www.resistenze.org - osservatorio - economia - 24-09-09 - n. 288

I lasciti della crisi “finita”: il protezionismo
 
di Domenico Moro
 
La crisi sarebbe finita non solo a sentire “l’uomo del fare”, il premier Silvio Berlusconi, ma anche secondo il capo della banca centrale Usa, Bernanke. C’è da credergli, visto che è tra quelli che la crisi non l’avevano prevista neanche lontanamente. Certo, che la crisi sia finita dipende dai punti di vista. C’è quello della grandi banche che, grazie alla massa enorme di liquidità immessa dai governi, nel primo trimestre dell’anno hanno ottenuto notevoli utili, dei quali il 59% proviene dalla “solita” speculazione. E c’è quello dei disoccupati, le cui fila si stanno allungando in tutti i Paesi, e che solo in Italia nell’ultimo anno sono cresciuti di almeno 700mila unità.
 
C’è, poi, un fenomeno che la dice lunga sul fatto che la crisi non è affatto passata e che anzi ha determinato effetti che possono aggravarla. Si tratta del protezionismo, che si è riaffacciato alla ribalta dell’economia, mettendo a rischio il funzionamento del mercato mondiale e preparando il terreno per potenziali guerre commerciali. Del resto, anche a seguito del crollo di Wall Street nel ‘29, spesso citato come il precedente storico più simile alla crisi attuale, ci fu un generalizzato ricorso al protezionismo, che provocò il ristagno del commercio mondiale, aggravando la sovrapproduzione di capitale e di merci.
 
Oggi, i maggiori Paesi industrializzati, nonostante le belle parole dette al recente G20 sulla necessità di mantenere aperti i mercati mondiali, agiscono ognuno per conto proprio, arroccandosi a difesa della propria industria. A tenere banco sulle pagine dei giornali è la guerra commerciale in procinto di scoppiare tra Usa e Cina, a seguito dell’annuncio del presidente Obama di voler aumentare del 30% i dazi sull’importazione degli pneumatici prodotti in Cina, che per ritorsione ha minacciato di elevare le tariffe sulle importazioni statunitensi di pollo e componenti per auto. Per ora si tratta di misure che, se attuate, non avranno un impatto pesantissimo. Ma è la tendenza in atto a livello mondiale a preoccupare.
 
Secondo Global Trade Alert (GTA) i governi mondiali hanno pianificato 130 misure classificabili come protezionistiche (aiuti di Stato, innalzamenti delle barriere tariffarie, restrizioni all’immigrazione, sussidi all’export), in quanto falsano il funzionamento del mercato e la libera concorrenza. Soltanto tra luglio e settembre GTA ha contato 95 nuove misure protezionistiche. La Russia ha pianificato incrementi delle tariffe doganali, il Sud Africa sta cambiando le regole d’acquisto governative per favorire le aziende domestiche, mentre il Giappone sta riscrivendo le regole sanitarie in modo da restringere l’import. Le leggi protezionistiche approvate sorpassano di molte lunghezze quelle liberalizzatrici.
 
Sempre secondo GTA, sono gravati da misure protezionistiche più del 90% dei prodotti mondiali, soprattutto quelli delle industrie più in difficoltà come l’auto. I paesi maggiormente colpiti dal protezionismo sono la Cina, nel mirino di ben 55 Paesi, gli Usa (49), il Giappone (46), la Germania e la Francia (29). Tutto questo in quadro in cui si prevede che il commercio mondiale cali del 10% nel 2009. Con la diffusione del protezionismo risalta tutta l’inadeguatezza del mercato mondiale capitalistico, fondato sull’anarchia della concorrenza tra imprese e nazioni, e caratterizzato dall’impossibilità strutturale ad attuare qualunque forma di pianificazione e coordinamento.
 
Dietro il protezionismo, infatti, ci sono gli stessi squilibri che hanno fatto da detonatore alla crisi. Come accaduto durante i due mandati di Bush, l’enorme immissione di liquidità da parte dell’amministrazione Obama ha finito per favorire le importazioni, che hanno fatto salire a luglio il deficit commerciale del 16%, l’incremento più forte da dieci anni a questa parte. Nello stesso tempo il costo del denaro a quota zero, aggiungendosi alla liquidità immessa nei mercati finanziari, ha ridotto il dollaro ai minimi in un anno nei confronti dell’euro, rendendo più difficile attrarre finanziamenti dall’estero per alimentare i due debiti gemelli, commerciale e dello Stato federale. Anzi, gli Usa da quattro mesi consecutivi stanno affrontando un deflusso netto dei finanziamenti (a luglio sono usciti 97,5 miliardi contro i 56,8 di giugno). Inoltre, la Cina, il primo finanziatore degli Usa, a fronte delle continue flessioni del dollaro negli ultimi mesi ha dato l’impressione di voler diversificare le sue riserve, riducendo la quota di acquisti di Treasury bond, oltre a prospettare insieme con Russia e Brasile una alternativa al dollaro come moneta di riserva mondiale.
 
Dunque, le minacce protezionistiche possono essere lette, più che come un tentativo di bloccare la crescita del debito commerciale con l’estero, soprattutto come un avvertimento minaccioso degli Usa al patner-concorrente, che si trova nella necessità di mantenere un alto volume dell’export. Quello tra i due giganti economici è un abbraccio fatale, difficile da sciogliere ma anche difficile da mantenere nei termini attuali, come gli Usa si ostinano a voler fare. Intanto, è significativa la notizia che alcune imprese italiane stiano realizzando con i cinesi contratti in euro anziché in dollari, per evitare di essere penalizzate dal continuo deprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro.
 
La crisi, purtroppo, è tutt’altro che finita, anche perché le misure messe in atto dai governi, in primis quello degli Usa, non solo non risolvono le contraddizioni e gli squilibri di fondo dell’economia mondiale ma, al contrario, li aggravano.