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- osservatorio - della guerra - 20-02-10 - n. 307
Stati Uniti all’attacco in mezzo mondo, dalla Russia alla Cina: cronache di fine impero!
di Marco Zoboli, Resp. Asia PdCI
Come un vecchio cane ammalato, rabbioso, che col procedere del deperimento del proprio corpo concentra le proprie energie e i propri sforzi nel digrignare i denti, sferrare zampate a destra e a manca… Questa è la metafora più consona alla potenza nordamericana il cui declino è dato, somatizzato da buona parte del mondo reale, ma non da se stessa e dai suoi lacchè; ogni azione che producono nel contrastare il proprio declino non fa che peggiorare e accelerare l’avvento della nuova fase geopolitica che nasce all’insegna di equilibri multipolari oggi in gestazione, la Nato non assomiglia a una Santa Alleanza ma a un’Inquisizione senza prospettiva di medio corso.
Pochi giorni or sono a Washington è stato approvato un bilancio record di 708 miliardi di dollari per la difesa relativo all’anno fiscale 2011; negli stessi giorni il governo Obama ha ammesso di non poter dar luogo alla riforma sanitaria nel senso universale del termine, come aveva promesso nella sua campagna elettorale del 2006, per mancanza di fondi e per mancanza della volontà politica di reperirli laddove questi potevano essere carpiti senza danneggiare l’ormai inesistente stato sociale.
Robert Gates, segretario alla Difesa, repubblicano, nell’illustrare il bilancio preventivo del Pentagono, ha rimarcato in chiaro e senza mezzi termini che le minacce oggi vanno intese su scala globale e all’indirizzo delle potenze emergenti asiatiche, con tanto di citazione di Cina e India (Russia era sottointesa ma l’hanno letta tutti), assieme alla lotta al terrorismo e all’azione contro insurrezionale, “casus belli”, questi ultimi che si adattano agli angoli strategici d’intervento ai limes dell’impero, in ogni stagione. Ce n’è anche per l’America Latina: quando si parla di “…è obiettivo strategico lavorare per un emisfero occidentale sicuro e democratico nello sviluppare relazioni di difesa regionali che affrontino minacce domestiche e internazionali come organizzazioni narcoterroriste, traffici illeciti e disturbi sociali”… è chiaro che la politica imperiale rimbomba a chiare lettere e in sintonia con le recenti mosse del Pentagono nell’implementazione di nuove sette basi militari in Colombia, il ripristino della 4° flotta nella circumnavigazione dei propri interessi economici, e nella militarizzazione di Haiti in un’operazione che passerà alla storia come la madre di tutti gli sciacallaggi.
La strategia del Pentagono, nei suoi sogni per noi irreali e antistorici, è quello di condurre entro l’anno operazioni di pressione esterna /interna contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela in grado determinarne la caduta, e ripristinare la vecchia dottrina Monroe con i paesi residui della primavera latinoamericana; riservando al Brasile il ruolo più accettabile e privilegiato di capobranco in virtù della sua potenza economica e militare; da “sognatori” quali siamo, noi riteniamo che il processo d’integrazione regionale latinoamericano è irreversibile, perché sebbene diretto da forze socialiste il cui cammino ci entusiasma, è un percorso figlio del procedere dell’attuale crisi sistemica, che avverrebbe comunque anche sotto una direzione reazionaria, ovviamente non parlerebbe di socialismo ma di nazionalismo, non guarderebbe al superamento dell’attuale sistema economico ma cercherebbe di guadagnare spazi di egemonia…
Ma se l’imperialismo statunitense non fosse autistico, non sarebbe tale. Diversamente non si comprenderebbe come nel pieno della campagna bellica in Afghanistan/Pakistan, che determinerà oltre agli equilibri geopolitici del grande gioco eurasiatico e la messa in discussione negli assetti interni allo stesso Patto Atlantico se non la sua esistenza, in caso di sconfitta; si possa aprire un fronte di scontro con la seconda economia del pianeta. Le azioni / provocazioni statunitensi verso la Cina inerenti alle forniture militari a Taiwan, attacchi su violazioni di diritti civili e di libertà e infine l’incontro programmato tra il presidente Obama e il Dalai Lama, rappresentano azioni e affronti che vanno oltre ciò che Pechino può tollerare; forse non arriveranno le sanzioni economiche ventilate dalla Cina, la Cina è una potenza che si muove con lucidità e pragmatismo, forse non darà seguito alle minacce di ritorsioni se non sono funzionali alla propria strategia, ma certo è che i rapporti bilaterali non saranno più quelli di pace disarmata di pochi mesi or sono. Lo scontro è stato acceso, e le ripercussioni in campo economico non si faranno attendere. Forse a fare scatenare la miccia è stata la diversificazione degli investimenti cinesi, che hanno smesso di orientarsi prevalentemente nell’acquisto dei buoni del tesoro statunitensi, e che si dirigono oggi su oro e investimenti in aree divenute strategiche per approvvigionamento energetico e di materie prime.
Nei prossimi mesi vedremo fin dove sono disposti a spingersi gli Stati Uniti nel confronto asiatico in relazione anche alla possibilità di un’estensione all’Iran del conflitto per mano dell’asse Israelo- Statunitense. Possibilità quest’ultima, che sebbene risulti irrazionale sulla carta, potrebbe avverarsi alla luce della completa irrazionalità di un cane ammalato e rabbioso che digrigna e morde… anche la propria coda.
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