, ma soltanto per istinto proletario e rivoluzionario; pochi solamente erano arrivati a una maggior chiarezza di principi, grazie al Vaillant, che conosceva il socialismo scientifico tedesco. Così si comprende come dal punto di vista economico furono trascurate parecchie cose che, secondo la nostra concezione moderna, la Comune avrebbe dovuto compiere. Più che mai difficile a comprendersi rimane sempre il sacro rispetto col quale si arrestò in atto di devota soggezione innanzi alle porte della Banca di Francia. Questo fu anche un grande errore politico. La Banca in mano della Comune rappresentava un valore maggiore che non diecimila ostaggi. Questa avrebbe determinata la pressione di tutta la borghesia francese sul governo di Versailles, nell’interesse della pace con la Comune. Ma ciò che è più mirabile furono le molte cose giuste compiute a dispetto di tutto questo dalla Comune, composta di Blanquisti e di Proudhonisti. Naturalmente, per i decreti economici della Comune, per il loro lato glorioso e per il loro lato non glorioso, i responsabili sono in prima linea i Proudhonisti, come, per gli atti e le omissioni politiche, i Blanquisti. E nell’uno e nell’altro caso, volle l’ironia della storia - come avviene al solito quando dei dottrinari arrivavano al potere - che gli uni e gli altri facessero proprio il contrario di quel che prescriveva la loro dottrina scolastica.
 
Proudhon, il socialista del piccolo contadino e del mastro manuale, odiava l’associazione d’un odio positivo. Diceva che essa conteneva in sé più male che bene, che era per natura improduttiva, anzi dannosa, perché era appunto un freno messo alla libertà del lavoratore; diceva che non era se non un puro dogma, infruttuoso e oneroso, in opposizione tanto con la libertà del lavoratore quanto col risparmio del lavoro; e che gli svantaggi di essa crescevano più rapidamente che non i vantaggi che in fine contro di lei stavano, quali forze economiche, la concorrenza, la suddivisione del lavoro e la proprietà privata. Solo per i casi eccezionali - come li chiama il Proudhon - della grande industria e delle grandi organizzazioni di locomozione, p. e. le ferrovie, l’associazione dei lavoratori sarebbe a posto. (V.: Idèe générale de la Révolution, 3° étude).
 
Ma nel 1871, la grande industria, aveva già cessato di essere un caso eccezionale anche a Parigi, sede centrale del lavoro e delle arti; e in tal guisa che il decreto di gran lunga più importante della Comune ordinava un’organizzazione della grande industria e perfino della manifattura, la quale non doveva fondarsi soltanto sull’associazione degli operai in ogni fabbrica, ma doveva anche riunire in un grande fascio tutte queste società; a farla breve: un’organizzazione. la quale come perfettamente dice il Marx nella Guerra civile doveva alla fine sdrucciolare nel comunismo, vale a dire nell’opposto diretto della teoria proudhoniana. Questa scuola è ora scomparsa dai circoli degli operai francesi: qui vi predomina incontrastata, tanto presso i possibilisti che presso i «marxisti» la teoria del Marx. Solo fra la borghesia «radicale» vi sono ancora dei proudhoniani.
 
Per i blanquisti, non andò meglio. Educati alla scuola della cospirazione, tenuti uniti dalla rigida disciplina loro corrispondente, essi partivano dal principio che un numero relativamente piccolo di uomini risoluti e bene organizzati fosse in condizione, in un dato momento favorevole, non solo di impadronirsi del potere, ma anche di mantenerlo, spiegando una grande energia scevra d’ogni riguardo; fino al punto in cui sarebbe loro riuscito di lanciare la massa del popolo nella rivoluzione e di raggrupparla intorno a una piccola schiera che li guidasse. Per questo occorreva soprattutto l’accentramento più energico, a dirittura dittatoriale di ogni potere nelle mani del nuova governo rivoluzionario. E che fece la Comune, la quale per la grande maggioranza era composta di questi blanquisti? In tutti i suoi proclami ai francesi della provincia, li spinse ad una federazione libera di tutti i comuni francesi di Parigi; ad una organizzazione nazionale, la quale doveva avverarsi per la prima volta per mezzo della nazione stessa. Appunto questo potere repressore del governo fino allora centralizzato, esercito, polizia, politica, burocrazia, che Napoleone aveva prodotto nel 1798 e che da allora in poi ogni nuovo governo aveva accettato come fatto compiuto e sfruttato contro i suoi avversari, appunto questo potere doveva venir meno dappertutto, come già era avvenuto meno a Parigi.
 
La Comune dovette riconoscere fin dal bel principio che la classe operaia, una volta venuta al potere, non avrebbe potuto amministrare più oltre, col vecchio meccanismo dello Stato; e che questa classe di operai, per non vedersi sfuggir di mano il suo stesso potere or ora conquistato, da una parte avrebbe dovuto metter da parte tutto il vecchio sistema di repressione già sfruttato contro loro stessi, e che dall’altra avrebbe dovuto assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli senza nessuna eccezione e in ogni tempo revocabili dal posto rispettivo. In che cosa consisteva la proprietà caratteristica dello Stato, fino a quel tempo? La società, per la tutela de’ propri interessi comuni, si era provveduta di organi propri, originariamente per mezzo di semplice divisione del lavoro. Ma questi organi, alla cui testa era il potere dello Stato, si erano col tempo trasformati, nel servizio dei propri interessi speciali, da servitori della società in padroni della medesima. Ciò che p. e. è evidentemente non solo nella monarchia ereditaria, ma anche nella repubblica democratica. In nessun luogo i «politici» han costituito una suddivisione della nazione così spiccata e così potente come nel Nord d’America. Ognuno dei due grandi partiti, che si scambiano a vicenda il potere, viene alla sua volta governato da gente che della politica si crea un affare, che specula tanto nelle assemblee legislative dell’Unione come dei singoli Stati, e che per lo meno vive dell’agitazione in pro del partito, e che dopo la vittoria di quest’ultimo vien compensata con un posto. È noto come gli americani tentano da 30 anni di scuotere questo giogo diventato insopportabile e come, a dispetto di ciò, si affondano sempre più nella palude di questa corruzione. È precisamente in America che noi possiamo vedere nel miglior modo come procede quest’autonomia del potere dello Stato di fronte alla società, della quale in origine non sarebbe dovuto essere che un istrumento. Qui non esistono dinastie, non nobiltà non esercito permanente, all’infuori di un manipolo d’uomini per la vigilanza degli indiani, nessuna burocrazia con impiego stabile e con diritto a pensione. E con tutto questo. noi abbiamo qui due grandi masnade di speculatori politici che alternativamente entrano in possesso del potere, e che depredano e fan bottino coi mezzi più corrotti e ai più corrotti scopi: e la nazione è impotente contro queste due grandi bande di politici che apparentemente sono al suo servizio, ma che in realtà la dominano e la saccheggiano.
 
Contro questa trasformazione, in tutti gli Stati finora inevitabile, dello Stato e degli organi dello Stato da servitori della società in padroni della società, la Comune applicò due mezzi infallibili. In primo luogo, rimpiazzò tutti gli impieghi, amministrativi, giudiziari, educativi, per via di elezione con diritto costante di revoca, esercitato dagli stessi partecipanti; in secondo luogo, per tutti i servizi, alti e bassi, essa pagava lo stipendio che ricevevano altri operai. Il più alto assegno che essa pagava era di 6000 franchi. Con ciò, alla caccia all’impiego e all’inframmettenza s’era posto un saldo freno, anche senza i mandati imperativi per i delegati ai corpi rappresentativi, che furono aggiunti ad esuberanza.
 
Questo violento sfacelo del potere dello Stato sostituito da un nuovo potere e questa volta davvero democratico, è esaurientemente descritto nel terzo capitolo della «Guerra civile». Era però necessario ritornar qui sopra alcuni tratti, perché precisamente in Germania la superstizione dello Stato si è trasportata dalla filosofia nella coscienza generale della borghesia e perfino di molti operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato è «la realizzazione dell’Idea», ovvero il regno di Dio in terra tradotto in senso filosofico, il campo nel quale la verità eterna come l’eterna giustizia si è realizzata, o almeno può realizzarsi E di qui segue una superstiziosa idolatria dello Stato e di tutto ciò che ha relazione con lo Stato; e che tanto più facilmente si fa strada in quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari e gli interessi comuni della società non possano venir curati altrimenti di quel che sono stati curati fino ad ora, vale a dire per mezzo dello Stato e delle sue bene installate autorità. E si crede d’aver già fatto un passo assolutamente audace, col liberarsi dalla fede nella monarchia ereditaria e col giurare nella repubblica democratica. In realtà, lo Stato non è che una macchina per l’oppressione d’una classe per mezzo di un’altra, e ciò non meno nella repubblica democratica che nella monarchia; nel miglior dei casi poi, esso non è che un male che vien passato in eredità al proletariato riuscito vittorioso nella lotta per il predominio di classe e i cui peggiori vincoli non sarà possibile, come non fu possibile nella Comune, di recidere, finché una nuova generazione cresciuta in condizioni sociali nuove e libere non sia in grado di scrollare dalle spalle tutto questo vecchiume dello Stato.
 
Il filisteo tedesco si è sentito preso nuovamente da un salutare terrore, alla frase: dittatura del proletariato. Ebbene, signori, volete sapere come è questa dittatura? Osservate la Comune di Parigi. Questa era la dittatura del proletariato.
 
Londra, 18 marzo 1891
 
(nel XX anniversario della Comune di Parigi)
 

Ai membri dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori d’Europa e degli Stati Uniti
 
I - Primo Indirizzo del Consiglio generale intorno alla guerra franco-tedesca
 
Nell’indirizzo inaugurate della nostra Associazione nel novembre 1864, dicevamo: «Se l’emancipazione della classe lavoratrice presuppone l’unione fraterna e la cooperazione della classe lavoratrice, come si può compiere questa grande missione finché una politica estera, seguendo dei progetti delittuosi, suscita l’un contro l’altro i pregiudizi nazionali, sciupando e il sangue e gli averi del popolo in guerre brigantesche?» E designavamo la politica estera vagheggiata dalla Comune con queste parole: «Le semplici leggi dell’onestà e della giustizia, che devono regolare i rapporti fra i privati, devono acquistare valore anche come leggi supreme fra i popoli».
 
Nessuna meraviglia che Luigi Bonaparte, il quale aveva usurpato il dominio con lo sfruttare la lotta di classe in Francia e che lo aveva mantenuto a furia di guerre con l’estero, si sia comportato fin da principio con l’Internazionale come un pericoloso nemico. Alla vigilia del Plebiscito egli organizzò una vera caccia contro i membri dei Comitati amministrativi dell’Associazione internazionale dei lavoratori a Parigi, a Lione, a Rouen, a Marsiglia, a Brest, insomma in tutta la Francia, col pretesto che l’internazionale era una società segreta e organizzava un complotto per assassinarlo: pretesto che ben presto fu smascherato dai suoi stessi giudici come completamente maligno e sciocco. Qual’era il vero delitto dei. Comitati francesi dell’Internazionale? Di gridare forte al popolo francese: votare per il plebiscito vuoi dire votare per il dispotismo all’interno e per la guerra all’estero. E la loro nazione, in realtà, fu tale che in tutte le grandi città, in tutti i centri industriali della Francia la classe lavoratrice dei lavoratori si levò come un sol uomo per rigettare il plebiscito. Sciaguratamente, i loro voti furono sopraffatti dalla rara ignoranza dei distretti. Le borse, i gabinetti, le classi dominanti e la stampa di mezza Europa celebrarono il plebiscito come una vittoria splendida dell’imperatore francese sulla classe operaia: in realtà, fu quello il segnale dell’assassinio non d’un individuo solo, ma di interi popoli.
 
Il complotto di guerra del luglio 1870 non è che un’edizione migliorata del colpo di Stato del dicembre 1851. Di primo acchito, la cosa sembrò così avventata, che la Francia non voleva credere alla sua reale serietà. Piuttosto credeva nel deputato, e nei bellicosi discorsi dei ministri non vedeva se non una manovra di borsa. Quando finalmente, il 15 luglio, la guerra fu annunziata al corpo legislativo in forma ufficiale, tutta l’opposizione negò il consenso per i fondi occorrenti al momento; lo stesso Thiers bollò la guerra come «orribile»; tutti i giornali indipendenti di Parigi la con- dannarono e la stampa della provincia si trovò in modo singolare d’accordo con quelli, quasi senza contraddizione.
 
Frattanto i membri parigini dell’internazionale si erano rimessi al lavoro. Nel «Reval» del 12 luglio pubblicavano il loro manifesto «ai lavoratori di tutte le nazioni» in cui si diceva:
 
«Un’altra volta l’ambizione politica minaccia la pace del mondo, col pretesto d’equilibrio europeo e delle teorie nazionali. Lavoratori francesi, tedeschi e spagnoli, riuniamo le nostre voci per un sol grido di orrore contro la guerra!... La guerra per una questione di equilibrio o per l’interesse di una dinastia non può essere, agli occhi dei lavoratori, che una pazzia delittuosa. Di fronte agli appelli bellicosi di coloro che riescono ad esentarsi dal tributo del sangue e che nella sciagura comune vedono soltanto nuove fonti di speculazione, noi protestiamo ad alta voce, tutti noi, che abbiamo bisogno di pace e di lavoro!... Fratelli di Germania! la nostra scissura non avrebbe altra conseguenza che il trionfo del dispotismo anche sulle rive del Reno... Lavoratori di tutti i paesi! quale .che possa essere l’esito momentaneo dei nostri sforzi, noi, membri dell’Associazione internazionale dei lavoratori, per i quali non esistono confini, inviamo a voi tutti, guai pegno della nostra indissolubile solidarietà, i buoni auguri e i saluti dei lavoratori francesi».
 
A questo manifesto delle nostre sezioni parigine tennero, dietro numerosi indirizzi francesi, dei quali noi accenneremo qui ad un solo: la dichiarazione di Neuilly-sur-Seine, pubblicata nella «Marsigliese» del 22 luglio; «E’ giusta questa guerra? No! È nazionale questa guerra? No! È esclusivamente dinastica. In nome della giustizia, della democrazia, dei veri interessi della Francia uniamoci completamente ed energicamente alle proteste dell’Internazionale contro la guerra».
 
Queste proteste esprimevano i veri sentimenti dei lavoratori francesi, come ben presto mostrò evidentemente un avvenimento singolare. Quando la banda organizzata da prima sotto la presidenza di Luigi Bonaparte il 19 dicembre, e travestita da operai in blusa, fu lanciata sulla via per attizzare in pubblico con ridde guerresche all’uso degli indiani la febbre della guerra, gli operai autentici dei sobborghi risposero in quell’occasione con dimostrazioni per la pace, così significanti, che il prefetto di polizia Pietri pensò essere miglior partito di porre improvvisamente un termine ad ogni ulteriore manifestazione di politica piazzaiuola, col pretesto che il fedele popolo di Parigi aveva data sufficiente sfogo al suo patriottismo lungamente compresso e al suo riboccante entusiasmo per la guerra.
 
Qualunque possa essere il corso della guerra fra Luigi Bonaparte e la Prussia, la campana funebre del secondo Impero ha già suonato a Parigi. Finirà, così come è incominciato: con una parodia. Ma non dimentichiamo che furono i governi e le classi dominanti d’Europa che resero possibile a Luigi Bonaparte di rappresentare per diciott’anni la crudele farsa della restaurazione del secondo Impero.
 
Dal canto tedesco, la guerra è guerra di difesa. Ma chi ha trascinato la Germania nella necessità di doversi difendere? Chi ha reso possibile a Luigi Bonaparte una guerra contro la Germania? La Prussia. Fu Bismarck, che cospirò con lo stesso Luigi Bonaparte per abbattere in casa sua un’opposizione popolare e per annettere la Germania alla dinastia degli Hohenzollern. Se la battaglia di Sadowa fosse stata perduta anziché vinta, i battaglioni francesi avrebbero inondata la Germania quali alleati della Prussia. Forse che la Prussia dopo la vittoria ha mai sognato, sia pure per un istante solo, di contrapporre alla Francia resa schiava una Germania libera? Precisamente il contrario. Si tenne affannosamente stretta alle innate bellezze del suo sistema, aggiungendovi per di più tutte le risorse del secondo impero, il suo dispotismo reale e la sua democrazia apparente, le sue gherminelle politiche e le sue mariolerie finanziarie, le frasi altisonanti e la sua volgare abilità da borsaiolo. Il regime bonapartistico che fino ad ora fiorì soltanto sopra una sponda del Reno ebbe così sull’altra riva il suo parallelo. Stando così le cose, che cosa altro poteva uscir fuori, se non la guerra?
 
Se la classe dei lavoratori tedeschi permette alla guerra presente di menomare il suo carattere piombata sulla Germania dopo le così dette guerre contro il popolo francese, tanto una vittoria che una sconfitta saranno disastrose. Ogni sciagura, piombata sulla Germania dopo le così dette guerre dell’indipendenza, risorgerà con accresciuta violenza.
 
Ma i principi fondamentali dell’Internazionale son però troppo largamente diffusi e troppo profondamente radicati fra le classi operaie tedesche, perché noi dobbiamo temere un esito così funesto. La voce dei lavoratori tedeschi ha trovato un’eco in Germania. Il 16 luglio una numerosa riunione di operai a Brunswick si è dichiarata perfettamente d’accordo col manifesto di Parigi; ha respinto ogni pensiero di antitesi nazionale contro la Francia e ha preso deliberazioni, in cui si dice: «Noi siamo nemici di tutte le guerre; ma soprattutto delle guerre dinastiche... Con profondo rammarico e con dolore noi ci vediamo stretti ad una guerra di difesa, come in una sciagura inevitabile. Ma nel tempo stesso ci appelliamo a tutte le classi operaie pensanti per rendere d’ora in poi impossibile la ripetizione di un così enorme disastro sociale, mentre reclamiamo per i popoli stessi, la facoltà di decidere per la pace e per la guerra e di diventare padroni dei propri destini».
 
A Chemnitz un’assemblea di fiduciari, rappresentanti 50.000 operai sassoni, ha preso unanimemente la seguente deliberazione:
 
«In nome della democrazia tedesca e in particolare dei lavoratori del partito socialista noi dichiariamo la guerra presente guerra assolutamente dinastica... Con gioia noi afferriamo la mano fraterna offertaci dai lavoratori francesi... Memori del motto dell’Associazione internazionale dei lavoratori: Proletari di tutti i paesi unitevi! noi non dimenticheremo che i lavoratori di tutti i paesi sono nostri amici e che i despoti di tutti i paesi sono nostri nemici».
 
Il Comitato berlinese dell’Internazionale rispose parimenti al manifesto di Parigi: «Noi ci troviamo d’accordo col cuore e con tutto nella vostra protesta... Promettiamo solennemente che né squilli di tromba né rombar di cannoni, né vittorie, né sconfitte ci potranno distogliere dall’opera comune dell’unione dei lavoratori di tutti i paesi».
 
Nello sfondo di questa lotta di suicidi, sta sul varco, aspettando, la non ignota figura della Russia. È un sinistro indizio questo, che il segnale della guerra presente sia stato dato proprio nel momento in cui il governo russo aveva completato le sue terrovie strategiche e concentrava già le sue truppe in direzione del Pruth. Quali siano le simpatie alle quali i tedeschi possono aspirare in una guerra di difesa contro un’aggressione bonapartista, certo è che le perderebbero immediatamente se permettessero al governo tedesco di invocare o anche soltanto accettare il soccorso dei cosacchi. Si ricordino che dopo la sua guerra d’indipendenza contro il primo Napoleone, la Germania è rimasta per interi decenni priva di soccorso ai piedi dello Zar.
 
La classe dei lavoratori inglesi offre del pari ai lavoratori francesi come ai tedeschi, la mano fraterna. Essa è profondamente convinta che, qualunque possa essere l’esito dell’attuale spaventevole guerra; l’alleanza dei lavoratori di tutti i paesi riuscirà ad estirpare finalmente la guerra. Mentre la Francia ufficiale e la Germania ufficiale si avventano contro in una guerra fratricida, i lavoratori mandano all’una e all’altra messaggi di pace e di amicizia. Quest’unico grande fatto, senza pari nella storia del passato, apre l’orizzonte a un più serio futuro. Esso dimostra che, contrapposto alla vecchia società con la sua miseria economica e col suo furore politico, sta per sorgere una novella società, il cui principio internazionale sarà la pace, perché in ogni nazione domina lo stesso principio: il lavoro! Chi ha aperta la via a questa nuova società è l’Associazione internazionale dei lavoratori.
 
Londra, 23 luglio 1870.
 

Ai membri dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori d’Europa e degli Stati Uniti
 
II - Secondo indirizzo del Consiglio generale intorno alla guerra franco-tedesca
 
Nel nostro manifesto del 23 luglio dicevamo:
 
«La campana a morto del secondo impero è già suonata a Parigi. Finirà come è cominciato: con una parodia. Ma non dimentichiamo che sono stati i governi e le classi dominanti d’Europa che hanno reso impossibile a Luigi Bonaparte di rappresentare per ben diciott’anni la crudele farsa della restaurazione del secondo impero».
 
Così prima ancora che fossero incominciate le operazioni di guerra noi trattavamo la bolla di sapone bonapartista come cosa del passato. Non ci siamo ingannati circa la forza di resistenza e di vita del Secondo impero. Nemmeno abbiamo avuto torto, temendo che la guerra tedesca «avrebbe perduto il suo carattere strettamente difensivo e sarebbe degenerata in una guerra contro il popolo francese». La guerra difensiva finiva in realtà con la resa di Luigi Napoleone, con la capitolazione di Sedan e con la proclamazione della repubblica a Parigi. Ma ben prima di questi avvenimenti e già nel momento stesso in cui appare manifesto tutto il marciume delle armi bonapartiste, la camarilla militare prussiana si decise alla conquista. Il proclama di re Guglielmo sul principio della guerra era veramente un brutto impiccio sul suo cammino. Nel suo discorso della corona al Parlamento della Germania del Nord egli aveva dichiarato di condurre la guerra soltanto contro l’imperatore dei francesi e non contro il popolo francese. L’11 agosto aveva diretto un manifesto alla nazione francese, in cui diceva: «L’imperatore Napoleone ha aggredito per mare e per terra la nazione tedesca, la quale ha sempre desiderato e desidera ancora vivere in pace col popolo francese; io ho assunto il comando dell’esercito tedesco per respingere il suo attacco ed ora sono costretto dagli avvenimenti d’indole militare di oltrepassare i confini della Francia». Non contento dunque di affermare «il carattere puramente difensivo» della guerra con la dichiarazione d’aver assunto il supremo comando degli eserciti tedeschi «per respingere assalti» egli aggiungeva ancora di essere stato «costretto dagli avvenimenti d’indole militare» a oltrepassare i confini della Francia. Una guerra di difesa, non esclude naturalmente le operazioni di attacco, imposte da avvenimenti militari.
 
In tal modo, dunque, questo pio e timorato re si era obbligato al cospetto della Francia e del mondo ad una guerra puramente difensiva. Come liberarlo da codesta solenne promessa? I direttori di scena dovevano fargli rappresentare la parte di cedere contro sua voglia ad un comando irresistibile della nazione tedesca; essi dettero immediatamente questa parola d’ordine alla classe media tedesca liberale, coi suoi professori, coi suoi capitalisti, coi suoi commissari civici, coi suoi giornalisti. Questa classe media, che nelle lotte per la libertà borghese del 1846 al 1870 ha dato uno spettacolo inaudito di irresolutezza, d’incapacità e di vigliaccheria, non poteva essere naturalmente che al sommo dell’entusiasmo nel rappresentare sulla scena europea la parte del ruggente leone del patriottismo tedesco. Essa assunse la falsa apparenza di una indipendenza civile borghese nello Stato, per fingere di costringere il governo prussiano - a che cosa? - ai disegni segreti appunto di questo governo. Essa fece ammenda della sua diuturna e quasi religiosa fede nell’infallibilità di Luigi Bonaparte, reclamando ad alta voce lo smembramento della repubblica francese. Prestiamo per un momento l’orecchio ai plausibili pretesti di questi autentici patrioti.
 
Essi non osano sostenere che il popolo dell’Alsazia-Lorena sospiri l’amplesso della Germania: perfettamente il contrario. Per castigare il suo patriottismo francese, Strasburgo, città forte, e dominata da una fortezza indipendente, fu bombardata senza scopo e barbaramente per sei giorni interi con proiettili «tedeschi», fu messa a. fuoco, e una quantità di cittadini senza difesa, uccisi. Senza dubbio: il suolo di queste provincie era appartenuto da parecchio al già defunto imperatore tedesco. Sembra perciò che il regno di questa terra e gli uomini che vi sono cresciuti debbano venir confiscati come proprietà tedesca imperscrittibile. Se la vecchia carta d’Europa dovesse essere fatta secondo il diritto storico, noi non dovremmo in nessun caso dimenticare che il principe elettore di Brandeburgo, quanto ai suoi possedimenti prussiani, era alla sua volta il vassallo della repubblica polacca.
 
Gli astuti patrioti però reclamano l’Alsazia e la Lorena tedesca come una «garanzia materiale» contro gli eventuali attacchi francesi. Poiché questo ignobile pretesto ha fuorviato molta gente di mal fermo sentire, insistiamo su ciò più da vicino.
 
È fuor dubbio: che la struttura generale dell’Alsazia, assieme a quella della riva opposta del Reno, e la presenza di una grande fortezza come Strasburgo a circa mezza via tra Basilea e Germesheim, favoriscono non poco un attacco francese dalla parte della Germania del sud, mentre a un assalto della Germania del sud contro la Francia si opporrebbero varie difficoltà. È inoltre fuori discussione che. l’annessione dell’Alsazia e della Lorena tedesca darebbe alla Germania meridionale un confine molto più esteso; essa diventerebbe padrona del dorso dei Vosgi in tutta la loro lunghezza e delle fortezze che proteggono quei passi verso nord. Se anche Metz fosse annessa, la Francia sarebbe indiscutibilmente privata di due basi di operazioni principali contro la Germania; Ciò che per altro non le impedirebbe di procacciarsene altre a Nancy o a Verdun. La Germania possiede Coblenza, Magonza, Germesheim, Rastaff e Ulma, tutte basi d’operazione contro la Francia delle quali in questa guerra si è anche servita abbondantemente: con quale parvenza di giustificazione potrebbe essa invidiare ai francesi Metz e Strasburgo, le uniche fortezze importanti che essi posseggono in quella regione?
 
Oltre a ciò Strasburgo rappresenta un pericolo per la Germania meridionale soltanto fino a che questa è una potenza separata dalla Germania settentrionale. Dal 1792 al 1795, la Germania meridionale non è mai stata assalita da questa parte, perché la Prussia prendeva parte alla guerra contro la rivoluzione francese; ma appena la Prussia concluse la sua pace separata e abbandonò il sud a sé stesso, gli attacchi cominciarono contro la Germania meridionale da Strasburgo come base di operazione, e durarono fino al 1809. In realtà, una Germania unita può rendere innocua Strasburgo ad ogni esercito francese in Alsazia, purché, come è accaduto in questa guerra, concentri tutte le sue truppe fra Saarlouis e Landau e si spinga innanzi oppure accetti una battaglia sulla via fra Magonza e Metz. Fin che il nerbo delle truppe tedesche sta lì ogni esercito che da Strasburgo si avanzi nella Germania meridionale vien preso in mezzo e minacciato nella sua compagine. Se la campagna attuale ha dimostrato qualche cosa, quest’è la facilità con la quale la Francia può essere attaccata dalla Germania.
 
Ma a parlare onestamente, non è forse una goffaggine ed un anacronismo l’elevare delle ragioni militari a principio secondo il quale si devono stabilire i confini nazionali? Se noi volessimo seguire questa regola, l’Austria potrebbe ancora sollevar pretese sulla Venezia e sulla linea del Mincio, e la Francia sulla linea del Reno per la difesa di Parigi, che certamente è più esposta agli assalti di nord-ovest che non sia Berlino da sud-est. Se i confini devono essere determinati militari, le pretese non avranno mai termine, perché ogni linea militare è per necessità difettosa e può sempre venir migliorata con l’annessione di altro territorio; ed, oltre a ciò, non può mai essere definitivamente e perfettamente stabilita, perché essa vien sempre inflitta dal vincitore al vinto, in modo che già porta in sé il germe d’una nuova guerra.
 
Questo è l’ammaestramento di tutte le storie: così colle nazioni, come cogli individui. Per sottrarre altrui la possibilità dell’offesa, è necessario privarlo d’ogni mezzo di difesa. Non basta afferrarlo per la gola; bisogna ucciderlo. Se c’è mai stato un conquistatore che prendesse delle «garanzie materiali» per fiaccare la potenza d’una nazione, questi fu Napoleone I, col suo trattato di Tilsit e col metodo e la forma con cui si comportò di fronte alla Prussia e al resto della Germania. Eppure, pochi anni dopo, la sua gigantesca possanza piegava, come una canna fradicia, davanti al popolo tedesco. Che cosa sono le «garanzie materiali» di cui la Prussia abbia il potere e la facoltà di gravar le spalle alla Francia, in confronto di quelle onde Napoleone I gravò la Prussia stessa? L’esito, questa volta, non sarà meno fatale. La storia misurerà il suo compenso non dall’estensione delle miglia quadrate strappate alla Francia, ma dall’enormità del delitto, che la politica delle conquiste ha richiamato novellamente in vita nella seconda metà del secolo decimonono.
 
I caporioni del patriottismo tedeschista dicono: Voi però non dovete scambiare i tedeschi coi francesi. Noi non vogliamo la gloria, me la sicurezza. l tedeschi sono un popolo eminentemente pacifico. Grazie alla loro riflessiva vigilanza, perfino la conquista si trasforma, da causa di guerra futura, in patto di pace perpetua. Naturalmente, non fu la Germania a irrompere nel 1792, in Francia, col nobile scopo di domare a colpi di baionetta la rivoluzione del secolo decimottavo? Non fu la Germania che si sporcò le mani nella sopraffazione dell’Italia, nella soppressione dell’Ungheria e nello smembramento della Polonia? Il suo sistema militare odierno, che divide tutta la vigorosa popolazione maschile in due parti - un esercito permanente in servizio e un altro esercito permanente in licenza - tutti e due obbligati all’obbedienza passiva rispetto ai governanti per grazia di Dio, un siffatto sistema militare è naturalmente, una «garanzia materiale» della pace universale e oltre a ciò il grado più elevato della civiltà! In Germania, come da per tutto, i cortigiani del potere costituito avvelenano l’opinione pubblica con l’incenso e con gli auto panegirici bugiardi.
 
Sembrano indignati - questi patrioti tedeschi - allo spettacolo di Metz e Strasburgo fortezze francesi, ma non trovano affatto ingiusto tutto il mostruoso sistema delle fortificazioni moscovite di Varsavia, Modlin e Ivangorod. Mentre rabbrividiscono per il terrore di irruzioni bonapartistiche, chiudono gli occhi davanti alla vergogna della dominazione dello Zar.
 
Precisamente come nel 1865 furono scambiate promesse fra Luigi Bonaparte e Bismark, così nel 1870 fra Gorciakov e Bismarck. E precisamente come Luigi Napoleone si lusingava che la guerra del 1866, in seguito al reciproco esaurimento dell’Austria e della Prussia, avrebbe fatto di lui l’arbitro supremo di fronte alla Germania, così Alessandro si lusingava che la guerra del 1870, in seguito al vicendevole esaurimento della Prussia e della Francia, lo avrebbe sollevato ad arbitro supremo del l’Occidente europeo. E come il secondo impero riteneva l’alleanza nord-tedesca inseparabile dalla sua esistenza, precisamente così la Russia autocratica deve ritenersi minacciata da un impero tedesco con supremazia prussiana. Questa è la legge del vecchio sistema politico. Nei limiti del proprio campo, il guadagno degli uni è perdita all’altro. L’influenza preponderante dello Zar sull’Europa ha le sue radici nella supremazia tradizionale sopra la Germania. Nel momento, in cui le forze sociali vulcaniche minacciano di scuotere nella stessa Russia le basi più profonde dell’autocrazia, può lo Zar tollerare un indebolimento della sua posizione di fronte all’estero? Già la stampa di Mosca ripete lo stesso linguaggio come i giornali bonapartisti dopo la guerra del 1866. I germanisti credono davvero che la libertà e la pace della Germania siano assicurate quando essi abbiano gettato la Francia nelle braccia della Russia? Se la fortuna delle armi, la insolenza del successo e gli intrighi dinastici possono portare la Germania ad un ladroneggio in territorio francese, non le rimangono aperte che due vie. O deve diventare, quale che ne sia la conseguenza, il pubblico servitore della Russia che ingrandisce, o si deve apparecchiare, dopo breve tregua, ad una nuova guerra «difensiva» e non già ad una di quelle «localizzate» di nuovo conio, bensì ad una guerra di razza contro le razze alleate degli Slavi e dei Latini.
 
La classe operaia tedesca ha appoggiato energicamente la guerra, per impedire la quale non aveva alcun potere: e l’ha appoggiata come una guerra per l’indipendenza della Germania e per la liberazione della Germania e dell’Europa dall’incubo opprimente del secondo impero. Erano gli operai industriali tedeschi, che assieme agli operai della campagna fornivano i nervi e i muscoli d’un esercito eroico, mentre avevan lasciato a casa famiglie che quasi soffrivano la fame. Decimati dalle battaglie all’estero, essi erano decimati un’altra volta dalla miseria delle loro case. Essi reclamano ora per conto proprio «garanzie»; garanzie che i loro incommensurabili sacrifici non siano stati consumati invano; garanzie d’aver conquistata la libertà, e che le vittorie da loro riportate sugli eserciti bonapartisti non siano tramutate in sconfitte del popolo tedesco, come nel 1815. E come la prima di queste garanzie essi reclamano «una pace dignitosa per la Francia» e il «riconoscimento della Repubblica francese».
 
Il Comitato centrale del partito operaio-socialista tedesco pubblicava il 5 ottobre un manifesto, nel quale insisteva energicamente su queste garanzie. «Noi» diceva «protestiamo contro l’annessione dell’Alsazia-Lorena. E abbiamo la coscienza di parlare in nome della classe operaia tedesca. Nell’interesse comune della Francia e della Germania, nell’interesse della pace e della libertà, nell’interesse della civiltà occidentale contro la barbarie orientale, gli operai tedeschi non sopporteranno di buon animo l’annessione dell’Alsazia-Lorena… Noi resteremo fedeli ai nostri compagni di lavoro di tutti i paesi per il vantaggio comune internazionale del proletariato!».
 
Sventuratamente, non possiamo contare sul loro successo immediato. Se gli operai francesi non sono riusciti ad arrestare l’assalitore in tempo di pace, possono gli operai tedeschi aver maggior probabilità di trattenere il vincitore in mezzo al fragore delle armi? Il manifesto degli operai tedeschi esige la consegna di Luigi Bonaparte, come quella d’un malfattore comune, alla Repubblica francese. I suoi governanti intanto non si risparmiano fatiche per ricollocarlo alle Tuileries come l’uomo migliore, per rovinare la Francia. Ma comunque vada la cosa, la storia mostrerà che gli operai tedeschi non son fatti della medesima pieghevole stoffa, come la classe media tedesca. Essi faranno il loro dovere.
 
Come essi, anche noi salutiamo la costituzione della Repubblica in Francia, ma nel momento stesso non ci affatichiamo con preoccupazioni che è da sperare risultino prive di fondamento. Questa repubblica non ha rovesciato il trono, ma ha semplicemente occupato il suo posto rimasto vuoto. Essa non è stata proclamata come una conquista sociale, ma come un provvedimento di difesa nazionale. Essa è nelle mani di un governo provvisorio, composto in parte di noti orleanisti, in parte borghesi-repubblicani; e fra loro vi sono alcuni, ai quali l’insurrezione del giugno 1848, ha lasciato un marchio incancellabile. La suddivisione del lavoro fra i membri di quel governo sembra prometter poco di buono. Gli orleanisti si sono impossessati delle posizioni più forti, l’esercito e la polizia, mentre ai supposti repubblicani son toccati i posti di burla. Alcuni dei loro primi atti provano abbastanza chiaramente che dall’Impero essi non hanno soltanto ereditato un mucchio di rovine, ma anche la sua paura di fronte alla classe operaia. Se, al presente, in nome della repubblica si promettono con frasi iperboliche cose impossibili, non avviene questo forse allo scopo di provocare la velleità d’un governo «possibile»? Non potrebbe questa repubblica agli occhi dei borghesi, i quali ne diventerebbero volentieri i suoi becchini, non servire ad altro che di passaggio alla restaurazione orleanista?
 
Ed ecco come la classe operaia francese si trova condotta in circostanze oltremodo difficili. Ogni tentativo di abbattere il nuovo governo, mentre il nemico picchia quasi alle porte di Parigi, sarebbe una follia da disperati. Gli operai francesi devono compiere il loro dovere come cittadini, ma non devono lasciarsi dominare dai ricordi nazionali del 1792, come i contadini francesi si son lasciati trasportare dai ricordi nazionali del primo Impero. Essi non devono rifare il passato, ma edificare l’avvenire. Possano essi sfruttare tranquillamente e con risolutezza i mezzi che loro offre la libertà repubblicana per condurre a termine fondatamente la organizzazione della propria classe. Questo darà loro nuove erculee forze per la rinascita della Francia e per il nostro compito comune - la emancipazione del proletariato. Dalla loro energia e dalla loro saggezza dipende la sorte della repubblica.
 
I lavoratori inglesi hanno già fatto dei passi per paralizzare, mediante un gagliardo impulso esteriore, la contrarietà del loro governo a riconoscere la repubblica francese. Questa attuale paura del governo inglese deve probabilmente far pensare novellamente alla guerra antigiacobina del 1792, come del pari la fretta sconveniente di prima, con la quale aveva dato la sua approvazione al colpo di Stato. Gli operai inglesi esigono oltre a ciò dal loro governo che questo si opponga con tutte le forze allo smembramento della Francia, in favor del quale una parte della stampa tedesca basta a strepitare spudoratamente. È questa la stessa stampa, che per vent’anni Luigi Bonaparte magnificò come la provvidenza d’Europa e che ha applaudito freneticamente alla ribellione degli schiavisti americani.
 
Possano i Comitati dell’associazione internazionale dei lavoratori eccitare le classi operaie in tutti i paesi a un attivo movimento. Se gli operai dimenticheranno il loro dovere, se si manterranno passivi, la terribile guerra presente non sarà che un precursore di lotte internazionali ancor più spaventevoli, e in ogni paese porterà a nuove sconfitte degli operai dei padroni della spada, del possesso. fondiario e del capitale.
 
Vive la Republique!
 
Londra, 9 settembre 1870
 

 


Resistenze.org     
Sostieni una voce comunista. Sostieni Resistenze.org.
Fai una donazione o iscriviti al Centro di Cultura e Documentazione Popolare.

Support a communist voice. Support Resistenze.org.
Make a donation or join Centro di Cultura e Documentazione Popolare.