www.resistenze.org - osservatorio - economia - 29-09-09 - n. 288

Tassi USA ancora giù: Collasso valutario?
 
di Domenico Moro
 
Lo scorso martedì l’euro ha raggiunto quota 1,48 sul dollaro, il suo massimo dal 23 settembre 2008. Il giorno dopo, inoltre, la Banca Centrale Usa (Fed), ha confermato i tassi d’interesse (il costo del denaro) al bassissimo livello dello 0-0,25%, aggiungendo di voler continuare in questo senso ancora per molto tempo. Si tratta di un segnale chiaro: la crisi è tutt’altro che risolta. Del resto, lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha valutato che ci vorranno almeno sette anni per tornare al livello precedente alla crisi.
 
La Fed mantiene i tassi d’interesse a questo livello dal primo dicembre 2008, dopo averli diminuiti progressivamente dal 3,5% del gennaio dello stesso anno. Il crollo del dollaro è connesso ai bassi tassi d’interesse, che a loro volta sono legati all’enorme espansione fiscale Usa, cioè all’enorme immissione di liquidità da parte dello Stato e della Fed, in uno sforzo per mantenere in piedi il sistema finanziario.
 
La situazione, però, è arrivata a livelli di guardia, il valore dei titoli del debito pubblico superano gli 11,8 trilioni di dollari mentre il deficit ha superato l’11% del Pil. Intanto, le agenzie federali preposte a tamponare la crisi si trovano in difficoltà. Ad esempio, la Federal Depot Insurance Corporation (Fdic) non ha più fondi. Quest’agenzia, creata nel 1933 per garantire il sostegno alle banche colpite dalla Grande depressione, si è dissanguata per soccorrere le 94 banche fallite da quando la “crisi dei mutui” è scoppiata e per impedire che altre decine ne seguissero la sorte. Dei 45,2 miliardi di dollari messi a sua disposizione dal governo ne rimangono appena 10. Ora sembra che la Fdic pensi addirittura a ricorrere a prestiti delle banche “sane”, piuttosto che chiedere contributi obbligatori alle banche stesse o altri finanziamenti straordinari al Tesoro.
 
Dietro tale ipotesi ci sono le banche e i loro lobbisti a Washington, che evidentemente sperano, come in una specie di partita di giro, di guadagnare prestando al governo ciò che questo gli ha elargito. Dall’altro lato, c’è anche l’intenzione di ridurre lo stimolo economico governativo, allo scopo di allentare la pressione ribassista sul dollaro. Secondo molti il dollaro dovrebbe sfondare quota 1,50 rispetto all’euro e se questo non è ancora accaduto è solo perché la Banca Centrale Europea resiste con le unghie e con i denti, per non penalizzare le esportazioni di Eurolandia.
 
In ogni caso, la spinta sembra andare in quella direzione. Le materie prime quotate in dollari hanno ricominciato a salire vertiginosamente. Il petrolio ha toccato i 70 dollari al barile. L’oro in pochi giorni è passato dai 40 dollari l’oncia a quasi 1000 dollari. In quest’ultimo caso si può dire che l’innalzamento è collegato alla svalutazione del dollaro anche per un’altra via, cioè per il fatto che l’oro, di fronte alla perdurante crisi, è sempre più considerato un rifugio alternativo al dollaro indebolito. Nell’ultimo anno, inoltre, il dollaro ha subito il contraccolpo negativo dell’inversione dei flussi finanziari a livello mondiale, che era stato innescato dall’indebolimento dell’economia Usa.
 
Prima della crisi i flussi finanziari mondiali convergevano verso gli Usa dalle aree con un surplus nella bilancia dei pagamenti, principalmente dal Giappone e dall’area Euro, attraverso il Regno Unito. Nei mesi seguenti alla crisi si è registrata una inversione dei flussi dagli Usa verso Eurolandia, malgrado il Giappone mantenesse la direzione dei suoi flussi finanziari verso gli Usa a causa dell’indebolimento della sua valuta. Oggi, però, si prevede che il nuovo governo giapponese, meno subalterno agli Usa, preferisca rafforzare la propria valuta, per finanziare il proprio debito pubblico, piuttosto che pensare a difendere le esportazioni.
 
Inoltre, l’andamento più confortante dell’economia di alcuni importanti paesi in via di sviluppo, principalmente quelli del Bric, ha rafforzato l’euro, che all’inizio della crisi aveva subito pressioni ribassiste, dovute ai timori legati alla forte esposizione delle banche europee in Europa orientale e in Asia, e che è sostenuto dall’enorme surplus commerciale tedesco, secondo solo a quello cinese.
 
Il risultato di questi movimenti è che, come abbiamo già rilevato su queste colonne, negli ultimi mesi si è verificato un deflusso netto di finanziamenti dagli Usa. Sussiste, quindi, la minaccia di un collasso del dollaro, che aggiungendosi al collasso militare paventato dal comandante Usa in Afghanistan, mette il governo statunitense in una situazione a dir poco complicata, anche rispetto al finanziamento del debito che è necessario per sostenere le spese militari.
 
Non è un caso, dunque, che il presidente Obama proprio ieri all’Onu abbia ribadito che “non faremo più da soli”, rivolgendosi implicitamente a quell’Europa di cui Bush pensava di poter fare a meno e i cui soldati e finanziamenti sono invece vitali per gli Usa.