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- osservatorio - economia - 13-01-10 - n. 301
Brutte notizie da oriente per gli USA
di Domenico Moro
L’anno nuovo si è aperto con una brutta notizia per gli Usa. Il nuovo ministro delle finanze giapponese, Naoto Kan, ha annunciato l’intenzione da parte del governo del Giappone di favorire la svalutazione dello yen. La politica monetaria di Kan rappresenta un brusca sterzata non solo rispetto a quella del suo predecessore, Fujii, ma anche rispetto alla politica monetaria seguita dai governi giapponesi da decenni e fondata sul mantenimento di uno yen forte.
Ma perché la svalutazione della valuta nipponica è una brutta notizia per gli Usa? In primo luogo, perché il Giappone è, dopo la Cina, il maggior possessore di titoli di stato Usa e quindi il secondo maggior finanziatore del debito pubblico Usa, recentemente arrivato a eguagliare il livello della Seconda guerra mondiale. Gli Usa nell’ultimo periodo hanno fatto in modo di svalutare la loro valuta, il dollaro, riducendo il valore dei titoli di stato Usa in mano ai Paesi creditori, e scaricando così all’esterno i costi del salvataggio del loro sistema finanziario e industriale in forte recessione.
Sono molti anni che il Giappone svolge il ruolo di donatore di sangue agli Usa, avendo finanziato la superpotenza occidentale nel corso della “guerra fredda”. Gran parte di tale prestito e dei suoi interessi non è stato restituito e il Giappone ha subito gravi perdite proprio a causa della svalutazione operata dalle autorità monetarie Usa successivamente al 1985. Ora, il Giappone, dopo aver pagato l’appoggio agli Usa con una stagnazione durata quindici anni, ha deciso l’abbandono della politica dello yen forte, riducendo di fatto con la svalutazione dello yen gli effetti della svalutazione del dollaro, a cui gli Usa stanno nuovamente facendo ricorso.
Ma la decisione del Giappone risulta ancora più importante se inserita all’interno di quanto più in generale sta avvenendo in Asia. Infatti, se il 2010 si è aperto con una cattiva notizia per gli Usa, il 2009 si è chiuso con due pessime notizie. La prima è che l’Asia Orientale lancerà a marzo un suo Fondo Monetario, che costituirà un fondo di emergenza di 120 miliardi di dollari contro le crisi e a cui aderiscono i Paesi dell’Asean, tra i quali ci sono la Cina, il Giappone, Hong Kong, e la Corea del Sud.
Del resto l’integrazione finanziaria asiatica segue quella commerciale: la Cina nel 2009 ha sostituito gli Usa come terzo partner commerciale dell’Asean, una posizione che gli Usa detenevano da decenni, e mentre nel 2009 sul 2008 l’export cinese verso la Ue e gli Usa è caduto rispettivamente dell’8% e dell’1,7%, quello verso l’Asean è aumentato del 20,8%, e le importazioni sono cresciute addirittura del 45%. Con il suo Fondo, l’Asia Orientale si sgancerebbe, almeno parzialmente, dal Fondo Monetario Internazionale, controllato dagli Usa, dandosi la possibilità di organizzare autonomamente il proprio enorme potere finanziario.
Sul piano economico si tratta di uno smacco per gli Usa, perché la massa finanziaria nelle mani dei Paesi Estremo Orientali, dovuta all’enorme surplus commerciale accumulato, può trovare così altre destinazioni alternative a quella Usa. Del resto, la costituzione del nuovo Fondo monetario asiatico si lega alla precedente proposta del vice governatore della Banca centrale cinese di creare un fondo sovrano internazionale che investa nei Paesi in via di sviluppo e alla proposta dell’ex responsabile dell’ufficio delle imposte cinesi di creare un nuovo Piano Marshall per il finanziamento di progetti in Asia, Africa e America Latina.
Tuttavia, il Fondo asiatico rappresenta un forte smacco anche sul piano geostrategico, perché il controllo dell’Asia da parte degli Usa si è sempre basato sulla divisione (se non sul contrasto) tra i due giganti dell’area, Cina e Giappone, che invece stanno sviluppando un atteggiamento più collaborativo.
La seconda notizia che dovrebbe preoccupare gli Usa riguarda l’inaugurazione dell’oleodotto Espo, che permetterà potenzialmente di dirigere verso la Cina (e l’Estremo Oriente) fino a un terzo dell’attuale export di greggio petrolifero russo, aggirando il controllo da parte della flotta statunitense delle rotte petrolifere tra Golfo Persico e Giappone. L’importanza della nuova via di approvvigionamento sta nel fatto che il controllo delle fonti di energia rappresenta un elemento fondamentale nella strategia Usa in Asia Orientale.
Se questo controllo viene a indebolirsi in concomitanza con una maggiore integrazione asiatica, connessa ad un aumento della sua capacità di direzionare autonomamente il suo surplus, si viene ad approfondire la già evidente difficoltà da parte Usa di svolgere un ruolo dominante sul piano economico, e soprattutto di attrarre il surplus mondiale.
Non è un caso che proprio nelle ultime settimane il presidente Obama abbia rispolverato l’argomento del terrorismo islamico per rinsaldare una opinione pubblica interna sempre più scettica verso la guerra in Afghanistan, la cui importanza sta invece proprio nella posizione strategica occupata al centro dell’Asia, tra Russia, Cina e India. A dimostrazione, casomai ce ne fosse bisogno, che sono le contraddizioni strutturali a fare la politica.
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