Convegno su Pietro Secchia - Torino 16/04/05
Ci sono tre elementi della storia italiana contemporanea che sono inseparabili
dalla storia del comunismo e dal partito che lo ha rappresentato: sono
l’antifascismo, la Resistenza e la Costituzione repubblicana. Questi tre passaggi storici si sono
materializzati nel modo e col peso che conosciamo grazie all’esistenza del PCI
e dei gruppi dirigenti che questo partito ha saputo esprimere.
Questo convegno è dedicato ad un uomo, ad un comunista, Pietro Secchia, che
insieme a Gramsci, Togliatti e Longo ha svolto un ruolo di primissimo piano per
rendere possibili quei tre passaggi storici.
Oggi, nel 60° anniversario della Liberazione lo ricordiamo soprattutto
come uno dei grandi leader della Resistenza, ed è giusto che sia così. La lotta armata contro il nazifascismo ha
segnato infatti il passaggio del PCI a soggetto primario della politica
italiana.
Non ci sarebbe stata la Resistenza senza l’antifascismo di venti anni prima,
non ci sarebbe stata la Costituzione
repubblicana senza la Resistenza.
Per mantenere il senso delle proporzioni è bene ricordare quale è stata la
consistenza numerica ed il tonnellaggio politico e militare dei comunisti nei
tre passaggi storici citati.
Secondo i dati elaborati dall’ANPI l’antifascismo è misurabile dagli oltre 160
mila cittadini iscritti nelle liste di polizia e sottoposti a vigilanza
speciale, 5.319 condannati dal Tribunale speciale a 23.661 anni di galera,
8.000 internati, 32 condanne a morte, quasi tutte eseguite. Il 90% erano comunisti. A questi vanno aggiunti le centinaia di
migliaia di esuli, molti dei quali sono andati a combattere per altre cause non
meno importanti: al fianco di Sandino in Nicaragua, a sostegno della Repubblica
spagnola, persino a fianco del Negus contro l’aggressione coloniale fascista.
Ed è stato in quelle guerra lontane, oltre che nelle carceri di Mussolini, che
decine di quadri comunisti hanno integrato la loro formazione politica con
quella militare, imperniata sulla nozione della guerra di popolo, che è stata
essenziale per poter iniziare dopo l’otto settembre la lotta armata di
liberazione nazionale, le cui dimensioni e
la cui efficacia hanno stupito i comandi alleati. E’ lo stesso generale Clark, comandante
della 5° Armata americana che in un suo libro di memorie esprime riconoscimento
e gratitudine alla resistenza italiana.
Lo fa come uomo di guerra, abituato a muovere migliaia di uomini sui
vari fronti, sa perfettamente cosa significano 44.720 partigiani uccisi e
21.168 invalidi. Sa , e lo dice, che la
guerra di popolo che ha mobilitato più di 360 mila (dati ANPI) tra partigiani
combattenti e patrioti è l’equivalente di una intere armata alleata operante
alle spalle del nemico. Ma ciò che più
conta è che questa armata di volontari è stato il più vasto e spontaneo
movimento di popolo che la storia italiana ricordi. E Clark sa anche che l’80% di quel potenziale militare è stato
espresso dai comunisti italiani. E
Pietro Secchia è stato, insieme a Luigi Longo, uno dei capi più prestigiosi.
E’ un fatto inoppugnabile che la Costituzione repubblicana approvata nel 1947
sia il terzo passaggio storicamente più importante prodotto dalla lotta
antifascista e dalla resistenza armata al nazifascismo. Due semplici domande bastano a individuare
le radici qualitative di questo
pilastro dello stato moderno: sarebbe stato possibile conquistare una
Costituzione così avanzata senza il peso delle grandi lotte sociali e politiche
che il movimento operaio, guidato da un PCI con due milioni di iscritti, ha
saputo condurre in quegli anni? E’
forse un caso che oggi, sparito quel partito e sconfitto il movimento operaio,
sia proprio la Costituzione ad essere il bersaglio principale dell’estrema
destra post (?) fascista?
Questa iniziativa di rileggere P. Secchia nel 60° anniversario della
liberazione si colloca in netta
controtendenza, rispetto agli approcci revisionisti della varie anime della
sinistra, da quella ex a quella neocomunista, che tendono da un lato, quella
ex, a rimuovere senza attenuanti tutto l’impianto teorico e pratico del
leninismo che ha segnato l’esperienza storica del comunismo del 900, e quella
neocomunista che invece propone una lettura più benevola (parzialmente
assolutoria) della storia del PCI, in quanto esperienza originale ed autonoma e
perciò separabile dallo stalinismo e dai suoi “orrori”. Entrambe queste letture presentano Pietro
Secchia come l’esponente dogmatico, l’uomo di fiducia di Stalin, il regista di
una struttura clandestina, diventato poi l’irriducibile antagonista di
Togliatti. C’è stato addirittura chi,
come Miriam Mafai, non ha esitato a titolare il suo libro su Secchia “L’uomo
che sognava la lotta armata”, lasciando cosi trasparire l’idea che potrebbe
essere stato lui il “grande vecchio” ispiratore del terrorismo B.R. Secchia la lotta armata non l’ha
sognata. L’ha fatta e vinta quando era
necessaria e possibile, l’ha criticata e condannata severamente quando è stata
espressa da minoranze avventuriste e irresponsabili. Ma quello che importa ai nuovi profeti della non violenza
è di lasciare intendere che sei stato contaminato dalla violenza della lotta
armata non riesci più a liberartene.
Oggi cercheremo di spiegare come la vita e l’impegno politico di Secchia si
collocano entro i tre passaggi salienti della storia italiana. Molte cose saranno raccontate da altri compagni con conoscenze e
competenze maggiori della mia e dunque mi limiterò a ricordare un periodo che,
benché entusiasmante, è stato sicuramente il più complicato e difficile della
storia del PCI. Un periodo cruciale nel
quale Secchia ha dovuto gestire, insieme a molti altri compagni., il passaggio
da partito di quadri forzosamente disperso durante la clandestinità nelle
carceri, al confino e nell’emigrazione, a partito nuovo e di massa dopo la
liberazione. Un passaggio che però
bisognava iniziare prima della liberazione, già durante la lotta armata,
stabilendo un forte legame ed un consenso di massa tra le avanguardie armate
che colpivano militarmente il nemico e il movimento operaio che si opponeva
all’invasore con mezzi meno cruenti ma non meno efficaci.
La costruzione del partito di massa non è stata una decisione scaturita da una
improvvisa folgorazione di qualche dotato dirigente, ma è giunta a maturazione
dopo la travolgente accelerazione imposta dagli avvenimenti di quegli anni: la
svolta della guerra dopo la disfatta nazista a Stalingrado l’ondata di scioperi
che seguirono nel marzo 1943 nella grandi città del nord, la caduta del
fascismo, il dilagare della resistenza in Italia e in Europa e, infine, la resa
dei conti finale con la belva hitleriana
nel bunker di Berlino.
Una storia svoltasi in un contesto internazionale in fase molto dinamica, su
cui ha pesato il ruolo svolto dall’Unione Sovietica che con il suo peso
politico e militare ha sconvolto gli assetti geopolitici dell’Europa ed ha
fatto irrompere sulla scena politica il movimento operaio e i partiti
comunisti. Partiti che, benché liberati
dai vincoli organizzativi della 3° internazionale, sciolta nel 1944, e resi
autonomi di svolgere le politiche più consone alle rispettive esigenze
nazionali, conservavano tuttavia, con il realismo tipico della scuola
leninista, una visione comune del quadro internazionale e dei rapporti di forza
che si stavano delineando tra imperialismo e socialismo negli anni del dopoguerra
dopo gli accordi di Yalta.
Il PCI di quegli anni del dopoguerra è chiamato ad operare in una realtà
pesantemente marchiata e inquinata dalla presenza di apparati statali e
padronali ereditati dal ventennio fascista e tutelati da un regime di occupazione
militare americano, diventato il pilastro principale della restaurazione
anticomunista in occidente. I
comunisti italiani hanno tuttavia saputo compiere il loro capolavoro. Da poche
migliaia di militanti selezionati, erano già diventati, nel 1948, un grande
partito di massa con più di due milioni di iscritti, ed erano più che mai la
forza politica trainante dello schieramento democratico antifascista. Ed è con quella forza che il partito
diretto da Togliatti, Longo e Secchia si appresta a fronteggiare, dopo la
sconfitta elettorale del 1948, uno scontro durissimo contro il grande capitale
e la proprietà terriera ansiose di restaurare le antiche gerarchie del potere e
del comando nelle fabbriche, nella società e nelle istituzioni.
Pietro Secchia è l’uomo cui viene affidato il compito più arduo e difficile:
trasformare il prestigio e il consenso di massa acquisito dai comunisti nella
lotta antifascista e nella Resistenza in una grande forza politica organizzata,
fortemente strutturate nelle cittadelle proletarie del nord, nonché tra le
masse dei contadini poveri, dei braccianti e dei senza terra del mezzogiorno,
con l’obbiettivo ravvicinato di costruire un sistema di alleanze ed un blocco
di forze sociali – già immaginato da Gramsci – che porti a compimento le
riforme democratiche contenute nella nuova Costituzione repubblicana. Una fase
molto complessa, definita di transizione, che comporta scelte politiche e tempi
di marcia verso il futuro denso di incognite ed una esposizione costante ai
rischi del settarismo e dell’opportunismo.
Del tutto ovvio che nel PCI (che fin dai tempi dell’Ordine Nuovo non è mai
stato un partito dogmatico e ossificato) non manchino le discussioni e i
confronti, anche aspri, all’interno del gruppo dirigente. Tuttavia, Secchia, non ha mai messo in
discussione la lungimiranza della svolta di Salerno compiuta da Togliatti al
suo arrivo in Italia. Lui quella svolta
l’ha voluta e saputa compiere nei Comitati di Liberazione Nazionale, cioè
quella forma unitaria di potere antifascista e popolare del nord che, a
differenza del sud, è cresciuta e maturata nel fuoco della lotta armata e
dell’insurrezione, e Secchia guarda al futuro dopoguerra con l’intenzione di
mantenerla, quella forma di potere, usando come propellente per la costruzione
del partito di massa il patrimonio di egemonia accumulato dalla classe operaia
e dai comunisti durante la resistenza.
I tratti distintivi della linea di Secchia hanno riguardato inanzitutto le
caratteristiche interne del partito e solo marginalmente la sostanza della
linea politica e, pertanto, non è mai stata una linea alternativa a quella di
Togliatti. Il carattere democratico e
costituzionale del processo di transizione, che avrebbe dovuto aprire la via al
socialismo in Italia, non è mai stata messa in discussione. Le stesse modalità dello sciopero generale
del luglio 1948, dopo l’attentato a Togliatti e le dure critiche di Secchia
agli episodi avventuristi e insurrezionali, che non furono né pochi né piccoli,
ne sono la conferma più che evidente.
Il cosiddetto operaismo di Secchia si traduce unicamente nella sua idea
di rafforzare il partito concepito come soggetto primario per resistere
all’offensiva che non sarebbe tardata ad arrivare in questa parte occidentale del mondo, all’interno del quale non
era prevedibile a breve un cambiamento rivoluzionario, ma bensì un approccio
riformista per espugnare postazioni (le casematte di Gramsci) sociali e
politiche sempre più avanzate.
Pertanto la fabbrica doveva essere l’epicentro della resistenza prolungata
contro il ritorno offensivo e repressivo del grande capitale, sostenuto
dall’imperialismo americano la cui politica mostrava i segni di una paranoia
antisovietica e anticomunista estremamente minacciosa per la pace mondiale.
Nel documento redatto a Mosca nel 1947 (archivio Secchia) ritroviamo
un’articolata sintesi delle posizioni di Secchia. Il passaggio decisivo è quello riguardante la lotta politica in
Italia concepita come stretta combinazione di lotta parlamentare e di lotta
extra parlamentare, di azioni di vertice e di mobilitazione di base. Dunque lotte più decise, più impegnative,
un movimento di massa ininterrotto, un’azione più incisiva ed incalzante, la
consapevolezza che il cedere su certe posizioni, scindere cioè la vita del
partito da quella dei comunisti al governo, significava perdere, e per sempre,
una parte dei risultati conseguiti negli spostamenti degli equilibri di classe
interni tra movimento operaio e borghesia.
Questa la diversità essenziale tra le due linee. Troppo poco per definire quella di Secchia
una vera e propria alternativa a quella di Togliatti, ma elementi sufficienti
per arricchire la politica di unità nazionale di quei contenuti che allora si
chiamavano di democrazia progressiva.
Credo che la vita politica e l’esperienza di Secchia varrebbe la pena di
conoscerla (oggi non c’è il tempo di farlo) arrivando fino ed oltre la sua
morte avvenuta in circostanze sospette nel 1973 (avvelenato dalla CIA ?).
Benchè rimosso da vice segretario del PCI dopo il clamoroso tradimento del suo
più vicino collaboratore, Giulio Seniga, fuggito con la cassa del partito,
Secchia ha continuato a far sentire forte e chiara la sua voce scrivendo libri
e saggi importanti per la storia del movimento operaio, svolgendo la sua attività
di educatore e aggiornando le nostre nozioni di politica internazionale in una
fase piuttosto turbolenta della coesistenza pacifica , segnata dalla rottura
dell’URSS con la Cina e dall’irrompere sulla scena mondiale di grandi movimenti
antimperialisti, Algeria, Cuba, Vietnam.
Temi, questi ultimi, su cui non a caso, le sue intuizioni finirono per
convergere ancora una volta con le critiche e le correzioni alla linea
kruscioviana proposte da Togliatti nel memoriale di Yalta, miranti a
ricostruire su basi nuove (unità nella diversità) le relazioni tra i partiti
comunisti.
I compagni che hanno resistito prima e dopo la Bolognina alla deriva e allo
scioglimento del PCI, e hanno dato vita al PRC, devono molto a Pietro
Secchia. Se Gramsci e Togliatti sono
stati dei giganti che hanno alimentato con il loro pensiero le grandi battaglie
ideali e politiche del movimento operaio italiano, Pietro Secchia è stato
l’organizzatore, l’architetto, il costruttore che ha dato impulso al formarsi
di cellule comuniste in migliaia di fabbriche, in ogni comune, accanto ad ogni
campanile unendole in una rete poderosa di strutture comuniste organizzate,
forza motrice delle straordinarie battaglie politiche e sindacali e delle
relative conquiste sociali che hanno fatto diventare il PCI il più grande
partito dell’occidente capitalistico.
Già tanto basterebbe per indagare e riflettere, senza pregiudizi e senza
etichette, su quella formidabile esperienza.
Soprattutto ora che sono cominciati i lavori di demolizione della
Costituzione e – ahimè – tutto passa senza neanche la fermata simbolica di un
solo minuto. Sarebbe una buona
occasione per discutere cercando di capire quando come e perché siamo
sprofondati in questo abisso di impotenza:
Sergio Ricaldone