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- osservatorio - della guerra - 20-12-09 - n. 300
Traduzione dall'inglese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Yemen: la guerra del Pentagono in Arabia
di Rick Rozoff
15/12/09
Forse è impossibile determinare il momento esatto nel quale un sedicente guerriero santo appoggiato dagli USA - addestrato a compiere atti di terrorismo urbano e abbattere aerei commerciali - smette di essere un combattente per la libertà e si trasforma in terrorista. Ma si può sicuramente supporre che questo succede quando oramai non è più utile a Washington. Un terrorista che serve gli interessi degli USA è un combattente per la libertà; un combattente per la libertà che non li serve è un terrorista.
Gli yemeniti sono gli ultimi ad imparare la legge della giungla del Pentagono e della Casa Bianca. Insieme con Iran e Afghanistan, che lo specialista in contro-insurrezioni Stanley McChrystal ha utilizzato per perfezionare le sue tecniche, lo Yemen va ad unirsi alla schiera di quelle nazioni in cui il Pentagono è implicato in questo tipo di guerra, fatta di massacri di civili e di altri generi di cosiddetti danni collaterali: Colombia, Mali, Pakistan, Filippine, Somalia e Uganda.
L’emittente BBC News informava il 14 dicembre della morte di 70 civili a seguito del bombardamento aereo di un mercato nel villaggio Bani Maan, nel nord dello Yemen. Le forze armate del paese hanno rivendicato la responsabilità del letale attacco, ma un sito internet dei ribelli Houthi contro i quali evidentemente era diretto l'attacco ha dichiarato che "aeroplani sauditi hanno commesso un massacro contro gli innocenti abitanti di Bani Maan". [1]
Il regime saudita è entrato nel conflitto armato tra gli (eponimi) Houthi e il governo yemenita per conto di quest’ultimo alla fine di novembre e da allora è stato accusato di lanciare attacchi all’interno dello Yemen con carri armati ed aerei. Perfino prima dell'ultimo bombardamento numerosi yemeniti sono morti e migliaia sono stati resi profughi a causa dei combattimenti. Anche l'Arabia Saudita è stata accusata di utilizzare le bombe al fosforo.
Inoltre, il gruppo ribelle conosciuto come Giovani Credenti, che poggia sulla comunità musulmana sciita dello Yemen e che rappresenta il 30% su una popolazione del paese di 23 milioni, il 14 dicembre ha affermato che "aerei da caccia USA hanno attaccato la provincia Sa'ada dello Yemen" e che "aerei da caccia USA hanno lanciato 28 attacchi contro la provincia nord-occidentale di Sa'ada" [2].
L'edizione del giorno precedente del Daily Telegraph informava di colloqui con funzionari militari USA i quali dichiaravano che "per paura che lo Yemen si trasformi in un Stato fallito, gli USA hanno inviato un piccolo contingente di forze speciali per migliorare l'addestramento dell'esercito yemenita in reazione a tale minaccia".
Citando un funzionario anonimo del Pentagono, l’articolo aggiungeva che: "Lo Yemen si sta trasformando in una base d’appoggio per le attività di al-Qaeda in Pakistan e Afghanistan" [3]. L'evocazione dello spettro di al-Qaeda è, comunque, un segnale. I ribelli nel nord della nazione sono sciiti e non sunniti, e men che meno sunniti wahabiti del tipo saudita, e come tali non sono vincolati a nessun gruppo o gruppi che possano classificarsi di al-Qaeda, ma è più probabile invece che costituiscano un obiettivo per questi ultimi.
Al servizio dei progetti statunitensi nella regione, la stampa britannica e americana ultimamente si sono riferite allo Yemen come alla "patria ancestrale" di Osama bin Laden. Bin Laden proviene da una famiglia miliardaria arabo-saudita però, siccome suo padre nacque più di un secolo fa in quella che ora è la Repubblica dello Yemen, i media occidentali sfruttano un insignificante avvenimento storico per indicare un ruolo attivo di Osama bin Laden in questa nazione e per stabilire un impercettibile legame tra la guerra sud-asiatica in Afghanistan e Pakistan e l'intervento armato saudita e statunitense nel conflitto civile in Yemen.
Nel 2002, il Pentagono inviò circa 100 soldati (secondo alcune informazioni si trattava di forze speciali dei Berretti Verdi) nello Yemen per addestrare i militari del paese. In quel caso, per essere accaduto due anni dopo l'attentato suicida contro il cacciatorpediniere americano USS Cole nel porto meridionale yemenita di Aden, attribuito ad al Qaeda e seguito dagli attacchi con i droni contro i suoi dirigenti, Washington giustificò le sue azioni come una rappresaglia per quell'incidente, come accadde per gli attacchi nelle città di New York e Washington D.C. dell'anno precedente.
Il contesto attuale è differente e una guerra contro-insurrezionale in Yemen supportata dagli USA non avrà niente a che spartire con la lotta alle supposte minacce di al-Qaeda, bensì farà parte in realtà della strategia per espandere la guerra afgana sempre di più, lungo ampi cerchi concentrici includendo l'Asia centrale e meridionale, il Caucaso e il Golfo Persico, il Sud-est Asiatico e il Golfo di Aden, il Corno d'Africa e Arabia. L’uscita ansiosamente attesa del presidente George W. Bush potrà avere condotto alla fine della guerra globale ufficiale contro il terrore, a cui ora ci si riferisce come a operazioni dei contingenti oltremare, ma nulla è cambiato eccetto il nome.
Il 13 dicembre il più alto comandante in carica del Comando centrale del Pentagono per le guerre in Afghanistan, Iraq e Pakistan, il generale David Petraeus, dichiarava alla rete televisiva Al Arabya che "gli Stati Uniti collocano la sicurezza dello Yemen nel contesto della cooperazione militare somministrata dagli USA ai loro alleati nella regione" e sottolineava che "le navi statunitensi nelle acque territoriali dello Yemen [stanno lì] non solo per controllare bensì per ostacolare il traffico di armi verso i ribelli houthi" [4]. Bisognerà rammentarlo la prossima volta che si utilizza la bugia al-Qaeda/bin Laden per giustificare l'espansione della presenza militare statunitense in Arabia.
Lo Yemen Post del 13 dicembre scriveva che l'ufficio stampa Houthi "accusa gli USA di partecipazione nella guerra contro gli Houthi " e pubblicava le fotografie di quelli che erano identificati come aerei statunitensi "impegnati in operazioni di bombardamento nella provincia Sa'ada nel nord dello Yemen". La fonte stimava in 20 il numero di bombardamenti statunitensi coordinati via satellite [5].
La stampa occidentale si posiziona ancora una volta in prima linea nel collegare gli Houthi, il cui ambiente religioso di sciismo zaydi è abbastanza diverso dalla versione iraniana, alle sinistre macchinazioni di cui viene incolpata Teheran. Né i funzionari del governo USA hanno preteso fino ad oggi che ci sia certezza che l'Iran appoggi, e meno ancora che armi, i ribelli yemeniti. Questo cambierà se il copione si svilupperà come i precedenti, come indicato dal summenzionato commento di Petraeus, e Washington si fa eco dell'affermazione del governo yemenita secondo cui l'Iran sta armando i sui fratelli shiiti in Yemen, come lo accusano di fare in Libano.
Lo Yemen si trasformerà nel campo di battaglia di una guerra su mandato tra USA e Arabia Saudita da un lato - le cui relazioni di Stato sono fra le più forti e durevoli in tutta l'epoca successiva alla Seconda guerra Mondiale - e l’Iran dall'altro.
In un editoriale di cinque giorni fa, il Tehran Times accusava di imprudenza tutte le parti del conflitto yemenita - il governo, i ribelli e l’Arabia Saudita - e avvertiva: "La storia ci fornisce un buon esempio. L'Arabia Saudita finanziò i gruppi estremisti in Afghanistan ed ancora, venti anni dopo la ritirata dell'esercito sovietico dal paese, le fiamme della guerra in Afghanistan stanno logorando gli alleati dell'Arabia Saudita. Ed uno scenario simile sta emergendo in Yemen" [6].
Il paragone tra Yemen e Afghanistan alludeva in particolare a Riad, nel secondo caso di lavoro di squadra con gli USA, riguardo l'esportazione del wahabismo saudita con il fine di espandere la sua influenza politica.
L'Arabia Saudita cerca di spingere la sua versione di estremismo in Yemen come precedentemente fece in Afghanistan e Pakistan e come fa attualmente in Iraq. Senza che Stati Uniti e alleati occidentali esprimano alcuna obiezione, i sauditi e le altre monarchie del Golfo saranno un’avanguardia nella spesa in armamenti occidentali che si calcola essere pari a 100.000 milioni di dollari durante i prossimi cinque anni. "Il nucleo di questa orgia di acquisti di armi sarà indubbiamente l’acquisto del pacchetto dei sistemi d’arma statunitensi per 20.000 milioni di dollari in 10 anni per i sei Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar e Bahrain" [7]. L'Arabia Saudita è anche armata con aerei da guerra britannici e francesi di ultima generazione oltre che con i sistemi di difesa missilistica statunitensi.
Quello che il commento iraniano sopra menzionato notava rispetto alle "fiamme" della guerra in Afghanistan è perfettamente confermato dal rapporto sulla valutazione iniziale della situazione (Commander's Initial Assessment) del 30 agosto 2009, presentato dal massimo comandante militare statunitense e della NATO in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, e pubblicato con le modifiche richieste dal Pentagono sul Washington Post del 21 settembre. Il documento di 66 pagine è servito da base per l'annuncio del presidente Barack Obama, l’1 dicembre 2009, dell’invio di più di 33.000 soldati statunitensi in Afghanistan.
Nella sua relazione, McChrystal dichiarava: "I principali gruppi insorti, ordinati in base alla loro minaccia per la missione, sono: Quetta Shura Taliban (QST), l'Haqqani Network (HQN), e Hezb-e Islami Gulbuddin (HiG)".
I due ultimi portano il nome dei loro fondatori ed attuali dirigenti, Jalaluddin Haqqani e Gulbuddin Hekmatyar, i mujaheddin preferiti dalla CIA negli anni ottanta, quando il direttore aggiunto dell'Agenzia dal 1986 al 1989 era Robert Gates, attuale segretario alla Difesa degli Stati Uniti e incaricato di proseguire la guerra in Afghanistan, ed in Yemen.
Nel suo libro del 1996, From the Shadows, si vantò del fatto che "la CIA ebbe importanti successi nelle azioni clandestine. Forse la più importante di tutte fu l'Afghanistan, dove la CIA, con la sua amministrazione, dirottò migliaia di milioni di dollari in forniture e armi ai mujaheddin …" [8].
Il New York Times divulgò nel 2008 i seguenti dettagli:
"Negli anni ottanta, Jalaluddin Haqqani fu fatto crescere dalla CIA come risorsa 'unilaterale' e ricevette decine di migliaia di dollari in contanti per il suo lavoro nella lotta contro l'esercito sovietico in Afghanistan, secondo quanto contenuto in 'The Bin Ladens', il recente libro di Steve Coll. In quei giorni, Haqqani aiutò e protesse Osama bin Laden, il quale stava formando la propria milizia per combattere le forze sovietiche, scrive Coll" [9]. Coll è anche l'autore del libro del 2001 Ghost Wars: The Secret History of the CIA, Afghanistan, and Bin Laden, from the Soviet Invasion to September 10, 2001. [Le guerre fantasma: la storia segreta della CIA, Afghanistan e Bin Laden, dall’invasione sovietica al 10 settembre 2001].
Il collega di Haqqani, Hekmatyar, "incassò milioni di dollari dalla CIA attraverso l'ISI [Servizi segreti del Pakistan]. Hezb-e-Islami Gulbuddin ottenne in parte sostegno dal Pakistan e dall’Arabia Saudita e lavorò con migliaia di mujaheddin stranieri che andarono in Afghanistan" [10].
Nel maggio scorso, il presidente (sommamente) filo-statunitense del Pakistan, Asif Ali Zardari, dichiarò alla catena statunitense NBC news che i talebani fanno "parte del nostro e del vostro passato, e l'ISI e la CIA li crearono insieme… (i talebani) sono (un) mostro creato da noi tutti …" [11].
L’11 settembre 2001, c’erano solo tre nazioni al mondo che riconoscevano il regime talebano in Afghanistan: il Pakistan, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Per possibili rappresaglie, il presidente USA, George W. Bush, individuò immediatamente sette Stati che si supponeva appoggiassero il terrorismo: Cuba, Iran, Iraq, Libia, Corea del Nord, Sudan e Siria. Solo il Sudan, che espulse Osama bin Laden nel 1996, aveva qualche connessione plausibile con al-Qaeda. Dei diciannove accusati per il sequestro degli aerei dell’11 settembre, quindici provenivano dall'Arabia Saudita, due dagli Emirati Arabi Uniti, uno dall'Egitto e uno dal Libano.
Pakistan e Arabia Saudita continuano a essere alleati politici e militari assai stimati dagli USA e gli Emirati Arabi Uniti hanno truppe che servono sotto comando NATO in Afghanistan.
Forse è impossibile determinare il momento esatto nel quale un sedicente guerriero santo appoggiato dagli USA - addestrato a compiere atti di terrorismo urbano ed abbattere aerei commerciali - smette di essere un combattente per la libertà e si trasforma in terrorista. Ma una ipotesi certa è che ciò succede quando ormai non è più utile a Washington. Un terrorista che serve gli interessi degli USA è un combattente per la libertà; un combattente per la libertà che non gli serve è un terrorista.
Per decenni l’African National Congress di Nelson Mandela e l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina sono stati in cima alla lista dei gruppi terroristici del Dipartimento di Stato USA. Appena finì la Guerra fredda, Mandela e Arafat (e Gerry Adams dello Sinn Fein), furono invitati alla Casa Bianca. Il primo condivise il Premio Nobel della Pace nel 1993 e il secondo nel 1994.
Se un ipotetico sedicente jihadista partiva dall'Arabia Saudita o dall’Egitto negli anni ottanta verso il Pakistan, per lottare contro il governo afgano e il suo alleato sovietico, era agli occhi degli USA un combattente per la libertà. Se dopo andava in Libano era un terrorista. All'inizio degli anni novanta, se giungeva in Bosnia tornava ad essere un combattente per la libertà, ma se si presentava nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania era un terrorista. Nel nord del Caucaso russo rinasceva come combattente per la libertà, ma se si volgeva in direzione dell’Afghanistan dopo il 2001 era un terrorista.
Secondo come soffia il vento a Washington, un separatista armato baluchi in Pakistan o uno kashmiri in India sono combattenti per la libertà o terroristi.
Al contrario, nel 1998 l'inviato speciale USA nei Balcani, Robert Gelbard, descrisse l'Esercito per la Liberazione di Kosovo (UCK) che lottava contro il governo della Yugoslavia come un’organizzazione terroristica: "Riconosco un terrorista quando lo vedo e questi uomini sono terroristi" [12].
Nel successivo mese di febbraio la Segretaria di Stato USA, Madeleine Albright, portò cinque membri dell'UCK, compreso il suo capo Hashim Thaci, a Rambouillet in Francia per presentare un ultimatum alla Yugoslavia già sapendo che sarebbe respinto e che avrebbe portato alla guerra. L'anno seguente accompagnò Thaci in un tour personale dell'edificio delle Nazioni Unite e del Dipartimento di Stato e lo invitò alla convention presidenziale del Partito Democratico a Los Angeles. Il primo novembre di quest’anno, Thaci, ora primo ministro di un pseudo-stato riconosciuto da solo 63 delle 192 nazioni del mondo, ha ricevuto l'ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, per la cerimonia inaugurale di una statua in onore dei suoi crimini e della sua vanità.
Washington ha appoggiato i separatisti armati in Eritrea dalla metà degli anni settanta fino al 1991 nella loro guerra contro il governo etiope. Attualmente gli Stati Uniti armano la Somalia e Gibuti per la guerra contro l'Eritrea indipendente. Il Pentagono ha a Gibuti la sua prima base militare permanente in Africa, dove stazionano 2.000 soldati e da dove vigila per mezzo dei droni sopra la Somalia e lo Yemen.
Usando le parole del personaggio di Balzac, Vautrin: «Non ci sono principi, ci sono soltanto accadimenti; non ci sono leggi, ci sono soltanto circostanze».
Note
1) BBC News, 14/12/09
2) Press TV, 14/12/09
3) Daily Telegraph, 13/12/09
4) Yemen Post, 13/12/09
5) Ibid
6) Tehran Times, 10/12/09
7) United Press International, 25/08/09
8) BBC News, 01/12/09
9) New York Times, 09/09/08
10) Wikipedia
11) Press Trust of India, 11/05/09
12) BBC News, 28/06/98
Stop NATO - http://groups.yahoo.com/group/stopnato
Blog - http://rickrozoff.wordpress.com/