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A quarant'anni dalla morte (18/06/1971) del Comandante Partigiano "Gemisto", Francesco Moranino, riportiamo il discorso tenuto da Pietro Secchia in occasione della grazia concessa dal Presidente della Repubblica ma rifiutata da Moranino.
 
da www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/425456.pdf
Senato della Repubblica - IV Legislatura
306a seduta assemblea - resoconto stenografico - 15 giugno 1965
 
Pietro Secchia
 
Discorso al Senato della Repubblica
 
Roma 15 giugno 1965
 
Signor Presidente,
 
onorevoli colleghi, noi prendiamo atto della risposta dell'onorevole Ministro, anche se avremmo desiderato una risposta più ferma, che deplorasse, non soltanto implicitamente, ma esplicitamente la vergognosa campagna scandalistica sollevata nel Paese.
 
Non ha, infatti, importanza soltanto quello che si dice qui, ma ha anche importanza quello che si scrive sui giornali, ciò che è stato scritto in questi giorni; affermazioni che, d'altra parte, sono state ripetute anche qui da coloro che avrebbero dovuto sentire un solo ed elementare dovere di dignità politica e morale: quello di tacere.
 
Infatti se vi è qualcosa di repellente in questa discussione è il fatto che ad erigersi a giudici della più alta autorità dello Stato e degli organi cui compete il potere di concedere grazie e commutare pene, nel caso specifico in discussione, siano proprio coloro che non hanno mai rotto col fascismo e che hanno beneficiato della generosità della Resistenza, non tralasciando poi occasione alcuna per denigrarla e vilipenderla.
 
Ancora in questi giorni, del fascismo sono stati celebrati i fasti con i lugubri riti di funerea e tragica memoria. Con il loro stesso atteggiamento, con le parole e con gli atti, costoro si presentano e ,si qualificano come gli eredi, i difensori, e pertanto complici, di quell'infame governo della repubblica di Salò e delle famigerate bande di torturatori e criminali che agivano in suo nome.
 
Se c'era qualcuno che avrebbe dovuto sentire l'elementare dovere di tacere, sono proprio coloro che ormai da venti anni, fin dal 1946, hanno beneficiato della generosità e della grazia degli uomini che furono alla testa della Resistenza e che vollero questa Repubblica e la sua Costituzione democratica.
 
Nel 1946, un decreto di amnistia di una generosità e di un'ampiezza senza precedenti, metteva in libertà migliaia di condannati per i crimini fascisti più gravi, anche i più efferati, compiuti perfino nel periodo più tragico e doloroso per il nostro Paese, quello dell'invasione tedesca; crimini di una ferocia incredibile compiuti al servizio - per usare le parole del Presidente della Repubblica - «di quella diabolica egemonia fondata sulla forza brutale esasperata dai miti bestiali del sangue e della razza».
 
Tra i beneficiari di quell'amnistia eccessivamente generosa vi furono anche molti che avrebbero dovuto esserne esclusi perché il decreto escludeva esplicitamente i più alti responsabili politici e militari del fascismo e coloro che avevano compiuto stragi e sevizie particolarmente efferate. Interpretazioni volutamente distorte, capziose, arbitrarie ed estensive diedero invece la libertà e rimisero in circolazione i responsabili e gli autori diretti dei crimini più orrendi, delle stragi più bestiali, delle torture più feroci.
 
Abbiamo visto allora, nel 1946, ad un anno dalla fine della guerra di Liberazione (mentre venivano arrestati e restavano in carcere per molti anni i partigiani), rientrare a Bassano del Grappa coloro che avevano incendiato interi villaggi nei dintorni; abbiamo visto rientrare a Carrara gli autori degli incendi e delle orribili stragi di Vinca, di Sant'Anna, di Valla; abbiamo visto allora rimesse in libertà gran parte di quelle belve che componevano le bande Carità e Kock, la Marchi, la Rivera, il Bernasconi; abbiamo visto rimesso in libertà, allora, il famigerato Brandimarte; gli autori della strage di Caprara, ove con i lanciafiamme vennero arsi vivi, con 107 altre persone, 24 bambini; e i carnefici e collaboratori delle stragi di Montemaggio, di Piancastagnaio, di Bettole, di Boves della Benedicta, di Monte Fiorino, di Fondo Tace e di tante altre località martoriate del nostro Paese che sarebbe troppo lungo elencare.
 
Tuttavia da questi banchi non fu allora sollevato scandalo anche se il modo in cui quel decreto, quell'atto di pacificazione veniva interpretato ed applicato era tale da suscitare legittimo sdegno e giusta indignazione. Quel provvedimento di amnistia, di una generosità senza precedenti, che per il modo come venne applicato finì poi per essere una sorta di sanatoria generale per tutti i delitti, anche i più orrendi, commessi dai fascisti, mirava ad uno scopo ben preciso, e fu per questo che non sollevammo scandalo: mirava allo scopo di pacificare il Paese, di unire nuovamente il popolo Italiano e di non far pagare agli stracci, ai sicari, agli illusi, agli ingannati e ai corrotti dal fascismo le colpe dei più alti e veri responsabili.
 
La conquista della Repubblica doveva rappresentare non il mutamento di una insegna, ma una conquista sostanziale per tutto il popolo italiano, doveva veramente essere l'inizio di una vita nuova per il nostro Paese, doveva essere l'affermazione di una profonda volontà di rinnovamento politico, economico, morale e sociale della nostra società.
 
Noi avevamo coscienza che ricostruzione e rinnovamento del Paese avrebbero potuto procedere tanto più rapidamente quanto più il popolo italiano avesse ritrovato la sua unità in una politica che segnasse la fine delle violenze, la fine degli odi, la fine dei rancori suscitati dalle terribili piaghe scavate dalla guerra e dal fascismo. Ecco perché si volle che la proclamazione della Repubblica e la sua attività iniziassero proprio con quell'amnistia, con un atto di generosità e di pacificazione politica.
 
Ci si rendeva conto che molti di quei condannati erano giovani cresciuti ed educati in un clima fascista, che non avevano mai conosciuto altro regime, altra civiltà che non fossero quelli fascisti. Giovanni Gentile, Ministro della pubblica istruzione, quasi alla vigilia dell'assassinio di Giacomo Matteotti, il 24 marzo 1924, parlando a Palermo così educava gli infelici giovani di quell'epoca, con un elogio al manganello come efficace strumento di educazione morale e intellettuale; a proposito di coloro che distinguono tra forza morale e forza materiale diceva: « Distinzione ingenua se in buona fede. Ogni forza è morale perché si rivolge sempre alla volontà e qualunque sia l'argomento adoperato, dalla predica al manganello, la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita interiormente l'uomo e lo persuade a consentire». Questa era la filosofia dell'epoca e con questa filosofia non è difficile comprendere come si sia arrivati poi, passo passo, alle ville tristi, alle camere di tortura, a tutti i mezzi non dico idonei, perché i nostri martiri non hanno ceduto, non hanno parlato, ma, se non idonei, senza dubbio tesi «a sollecitare interiormente l'uomo a consentire».
 
Ci rendemmo conto come con simili insegnamenti molti giovani potessero essere stati spiritualmente e moralmente corrotti e fossero entrati nelle «brigate nere» o nell'esercito di Salò, di Mussolini, in un momento particolare, avvolti da una particolare atmosfera, ci si rese conto come tutto quanto era avvenuto sotto il fascismo e la Repubblica di Salò non potesse essere giudicato soltanto sotto l'angolo visuale della criminalità e della delinquenza.
 
Eravamo stati dei combattenti per la libertà e per la democrazia e dovevamo saper comprendere, dovevamo avere occhi per vedere, intelletto per intendere e capacità, non dico di dimenticare, ma di perdonare, non fosse altro che per ascoltare le ultime volontà di molti dei nostri condannati e torturati a morte che nelle loro ultime lettere hanno avuto parole sublimi di perdono. (Vivi applausi dall'estrema sinistra).
 
Quanto diverso l'atteggiamento di quei nostri martiri, di quegli eroi, da quello dei corifei della ignobile speculazione di questi giorni, quanto diverso il nostro atteggiamento! Ma la diversità, il solco nasce secondo noi dal contrasto insanabile tra la mentalità della democrazia e quella del fascismo, tra la mentalità di chi vuoi convincere e persuadere con la forza morale delle idee e di chi vuole invece convincere con la filosofia del manganello e della tortura. La nostra Costituzione, che era stata conquistata col sangue generoso dei patrioti, non poteva essere scritta intingendo la penna nell'odio e nella vendetta, che avrebbero scavato nuovi abissi tra gli italiani.
 
In questi giorni la stampa democratica ha ricordato i decreti d'amnistia del 1946 e quelli venuti dopo, ha ricordato anche i nomi di alti responsabili del fascismo che ne furono i beneficiari, ha ricordato i nomi di tanti criminali per i quali la strage era un'impresa, la tortura un'arte e l'assassinio un mestiere. Credo superfluo far rilevare che non vi è stato da parte di nessuno di questi giornali, né in chi da questi banchi ha ricordato quelle mostruosità, alcun accostamento; qualsiasi accostamento sarebbe oltremodo offensivo per ognuno di noi, per ogni resistente che abbia fatto e che abbia conosciuto la resistenza.
 
Franco Moranino e tanti altri partigiani furono dei valorosi combattenti (vivissimi applausi dall'estrema sinistra) che pagarono duramente e si sacrificarono durante il fascismo trascorrendo la loro gioventù nelle galere, che tutto rischiarono durante la Resistenza vivendo nei boschi, sulle montagne, impegnando un'impari lotta contro un nemico di cui si conosceva la potenza, di cui si conosceva la ferocia, mentre i vilissimi torturatori e macellai di carne umana se ne stavano al sicuro, ben protetti, imboscati nelle tante ville tristi, facendo vita da satrapi, alternando le orgie più scandalose con le torture più bestiali e più raffinate.
 
Franco Moranino ha pagato, si è sacrificato anche dopo la liberazione perché come comandante partigiano, ha saputo assumersi la responsabilità del comandante affinché fossero liberati dalle carceri i suoi uomini che stavano dentro per quei fatti, ciò che non hanno saputo fare certi principi e nobili che hanno preferito godersi indulti e amnistie e lasciare in galera gli «stracci» che li avevano serviti come lacchè e come sicari. (Vivissimi applausi dall' estrema sinistra).
 
Nessun accostamento è possibile, perché la tortura non è un'idea e la strage di popolazioni inermi non è una battaglia. Il combattente è pronto a uccidere ma è anche pronto a farsi uccidere, è pronto a dare la morte come una dura necessità ma anche a morire, mentre i torturatori e i massacratori di interi villaggi sono soltanto degli esseri abietti.
 
La guerra, è vero, anche la guerra partigiana è sempre dura, a volte terribile, ma i combattenti sono pronti a morire. C'è chi ha osservato che anche la Resistenza ha avuto le sue ombre, che anche dei comandanti partigiani hanno commesso gravi errori. Ma come non commettere errori in quelle condizioni! I comandanti partigiani non disponevano né di prigioni, né di uffici, né di aule di tribunale; vivevano continuamente braccati dal nemico, minacciati da mille insidie, costretti anche ad amministrare giustizia, a giudicare in mezzo ai boschi, sulle montagne e sotto la minaccia continua del nemico che ad ogni momento poteva catturare loro e i loro uomini e che li avrebbe torturati ed annientati. E poi non si può non ignorare lo stato d'animo di quegli uomini quando venivano a conoscere le torture dei compagni partigiani per opera delle spie, dei falsi partigiani, dei delatori; non si può ignorare che cosa voleva dire la notizia di compagni impiccati all'angolo di ogni strada, di interi villaggi distrutti con le loro popolazioni, con il ferro e con il fuoco.
 
Si dice che si sono commessi degli errori, che tra le spie e i sospettati fucilati vi erano degli innocenti. Ma come non commettere errori in quelle condizioni! Le spie c'erano sul serio, non le aveva inventate Moranino, né le avevano inventate altri partigiani. E spesso erano camuffate da partigiani e da resistenti. Come avrebbero potuto compiere il loro sporco mestiere se non avessero vissuto in mezzo ai partigiani? Non fu forse una spia mascherata come antifascista che fece arrestare Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Umberto Ceva? Non fu una spia che fece catturare il colonnello medaglia d'oro alla memoria Gino Tommasi, che ho avuto l'onore di commemorare domenica scorsa? Non fu forse una spia che fece catturare qui a Roma il generale di divisione Simone Simoni, medaglia d'oro alla memoria, barbaramente torturato in via Tasso e poi fucilato?
 
Le perdite dolorose provocate dai falsi antifascisti furono numerose. Di qui la diffidenza, di qui anche gli errori, ma la Resistenza o la si accetta in pieno con le sue luci e le sue ombre o la si respinge e la si condanna. Non si può alla Resistenza rendere soltanto degli omaggi formali con delle solenni celebrazioni come sono state rese nel Ventennale.
 
La Resistenza non fu una festa, non fu una parata, non fu una partita di caccia tra un banchetto e l'altro. A celebrarla non potevano essere sufficienti feste, parate, discorsi. Alle alate parole di concordia dovevano soprattutto e debbono corrispondere i fatti; non potevano e non possono essere lasciate aperte le ferite di quella guerra. Come è stato detto: bisognava mettere la parola fine.
 
Ipocrisia sarebbe il ricordare i nostri morti e il loro sacrificio se giustizia non fosse fatta e se si continuasse a lasciare vilipendere i combattenti della Resistenza e gli ideali democratici antifascisti, le basi stesse della nostra Costituzione. Nelle parole e nei fatti l'alto messaggio del 9 maggio doveva esprimere, come ha espresso, la coscienza democratica del Paese, doveva far rivivere le Sue speranze, dare uno slancio a tutte le forze che vogliono operare unite per la pace, per il rinnovamento, per il progresso dell'Italia nel nome della Resistenza e dei suoi ideali.
 
Viva la Resistenza! (Vivissimi applausi dall'estrema sinistra e dalla sinistra. Molte congratulazioni).
 

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