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- materiali resistenti in linea - formazione - 24-01-13 - n. 438
1948 - Il Cominform l'URSS e la Jugoslavia
I Partiti Comunisti nel secondo dopoguerra fra nazionalismo ed internazionalismo proletario
Vincenzo De Robertis
Capitolo IV
La condanna del PCJ ad uscire dal consesso comunista internazionale non è posto nella Risoluzione come dato irrevocabile, perché essa si conclude con l'invito, rivolto ai comunisti ed al Partito Jugoslavi, a ribaltare questa situazione dannosa, obbligare i propri dirigenti a riconoscere apertamente e onorevolmente gli errori, oppure a sostituirli con altri dirigenti internazionalisti.
"L'Ufficio d'Informazioni non dubita che in seno al Partito Comunista Iugoslavo vi siano abbastanza elementi sani, fedeli al marxismo-leninismo ed alle tradizioni internazionali del Partito Comunista Jugoslavo ed al fronte unito del Socialismo.
Il loro compito di costringere gli attuali capi a riconoscere apertamente ed onestamente i loro errori e pensare a correggerli, rompere con il nazionalismo ritornando all'internazionalismo e con ogni mezzo consolidare il fronte unito contro l'imperialismo.
Se i capi presenti del Partito Comunista Jugoslavo si dimostrassero incapaci di far questo, il loro compito è di sostituirli e di formare una nuova direzione internazionalista del Partito.
L'Ufficio d'Informazione non dubita che il Partito Comunista di Jugoslavia sarà capace di adempiere questo degno compito.
Questo appello si basava sulla fiducia che i "Cominformisti" nel PCJ avrebbero dato battaglia, come in effetti fecero, per sostenere le giuste posizioni.
Già prima che scoppiassero pubblicamente le divergenze, i quadri dirigenti del PCJ Zujovic [Khuyovic] ed Hebrang, citati nella Risoluzione e nel carteggio da una lettera sovietica, si erano schierati contro Tito in occasione della discussione sul Piano Quinquennale, e comeconseguenza erano stati espulsi dal CC, per poi essere in seguito imprigionati.
Ma, anche dopo la pubblicazione della Risoluzione, veniva fondata a Praga nel mese di settembre la "Nuova Borba" (titolo in aperta polemica con la "Borba", organo del PCJ), il cui compito era lo "smascheramento del tradimento compiuto da Tito ai danni del popolo Jugoslavo." La Nuova Borba, benché proibita dalle autorità iugoslave, ebbe una certa diffusione tra i cominformisti jugoslavi. Ancora il 6 novembre del 1948, nel discorso di commemorazione della Rivoluzione di Ottobre, Molotov si dimostrava fiducioso negli comunisti all'interno del PCJ, che avrebbero potuto riportare la Jugoslavia in seno alla famiglia comunista.
La reazione di Tito non si fece, però, attendere. Il Congresso del PCJ, che si tenne alla fine di luglio del 1948, fu organizzato in modo tale che qualsiasi voce di dissenso fosse cancellata, e si concluse con la trionfale rielezione di Tito a segretario generale. Pochi giorni dopo, il 10 agosto, Tito pronunciò il famoso discorso alla Prima Divisione Proletaria. Esso aveva lo scopo di rinsaldare le fila dell'esercito jugoslavo, scosso in quel momento dalla condanna del Cominform che aveva generato defezioni tra i militari. Nel discorso il Maresciallo Tito introdusse un elemento "nuovo", già abbozzato nel carteggio: l'enunciazione formale della "via jugoslava al socialismo".
"Tito non si sottomise al giudizio del Cominform, ma, al contrario, scatenò un'epurazione di massa nei confronti dei membri del partito che sostenevano la risoluzione. Furono arrestati membri del Comitato Centrale e generali dell'Armata dei partigiani. "The Times riteneva che il numero delle persone imprigionate fosse tra 100.000 e 200.000".[1]
Famigerato il campo di concentramento di Goli Otok, in italiano "Isola calva", un'isoletta brulla di pochi chilometri quadrati, nel Golfo del Quarnaro, in cui vennero rinchiusi dal 1949 al 1956 circa 30mila prigionieri, di cui circa 4000 moriranno, per la grandissima maggioranza "cominformisti", ma anche della minoranza albanese del Kossovo.
"Nelle quattordici baracche del campo arrivano prigionieri appartenenti a tutte le nazionalità della nuova Jugoslavia; tra di essi, vi sono anche degli italiani, il cui nucleo più consistente è rappresentato dai cosiddetti monfalconesi: circa 2.500 militanti comunisti, in larga parte provenienti dai cantieri navali di Monfalcone, che spinti dai propri ideali decidono tra il 1946 e il 1947 di trasferirsi in Jugoslavia per partecipare alla costruzione del socialismo, dando vita a un passaggio storico meglio conosciuto come controesodo dei monfalconesi."[2]
"Sono chiamati «i monfalconesi», anche se non tutti vengono dalla cittadina dei cantieri navali vicino a Trieste; forse perché molti di loro in quella fabbrica lavorano, forse perché a Monfalcone sotto il fascismo opera la cellula di fabbrica più forte del PCI clandestino. Il 9 settembre del `43 in mille escono da quel cantiere navale e, dopo un breve scontro con la polizia, ancora in tuta da lavoro, salgono in montagna, battezzandosi «Brigata proletaria» per combattere nazisti e repubblichini, in contatto con la resistenza slovena attiva già da più di un anno sui monti del Carso e nella valle dell'Isonzo. La prima battaglia, nei pressi di Gorizia, per loro è un disastro: impreparati e male armati, quasi metà muoiono, una parte sbanda, un'altra viene integrata nelle fila del IX Korpus dell'armata di liberazione di Tito e due anni dopo (il 3 maggio del `45), con quelle divise, entrano da liberatori a Monfalcone, accolti da quella parte della città che chiede l'annessione alla nuova Jugoslavia.
Tramontata questa ipotesi, incerta la sorte di Trieste, un migliaio di ex partigiani, giovani e operai dei cantieri, spinti dalla disoccupazione e dalla fede politica decidono di lasciare le loro case e di andare a costruire il socialismo in Jugoslavia: Pola e Fiume le principali mete. Lì riprendono a lavorare in fabbrica, «per mettere il proprio mestiere al servizio della causa comune». Ma da subito si scontrano con una realtà diversa da quella che avevano immaginato; poi con la rottura tra Tito e Stalin del giugno `48 tutto precipita.
Sono italiani e si trovano a fare i conti con la diffidenza delle popolazioni slave, per cui l'Italia continua a essere sinonimo di fascismo e discriminazione razziale; sono internazionalisti e si trovano di fronte un partito - quello jugoslavo - impegnato nella difficile unificazione di popoli per secoli divisi puntando sul cemento di una nuova identità nazionale, quella degli «slavi del sud»; sono operai specializzati, molto politicizzati, fieri del proprio mestiere e convinti di poter edificare una società nuova come si costruisce una nave e si misurano con un apparato statale e di partito socialmente segnato dalla realtà contadina delle popolazioni serbe, croate, bosniache. Così quando il Cominform «scomunica» la Jugoslavia di Tito, optano per Stalin - spinti anche dal partito italiano - e non lo nascondono. I funzionari - già diventati burocrati - che da Zagabria vengono a Fiume e Pola per dissuaderli dall'opporsi non li convincono: fino a quando è possibile manifestano pubblicamente il loro «internazionalismo», il «primato della classe operaia». Poi vengono licenziati dalle loro fabbriche e dispersi: alcuni decidono di tornare in Italia - dove il PCI li mette ai margini o li ignora - altri vengono deportati in Bosnia per il «lavoro volontario» in cave e miniere. Alcuni, i più in vista, dopo processi sommari con l'accusa di tradimento e spionaggio al servizio del Cominform, finiscono a Goli Otok, il campo di concentramento aperto nel luglio `49. Lì incontrano i protagonisti di una seconda fase dell'opposizione comunista italiana a Tito, i cominformisti veri e propri, un piccolo manipolo di militanti che a Fiume fondano persino un'organizzazione clandestina, chiamata «Comitato circondariale di Rijeka del Partito comunista internazionalista jugoslavo»; un'entità virtuale, che non riesce mai ad andare al di là di piccole azioni di propaganda (volantini e giornali che arrivano da Trieste in valige a doppio fondo, su indicazione di Vidali) e viene presto smantellata dalla polizia segreta jugoslava. Insieme con altre migliaia di ex militanti del PC jugoslavo - tra essi anche alcuni importanti dirigenti e generali dell'armata di liberazione - schieratisi col Cominform e contro Tito. "[3]
A queste vicende è dedicato il libro di Giacomo Scotti - Goli Otok, italiani nel gulag di Tito, (Trieste, edizioni Lint, pp. 406, euro 22) e ne parla anche Alfredo Monelli nel libro "Fra Stalin e Tito, Cominformisti a Fiume, 1948-1956". Note a cura di Franco Cecotti (Trieste, Irsml, "I quaderni di Qualestoria", 1994).
Una volta imboccata la china del nazionalismo borghese, malgrado le dichiarazioni ufficiali all'VIII Congresso del partito, tenuto nel 1948, che assicuravano la fedeltà ai principi marxisti-leninisti, la pratica del partito passò dalla rivendicazione della collaborazione di classe con i contadini ricchi alle aspre critiche verso la collettivizzazione dell'agricoltura in Unione Sovietica, per approdare in politica estera a posizioni violentemente antisovietiche. Di contro si moltiplicavano le aperture verso le potenze imperialiste occidentali, fino a sostenere l'aggressione americana contro la Corea.[4]
Infatti, in occasione della guerra di Corea, in contrasto con tutti gli altri stati comunisti, la Iugoslavia aderì all'embargo deciso dalle Nazioni Unite nella fornitura di armi alla Corea del Nord e alla Cina.
Il 27 dicembre, di fronte all'Assemblea Federale che si accingeva a discutere il bilancio federale per il 1949, Tito affermò in un discorso di due ore che la Jugoslavia - isolata dalle democrazie popolari e posta in condizione subordinata, perché da qualche settimana era cominciato anche il boicottaggio economico, che si concluderà con l'esclusione nel 1949 della Jugoslavia dal Comecon - il Consiglio di mutua assistenza economica degli stati socialisti - si vedeva costretta ad allacciare rapporti con qualsiasi Paese che volesse aiutarne lo sviluppo. Il 31 dicembre Mosca annunciava, tramite la Pravda, l'intenzione di annullare ogni rapporto commerciale con Belgrado.
La rottura pubblica fra campo socialista e Jugoslavia e la sua apertura all'Occidente all'inizio non fu capita da Stati Uniti e Gran Bretagna, né vi fu immediatamente conformità di comportamento e incondizionato appoggio a Tito ed agli altri dirigenti jugoslavi da parte delle due principali potenze imperialiste.
Questo perché la Jugoslavia, appoggiata dall'URSS, nel '45 aveva avanzato le sue rivendicazioni su Trieste e la Venezia Giulia, incontrando un'ostilità agguerrita delle due potenze occidentali. Tra il 16/7 e l'8/8/1946 non meno di 172 fra caccia e bombardieri avevano violato lo spazio aereo jugoslavo ed alla fine di agosto due aerei americani erano stati intercettati ed abbattuti nei cieli jugoslavi. Di fronte alla immaginata monoliticità dei rapporti esistenti fra gli stati del campo socialista, anche alcuni segnali impercettibili, come il mancato telegramma di auguri da parte di Stalin a Tito per il suo compleanno (25/5/1948), o più evidenti, come il ritiro dei consiglieri militari sovietici, non furono immediatamente capiti.
Qualcosa apparve più chiaramente con la richiesta unilaterale di spostamento della Conferenza Danubiana dalla sede originaria di Belgrado, che i sovietici avanzarono senza una preventiva consultazione con gli jugoslavi, i quali se ne lamentarono pubblicamente. Ma anche in questo caso, però, prevalsero le interpretazioni occidentali che vedevano una rivalità Stalin-Tito per l'egemonia sui Balcani, anche perché gli jugoslavi durante tutta la conferenza (che poi si tenne ugualmente a Belgrado fra luglio ed agosto del 1948) non manifestarono neanche il più piccolo segno di differenziazione dalle posizioni sovietiche, nonostante la contemporanea pubblicazione della Risoluzione del Cominform.
Di fronte ai primi segnali di spaccatura fra Jugoslavia e campo socialista, le opzioni che si offrivano alla politica imperialista nei rapporti verso Tito erano fondamentalmente tre:
- affossarlo, approfittando della sua debolezza;
- aspettare che la situazione decantasse per capire la portata del dissenso;
- sostenerlo perché sopravvivesse alle iniziali difficoltà.
Resa pubblica la Risoluzione del Cominform gli stati maggiori del blocco imperialista percepirono, non senza perplessità e contraddizioni al proprio interno, le opportunità che si offrivano loro con l'esempio che una Jugoslavia, staccata da Mosca e dal campo socialista, poteva fornire agli altri Paesi dello stesso campo, anche nell'ipotesi che il contrasto fosse un bluff o che rientrasse col passare del tempo. Prudenza imponeva, comunque, che non si desse un appoggio aperto ed immediato a Tito, persistendo le perplessità sugli avvenimenti e pena, anche, il rischio di bruciarlo come "agente dell'imperialismo" e quindi di isolarlo.
Non mancarono anche "colpi di testa" della CIA, che, sulla base della prima opzione, infiltrò in Jugoslavia gruppi di esiliati di destra, i quali durante la guerra avevano combattuto contro i partigiani. Ma questa iniziativa rientrò immediatamente per l'opposizioni congiunta di inglesi, francesi e dello stesso Consiglio di Sicurezza americano che bloccò l'operazione.
Gli ultimi dubbi su Tito furono fugati quando, il 5 ottobre 1948, Bebler, membro della delegazione jugoslava all'ONU, chiese apertamente aiuti economici ai rappresentanti del Governo inglese presso le Nazioni Unite, consigliando un certo distacco politico con Tito, stante la forte opposizione interna.[5]
"Tito accompagnò la sua apertura verso gli imperialisti occidentali con misure economiche che aprivano la strada alla restaurazione del capitalismo.
"In campo economico, le misure socialiste che la Jugoslavia aveva preso prima del 1948, furono liquidate in fretta. Alexander Clifford, corrispondente del Daily Mail, scriveva a proposito delle riforme economiche adottate nel 1951: 'Se si realizzeranno, la Jugoslavia sarà infine molto meno socialista della Gran Bretagna. I prezzi delle merci (saranno) determinati dal mercato, cioè dall'offerta e dalla domanda, i salari (saranno) fissati sulla base delle entrate o dei profitti delle imprese, le imprese decidono in modo autonomo ciò che producono e la quantità. Non c'è molto marxismo classico in tutto ciò'".
Ernesto Che Guevara, che visitò la Jugoslavia nel 1959, definì il tipo di società jugoslava come "capitalismo delle imprese con una distribuzione socialista dei profitti". E precisò: "...il tipo di socialismo si allontana dalla ortodossia dei testi marxisti per adottare una serie di caratteristiche proprie; [il che è] pericoloso per la concorrenza tra le imprese che producono le stesse merci introduce fattori di deviazione rispetto ai principi socialisti'".[6]
Di questi argomenti ne parla in maniera generale anche Enver Hoxha nel citato volume L'"autogestione" jugoslava del 1978:
"[…]Dopo il 1948 la Jugoslavia, travagliata da una grave crisi politica, ideologica ed economica, si trovò a un crocevia a causa della deviazione antimarxista della sua direzione. […]Il periodo che va dal 1948 a questa parte è un periodo torbido e fortemente travagliato da una grande crisi, dalla degenerazione e dalla confusione.
[…] La situazione economica in quel periodo si presentava in Jugoslavia molto grave a causa della distruzione dell'economia durante la guerra, a causa della politica corrotta della direzione iugoslava, per il fatto che. dopo la rottura di tutte le relazioni con l'Unione Sovietica, la Jugoslavia non riceveva più i cospicui aiuti che aveva ricevuto nei primi anni successivi alla liberazione ed anche per il fatto che non poteva saccheggiare più le risorse dei paesi a democrazia popolare, come l'Albania, attraverso le società «miste», istituite su basi non eque e che andavano a vantaggio di una sola delle parti, della Jugoslavia.
Certo, i rinnegati jugoslavi non potevano uscire dalla crisi unicamente con il terrore. In quanto agente matricolato dei capitalismo mondiale, la direzione titoista sollecitò immediatamente il suo aiuto, e questi, soprattutto l'imperialismo americano, si mostrò pienamente disposto ad accordare a Tito e compagni tutti gli aiuti e tutta l'assistenza necessarie per salvarli e trasformarli in un importante strumento nella lotta contro il socialismo, la rivoluzione e i movimenti di liberazione.
Le potenze imperialiste aspettavano con impazienza questa svolta, poiché proprio per questa si erano preparate durante la guerra. Perciò esse non mancarono di offrire loro non solo ingenti «aiuti» economici, ma anche un forte appoggio politico-ideologico. Esse fornirono loro anche armi ed equipaggiamenti militari di ogni genere, e li vincolarono anche con la NATO attraverso il Patto Balcanico.
Durante il primo periodo, specie nel campo dell'industria e dell'agricoltura, la Jugoslavia fu «aiutata» attraverso gli investimenti delle società straniere.
Nel campo dell'industria, in cui l'imperialismo degli Stati Uniti d'America si mostrò particolarmente «generoso», il lavoro ebbe inizio con «gli aiuti» per il ripristino delle vecchie fabbriche esistenti affinché queste fossero messe più o meno in condizione di produrre e che questa produzione fosse sufficiente a mantenere in piedi il regime borghese-revisionista in via di cristallizzazione e che si era orientato verso il capitalismo mondiale.
Il regime titoista doveva liquidare anche quel sistema zoppicante della collettivizzazione dell'agricoltura che era sorto in diverse economie contadine e creare un sistema nuovo, in cui i Kulak e i grandi proprietari di terre fossero nuovamente avvantaggiati. Per la ridistribuzione delle terre furono escogitate forme e maniere idonee a ripristinare la vecchia classe dei kulak, senza causare gravi torbidi nel paese. Lo Stato adottò una serie di misure capitalistiche, ad esempio la soppressione delle stazioni delle macchine e trattori e la vendita dei loro macchinari ai contadini ricchi, in grado di acquistarli, nonché l'imposizione di gravi tasse agli agricoltori. Le aziende agricole statali furono ugualmente trasformate in imprese capitaliste, in cui furono investiti anche capitali stranieri, e così via.
Dal capitale straniero trassero grande vantaggio i commercianti e gli industriali del paese, i quali furono fatte rilevanti concessioni.
Queste misure dimostravano, senza alcun dubbio, che questo «socialismo» che stava costruendo la Jugoslavia non era altro che la via dell'integrazione nel capitalismo.
Così fu spianato il terreno alla penetrazione dei capitali stranieri, in misura e grado sempre maggiore, in un ambiente politico, ideologico e organizzativo molto adatto al capitalismo mondiale, il quale, aiutando il regime titoista, se ne sarebbe servito poi come di un ponte di passaggio per introdursi negli altri paesi a democrazia popolare.
[…] Questo stato di cose era stimolato anche dagli Stati capitalisti, che avevano preso sotto la loro egida il regime titoista per dare alla Jugoslavia un indirizzo capitalistico.. Approfittando di questa situazione, i vari imperialisti erano in gara fra loro chi avrebbe allungato più le mani su questo stato imbastardito per imporgli, in compenso dei crediti che gli concedevano, anche i loro punti di vista politici, ideologici e organizzativi.
I capitalisti stranieri, che appoggiavano il gruppo rinnegato titoista, erano convinti che questo gruppo sarebbe stato al loro servizio, ma intuivano anche la necessità di creare in Jugoslavia, una volta superata la situazione torbida e caotica esistente, uno stato di cose più stabile. Altrimenti non sarebbero stati sicuri degli ingenti investimenti già fatti e di quelli che pensavano di fare nel futuro."[7]
[1] Dall'introduzione di Adriana Chiaia al libro di Kurt Gossweiler "La (ir)resistibile ascesa al potere di Hitler" (Zambon Editore; pagg. 43 - 45):
[2] Dal sito intranet.istoreto.it/esodo/parola.asp?id_parola=10
[3] Da un articolo di Gabriele Polo su "il Manifesto" del 6 ottobre 2002
[4] Dall'introduzione di Adriana Chiaia al libro di Kurt Gossweiler "La (ir)resistibile ascesa al potere di Hitler" (Zambon Editore; pagg. 43 - 45):
[6] Dall'introduzione di Adriana Chiaia al libro di Kurt Gossweiler "La (ir)resistibile ascesa al potere di Hitler" (Zambon Editore; pagg. 43 - 45):
[7] Enver Hoxha, “L’“autogestione” jugoslava, teoria e pratica capitaliste”, Tirana 1978, pagg.5-8
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