www.resistenze.org - osservatorio - economia - 16-06-14 - n. 503

Sulla crisi economica globale

Prabhat Patnaik * | peoplesdemocracy.in - resistir.info
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

08/06/2014

La crisi economica globale è generalmente vista come il seguito del crollo della bolla immobiliare negli Stati Uniti. Quest'idea però è inadeguata. La formazione di quella bolla e il suo collasso sono episodi che si collocano all'interno di una crisi strutturale profonda che affligge il capitalismo contemporaneo, quella relativa al fenomeno della "globalizzazione".

Molti vedono l'attuale globalizzazione non come un fenomeno diverso, bensì come la continuazione del precedente episodio della globalizzazione, che venne interrotto dalle due guerre mondiali, dalla grande depressione e dall'adozione dell'interventismo di Stato del dopoguerra nel complesso dei regimi economici nazionali. Questo punto di vista è però errato. La globalizzazione attuale è un fenomeno sui generis, che rende il capitalismo contemporaneo differente per importanti aspetti da tutto ciò che l'ha preceduto.

Tre caratteristiche di base

Il capitalismo, prima della globalizzazione attuale, si caratterizzava per tre caratteristiche fondamentali. In primo luogo, il lavoro non aveva libera mobilità da "sud" a "nord", anzi ne è ancora privo. Il "lungo XIX secolo", che è durato fino alla Prima guerra mondiale, aveva visto due grandi ondate migratorie in tutto il mondo. C'era una migrazione ad insediamento bianco, dall'Europa verso le regioni temperate come il Canada, gli Stati Uniti, l'Australia e la Nuova Zelanda, dove i migranti occupavano i terreni espropriando gli abitanti originari. Mantenevano il loro tenore di vita, quindi anche il salario reale originario. Quella fu una "migrazione di alti salari, da regione temperata a regione temperata".

Ci fu una seconda ondata migratoria per volere del capitale, che proveniva dai paesi tropicali o subtropicali come l'India e la Cina verso altre regioni tropicali, dove i migranti erano impiegati come coolies o lavoratori a contratto nelle miniere, nelle piantagioni e nei progetti di costruzione. I paesi di provenienza dei migranti avevano sperimentato una sostanziale "deindustrializzazione", nel senso della distruzione della produzione artigianale tradizionale ad opera dell'importazione di manufatti dalle metropoli capitaliste che aveva lasciato un gran numero di persone senza lavoro e intensificato la pressione su una limitata massa di terra. Ciò aveva portato ad uno straordinario calo dei salari reali. Questa seconda ondata fu quindi una "migrazione di bassi salari da regione tropicale a regione tropicale".

Ciascuna di queste ondate coinvolse circa 50 milioni di persone, che però furono tenute rigorosamente separate. Al lavoro tropicale non solo non era permesso di muoversi liberamente in Europa, ma gli era anche impedito di muoversi verso le regioni temperate ad insediamento bianco. Anche quando, negli anni del dopo-Seconda guerra mondiale, il fenomeno migratorio da "sud" a "nord" si affermò su una scala più ampia di prima, la migrazione restava controllata e regolata in conformità alle esigenze del capitale. Non c'era la libera mobilità del lavoro.

La seconda caratteristica del capitalismo pre-globalizzazione era che il capitale non si muoveva liberamente da "nord" a "sud". In questo caso, non esistevano restrizioni giuridiche al suo movimento, tuttavia si mosse solo verso le piantagioni, le miniere, le attività di esportazione e le infrastrutture necessarie per tali attività, come le ferrovie (dove in genere i tassi di rendimento erano garantiti dallo Stato coloniale). Non c'era nessuna migrazione significativa verso la manifattura, nonostante il prevalere di salari reali più bassi nel "sud". Sul perché ci fu una così scarsa migrazione di capitali dal "nord" per costituire unità produttive nel "sud" si è molto discusso. Non è quindi necessario entrare ora in questa discussione, ma ci limitiamo a evidenziare il fatto che il capitale non si mosse liberamente dal "nord" al "sud", pur non essendoci vincoli giuridici che glielo impedissero.

La terza caratteristica era che l'importazione di manufatti prodotti nel "sud" era tassata pesantemente nel nord. A causa di questo, i capitalisti emergenti locali, pur riuscendo a creare unità manifatturiere nel "sud" (nonostante i numerosi ostacoli posti sulla loro strada dai regimi coloniali) si trovavano impossibilitati a penetrare nei mercati del "nord". Nella migliore delle ipotesi, venivano confinati nei loro mercati locali e, anche lì, hanno dovuto affrontare la concorrenza dei manufatti del "nord" senza poter contare su alcuna protezione.

Il risultato netto di queste tre caratteristiche è che l'economia mondiale si è "segmentata" in due parti e i salari reali nella parte del "nord" non hanno subito una contrazione derivante dalle massicce riserve di lavoro dell'altra parte, quella del "sud". Vi era certamente anche un esercito di riserva del lavoro dentro il "nord" (il capitalismo non può funzionare senza un tale esercito di riserva) che conteneva i salari "del nord", ma le sue dimensioni erano relativamente piccole e la sua influenza sul contenimento dei salari "del nord" non era così assoluta da abbassare questi salari al livello di "sussistenza".

In altre parole, il capitalismo mondiale ha avuto due eserciti del lavoro di riserva: uno relativamente piccolo nel "nord" che, pur contenendo i salari, non ne ha impedito la loro ascesa, attraverso l'azione sindacale, con aumenti della produttività del lavoro; c'era poi un enorme esercito di riserva nel "sud" che ha impedito ai salari di lì di elevarsi sopra ad uno scarso livello di sussistenza (e che quindi ha aiutato a raggiungere la stabilità dei prezzi nelle metropoli impedendo qualsiasi pressione autonoma sui costi delle materie prime), ma senza frenare i salari "del nord" proprio a causa di questa segmentazione. Il significato di questa segmentazione dunque fu che, mentre i salari reali nel "nord" crescevano con la produttività del lavoro, i salari reali nel "sud" continuarono a ristagnare ad un livello di stretta sussistenza sotto la pressione delle sue enormi riserve di lavoro.

Inoltre, ha anche contribuito a rafforzare la domanda interna del "nord" globale. L'aumento dei salari reali insieme con la produttività del lavoro ha contribuito a prevenire il sorgere del problema della carenza di domanda. Un aumento dei salari reali insieme con la produttività del lavoro certamente non è né necessario, né una condizione sufficiente per contrastare una possibile carenza di domanda: dopo tutto, anche con una parte costante dei salari o anche con tutti i salari consumati, la carenza di domanda può ancora sorgere a causa di una riduzione della spinta ad investire e, allo stesso modo, le aspettative euforiche dei capitalisti sui potenziali profitti possono spingere gli investimenti fino al punto in cui anche una parte dei salari in calo non provoca una deficienza della domanda aggregata. Ma un aumento dei salari reali aiuta a stimolare la domanda aggregata: mantiene il livello della domanda superiore a quello che si sarebbe avuto per ogni dato livello di investimento.

La globalizzazione attuale ha fatto collassare questa segmentazione dell'economia capitalista mondiale. Anche se il lavoro dal "sud" non è ancora libero di muoversi verso "nord", il capitale dal "nord" si sta ora spostando a "sud", per localizzarvi gli impianti per le esportazioni verso il mercato mondiale complessivo, compresi i mercati del "nord" che ora sono aperti a tali esportazioni dal "sud". Questo tuttavia significa anche che i lavoratori nel "nord" sono ora esposti alle conseguenze funeste delle enormi riserve di lavoro del "sud".

La spada di Damocle

Una conseguenza evidente di questa realtà è stata il calo della forza dei sindacati nei paesi avanzati. L'essenza delle "coalizioni" dei lavoratori nella forma di sindacati, come aveva notato Marx nella Miseria della filosofia, consiste nel ridurre la concorrenza tra lavoratori. La globalizzazione, esponendo i lavoratori dei paesi avanzati alla concorrenza dei lavoratori del "sud", indebolisce nei primi i sindacati. A parte le conseguenze dell'effettiva rilocalizzazione degli impianti dal "nord" al "sud", la stessa minaccia di tale rilocalizzazione pende come una spada di Damocle sui lavoratori del "nord" limitando la forza dei loro sindacati.

La seconda implicazione ad essa correlata è che i salari reali dei lavoratori nei paesi avanzati non possono più crescere con la produttività del lavoro. Sotto la pressione delle imponenti riserve di lavoro del "sud", questi tendono a rimanere stagnanti. Ovviamente, non tendono verso la parità con i salari reali del "sud" (se non altro perché c'è, per motivi politici, una certa irreversibilità temporale sui livelli dei salari reali), ma il vettore dei salari reali mondiali, composto dai salari nel "nord" e nel "sud", tende a rimanere invariato, anche se aumenta la produttività del lavoro nell'economia mondiale. Non è sorprendente che negli Stati Uniti, negli ultimi tre decenni e oltre, i salari reali siano rimasti stagnanti anche in termini assoluti.

La stagnazione nel vettore dei salari reali, anche quando aumenta la produttività del lavoro nell'economia mondiale, implica un aumento della parte di eccedenza. Ciò equivale a un aumento delle disuguaglianze di reddito in tutto il mondo. Le disuguaglianze di reddito mondiale, infatti, continueranno ad aumentare nell'era della globalizzazione, a meno che le riserve mondiali di lavoro vengano progressivamente esaurite. Questo però non sta accadendo e non è nemmeno probabile che avvenga.

L'altra implicazione di questa quota crescente di eccedenza è una tendenza ex ante alla sovrapproduzione a causa della domanda insufficiente, che deriva dal fatto che i lavoratori, rispetto ai capitalisti, destinano una quota maggiore del loro reddito al consumo. Una tale tendenza ex ante non significa necessariamente un effettivo verificarsi ex post di crisi e stagnazione. L'intervento dello Stato nella gestione della domanda può sempre scongiurare una tale tendenza. (Infatti, Baran e Sweezy argomentarono, nel contesto dell'America del dopoguerra, che la spesa militare aveva svolto un ruolo importante nel mantenere alto il livello della domanda aggregata in questa economia, nonostante una tendenza ex ante alla sovrapproduzione derivante da una quota crescente di eccedenza) .

Ma qui veniamo ad un altro aspetto importante della globalizzazione attuale. La globalizzazione del capitale, soprattutto del capitale finanziario, comporta che, in un mondo di Stati-nazione, ogni Stato deve, volente o nolente, perseguire solo quelle politiche che sono richieste dal capitale finanziario, perché altrimenti deve affrontare la prospettiva che il capitale finanziario abbandoni in massa i suoi confini, scatenando una crisi finanziaria sulla sua economia. E il capitale finanziario è invariabilmente un oppositore dell'intervento dello Stato nella gestione della domanda per mantenere il livello di attività nell'economia, un'opposizione che si esprime con la sua insistenza sulla "sana finanza" (la quale sostiene che i governi dovrebbero porre in equilibrio i loro bilanci, o al massimo avere un deficit di bilancio non superiore a una determinata percentuale fissa del Pil).

Dal momento che i governi si trattengono dall'aumentare le imposte in un mondo della finanza globalizzata (visto che questo allontanerebbe il capitale finanziario) e anche dall'aumentare i loro prestiti (a causa della pressione per adottare una "sana finanza", o quella che ora è chiamata "responsabilità fiscale"), essi non possono intervenire direttamente per aumentare la domanda aggregata, quindi non possono compensare la tendenza ex ante alla sovrapproduzione che la de-segmentazione dell'economia mondiale porta con sé.

L'unico antidoto alla stagnazione in queste circostanze, quando non ci sono mercati coloniali "disponibili" e quando l'intervento dello Stato nella gestione della domanda è compromesso dall'opposizione del capitale finanziario globalizzato, è fornito dalla formazione di "bolle". Nel periodo successivo al declino della gestione keynesiana della domanda, infatti, mentre il tasso medio di crescita del mondo capitalista avanzato rallentava, tale crescita, per come si è verificata, fu dovuta alla presenza di una serie di "bolle", in particolare negli Stati Uniti: la "bolla dotcom" seguita dalla "bolla immobiliare".

Da qui la visione che attribuisce l'attuale crisi economica globale al formarsi delle bolle e che sostiene che le misure di regolamentazione per prevenire tali bolle produrrebbero un capitalismo privo di crisi, è completamente fuori luogo. In assenza di tali bolle, il capitalismo contemporaneo sarebbe permanentemente impantanato nella stagnazione e nella disoccupazione di massa. Le bolle forniscono oggi l'unica base per i boom, proprio come il loro collasso provoca le recessioni e le crisi. La situazione del capitalismo contemporaneo nasce dunque non dal fatto che abbia sperimentato le "bolle" insieme al loro inevitabile collasso, circostanze queste entrambe evitabili. Nasce invece dal fatto che tali "bolle" gli sono necessarie per fornire un qualche possibile alleggerimento della stagnazione e della disoccupazione di massa.

La crisi economica globale non consiste quindi nel crollo della bolla, ma nel fatto che il capitalismo è stretto in questa condizione strutturale, nella quale d'ora in poi continuerà a sperimentare una stagnazione prolungata e la disoccupazione di massa, di tanto in tanto alleviate dal palliativo temporaneo offerto da una bolla.

* Prabhat Patnaik è un economista indiano. Vedi wikipedia


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