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La globalizzazione, la sua fine e le sue conseguenze

Greg Godels | zzs-blg.blogspot.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

10/04/2025

Vi sono moltissimi aspetti interessanti nel recente articolo (24-3-2025) pubblicato su Jacobin da Branko Milanović, intitolato What Comes After Globalization? («Che cosa viene dopo la globalizzazione?»).

In primo luogo, Milanović esamina le analogie storiche tra l'espansione dei mercati e del commercio globale nel tardo Ottocento (che definisce Globalizzazione I, datandola tra il 1870 e il 1914) e la globalizzazione dei nostri tempi (che definisce Globalizzazione II, datandola tra il 1989 e il 2020). La ricerca e l'esposizione di modelli storici costituiscono i primi passi dell'indagine scientifica, cioè di quella che i marxisti definiscono analisi storica materialista.

Purtroppo molti autori - anche a sinistra - interpretano la fase più recente, caratterizzata dalla partecipazione di produttori e commercianti globali nuovi o giunti per la prima volta alla ribalta, dalla rivoluzione verificatasi nella logistica, dal successo delle politiche di libero scambio e dal conseguente boom degli scambi internazionali come segnali dell'inizio di una nuova e inedita era capitalista, o perfino di un nuovo stadio evolutivo del capitalismo.

Rilevando il ruolo crescente del commercio nella produzione mondiale, ma scontando al tempo stesso i limiti della loro prospettiva storica (la fine del secondo conflitto mondiale), i teorici di sinistra hanno tratto conclusioni azzardate e ingiustificate riguardo a una nuova fase del capitalismo caratterizzata dal declino del potere dello Stato nazionale, dall'irreversibile predominio del «capitale transnazionale» e perfino dall'avvento di un «impero» senza confini a cui si contrapporrebbe un'amorfa «moltitudine».

Contro queste posizioni, autori quali Linda Weiss (The Myth of the Powerless State, 1998) e Charles Emmerson (1913: In Search of the World Before the Great War, 2013) affrontano la questione con un pizzico di sobrietà in più, rammentandoci come si sia assistito già in passato a una crescita esplosiva del commercio mondiale, determinata da forze storiche in gran parte identiche o simili. Weiss ci ricorda che «l'incidenza delle esportazioni rispetto al PIL era uniformemente più alta nel 1913 che nel 1973». Rilevando gli stessi eventi storici, Emmerson commenta seccamente: «più le cose cambiano, più restano come prima».

Cogliendo questo parallelo tra due momenti storici, Milanović conferisce alla sua analisi una gravitas che manca a molti esponenti della sinistra e a molte sedicenti interpretazioni marxiste del fenomeno della globalizzazione.

In secondo luogo, Milanović - esperto riconosciuto di diseguaglianze economiche comparate - fa un'osservazione importante riguardo l'asimmetria tra le Globalizzazioni I e II. Pur essendo simili sotto molti aspetti, esse differiscono su un punto importante, cruciale: mentre la Globalizzazione I fruttò benefici alle grandi potenze a spese del mondo coloniale, i lavoratori delle ex-colonie hanno di fatto tratto vantaggio dalla Globalizzazione II. Citando Milanović:

La sostituzione della manodopera interna con manodopera straniera a basso costo ha reso molto più ricchi i proprietari di capitali e gli imprenditori del Nord globale. Ha inoltre reso possibile per i lavoratori del Sud globale accedere a posti di lavoro con salari più alti e sottrarsi alla sotto-occupazione cronica... Non sorprende, quindi, che il Nord globale abbia subito una deindustrializzazione, non soltanto in seguito all'automazione e alla crescente importanza dei servizi nella produzione complessiva, ma anche in virtù del fatto che gran parte dell'attività industriale si è spostata in località in cui poteva essere svolta più a buon mercato. Non stupisce che l'Estremo Oriente sia divenuto la nuova fabbrica mondiale.

Pur utilizzando in modo fuorviante l'espressione «coalizione di interessi», Milanović precisa:

Questa particolare coalizione di interessi è stata trascurata nelle riflessioni iniziali sulla globalizzazione. Si riteneva infatti che la globalizzazione sarebbe stata un male per le grandi masse lavoratrici del Sud globale - che sarebbero state sfruttate ancor più che in precedenza. Molti forse sono stati indotti a fare questo errore guardando agli sviluppi della Globalizzazione I, che condusse effettivamente alla deindustrializzazione dell'India e all'impoverimento delle popolazioni della Cina e dell'Africa. A quell'epoca, la Cina finì di fatto sotto il dominio di commercianti stranieri, e in Africa gli agricoltori persero il controllo della terra - che sin da tempi immemorabili coltivavano collettivamente. La perdita del controllo sulla terra li rese ancora più poveri. La prima globalizzazione ebbe dunque effettivamente conseguenze assai negative su gran parte del Sud globale. Ma nella Globalizzazione II le cose sono andate diversamente - salari e occupazione sono stati caratterizzati da un miglioramento in vasti settori del Sud globale.

Milanović coglie un punto importante, pur correndo il rischio di esagerare insistendo nel sostenere che in quanto la Globalizzazione II ha determinato un aumento del PIL per lavoratore, ora i lavoratori starebbero meglio e sarebbero meno sfruttati.

Forse stanno meglio sotto diversi aspetti, ma con ogni probabilità sono anche più sfruttati.

Proprio in quanto non conduce un'analisi di classe rigorosa, Milanović dà per scontato che l'aumento del PIL per lavoratore vada direttamente in tasca al lavoratore. In realtà, gran parte di esso non ci va affatto; se così fosse, il capitale non si sarebbe spostato nel Sud globale. Al contrario, gran parte del PIL pro capite finisce in tasca al capitalista - straniero o locale che sia. Il capitale non si sarebbe certo spostato nelle ex-colonie se così facendo avesse potuto contare su un tasso di sfruttamento inferiore.

Indubbiamente, però, il passaggio alla manifattura nell'ambito della Globalizzazione II - che ha sostituito l'estrazione di materie prime e l'artigianato - ha fruttato ai lavoratori delle ex-colonie una maggiore occupazione, salari più elevati e maggiori opportunità di barattare la loro forza-lavoro con condizioni più vantaggiose - un aspetto riconosciuto da quasi tutti i teorici dello sviluppo, di destra come di sinistra.

I mutamenti strutturali all'interno del capitalismo - la rapidità e la facilità di movimento dei capitali, l'apertura di nuovi mercati caratterizzati da salari più bassi, la rivoluzione verificatasi nei trasporti in termini di mezzi e di costi - hanno determinato lo spostamento della manifattura e dei suoi potenziali benefici per i lavoratori dai Paesi ricchi in Paesi più poveri, causando un inedito livellamento tra i lavoratori del Nord e del Sud.

La negazione o la sottovalutazione di tale realtà ha portato molti esponenti della sinistra - per esempio John Bellamy Foster - a sposare la tesi dell'«aristocrazia operaia» quale motivo per ignorare o ridimensionare il potenziale ruolo militante dei lavoratori dei Paesi capitalisti avanzati. Lenin, tra i più strenui fautori del potenziale rivoluzionario degli operai e dei contadini delle colonie, era duramente critico nei confronti di quegli elementi della classe operaia che traevano un privilegio indiretto dalla ricchezza accumulata mediante lo sfruttamento delle colonie. Questa «aristocrazia operaia» rappresentava un freno ideologico per la politica di classe ai tempi di Lenin (e perfino oggi), ma non giustificava certo la negazione del potenziale rivoluzionario della classe. Indubbiamente, le classi dominanti delle grandi potenze ricorrevano a questo relativo privilegio e a molti altri espedienti per sottoporre i lavoratori interni a uno sfruttamento ancora più pesante, e per scoraggiarne la ribellione.

Bellamy e altri vorrebbero negare il potenziale rivoluzionario dei lavoratori dei Paesi capitalisti avanzati allo scopo di corroborare la tesi secondo cui oggi la contraddizione principale sarebbe quella tra USA, Europa e Giappone da un lato e i Paesi del Sud globale dall'altro. Bellamy riafferma la posizione assunta dal Monthly Review sin dai primi anni Sessanta: «Alcuni teorici marxisti in Occidente assunsero la posizione, enunciata nel modo più chiaro da Sweezy, secondo cui la rivoluzione, e con essa il proletariato rivoluzionario e il corretto punto focale della teoria marxista, si erano spostati nel Terzo Mondo o Sud globale».

Sebbene una certa frustrazione di fronte allo scarso radicalismo della classe operaia (a livello mondiale) sia comprensibile e diffusa, questo elemento non modifica affatto la dinamica del mutamento rivoluzionario - il ruolo decisivo dei lavoratori nel superamento del sistema socio-economico esistente. Né peraltro solleva dall'obbligo di schierarsi con gli operai, i contadini, i disoccupati e i declassati ovunque si trovino - nelle grandi potenze o nelle ex-colonie.

Così come negli anni Sessanta il pessimismo rivoluzionario alimentò il romanticismo della rivoluzione terzomondista tra gli intellettuali occidentali di sinistra, oggi esso costituisce la base di un'altra narrazione romantica - il multipolarismo come ribellione del Sud globale. Come la sua versione dell'epoca della Guerra Fredda, tale concezione ritiene che la contraddizione tra le ex-colonie e le grandi potenze di oggi prevalga sulla contraddizione tra le potenti corporation monopolistiche e il popolo.

È senz'altro vero che gli Stati capitalisti più ricchi e le loro classi dirigenti fanno di tutto per proteggere o ampliare qualunque vantaggio di cui godono rispetto ad altri Stati, ricchi o poveri che siano, ivi compresi i vantaggi economici. Ma per i lavoratori degli Stati ricchi così come di quelli poveri, la questione cruciale non è la sovranità, non è la difesa delle rispettive borghesie o élite nazionali, bensì la fine dello sfruttamento, la lotta contro il capitale.

L'esito della competizione globale tra i Paesi asiatici o sudamericani e i loro rivali occidentali per le quote di mercato o la spartizione del plusvalore non ha alcun rapporto diretto con il benessere dei lavoratori nelle maquilladoras dei vari Stati in competizione. Questa è una realtà che sembra sfuggire a molti accademici occidentali.

In terzo luogo, Milanović coglie con chiarezza la fine della Globalizzazione II, la globalizzazione del nostro tempo:

L'onda internazionale della globalizzazione iniziata oltre trent'anni fa è al termine. Gli ultimi anni sono stati segnati dall'aumento dei dazi imposti dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea, dalla creazione di blocchi commerciali, da forti limitazioni al trasferimento di tecnologie verso la Cina, la Russia, l'Iran e altri Paesi «ostili», dall'uso della coercizione economica, che comprende divieti di importazione e sanzioni finanziarie, da rigide restrizioni imposte all'immigrazione e, infine, da politiche industriali implicitamente basate su sussidi alla produzione interna.

Ancora una volta Milanović centra il bersaglio, pur senza cogliere la logica economica alle origini della Globalizzazione II, le condizioni che ne hanno determinato la fine e le forze che stanno plasmando l'era post-globalizzazione. Per Milanović la fine della globalizzazione è stata determinata da decisioni politiche - non da decisioni politiche imposte agli attori politici, ma semplicemente da preferenze in termini di linea politica: «Trump è quasi perfetto per questo ruolo. Adora il mercantilismo e ravvisa nella politica economica estera un'arma per estorcere concessioni di ogni genere...». In altre parole, le inclinazioni di Trump sarebbero sufficienti a «spiegare» il nuovo regime economico - senza che sia necessario cercare ulteriori spiegazioni.

Ma a mettere fine alla globalizzazione non è stato Trump. È stata la crisi economica del 2007-2009.

La globalizzazione trasse impulso dalla ristrutturazione neoliberale combinata con il massiccio ingresso nel mercato globale di manodopera a basso costo determinato dall'«apertura» della Repubblica Popolare Cinese e dal crollo dell'Europa orientale e dell'URSS. A parità di condizioni, manodopera a costi inferiori significa profitti più alti.

Di fronte alla successiva orgia di sovra-accumulazione e a capitali scatenati che scorrazzavano in lungo e in largo alla ricerca delle opportunità di investimento più inverosimili, era pressoché inevitabile che l'economia finisse per schiantarsi e andare in fumo per effetto di questa speculazione incontrollata.

E quando questo è accaduto, nel 2007-2009, lo schianto si è portato via la crescita degli scambi e ha messo la parola «fine» alla globalizzazione.

Scrivevo nel 2008:

Come nella Grande Depressione, la crisi economica colpisce le diverse economie in modi diversi. Malgrado gli sforzi di integrazione delle economie mondiali, la divisione internazionale del lavoro e i diversi livelli di sviluppo precludono una soluzione unitaria alla crisi economica. I fiacchi tentativi di azione congiunta, le conferenze, i summit e via dicendo non possono funzionare, semplicemente perché ogni nazione ha interessi e problemi diversi - una condizione che il montare di questa crisi non farà che rendere ancor più acuta...

Erano all'opera «forze centrifughe» generate dall'istinto di auto-conservazione, che fecero a pezzi le alleanze, i blocchi, le istituzioni comuni esistenti e ogni possibilità di soluzione comune. A lubrificare gli ingranaggi del commercio mondiale erano gli accordi commerciali, le organizzazioni internazionali, i sistemi normativi e la fiducia; la sfiducia, la competizione e la determinazione a scaricare i problemi economici sulle spalle altrui costituivano sabbia destinata a far inceppare quegli stessi ingranaggi.

Guardando in prospettiva al periodo successivo alla fine della globalizzazione, nell'aprile 2009 scrivevo:

Semplificando molto, un ordine capitalista in buona salute e in espansione tende a promuovere periodi di cooperazione globale sostenuta da una potenza egemone e da un'espansione degli scambi, mentre un ordine capitalista ferito e in declino tende all'autarchia e al nazionalismo economico. La Grande Depressione ha offerto un chiaro esempio di intensificazione del nazionalismo e ripiegamento in se stessi sul piano economico.

La situazione all'indomani della Grande Recessione del 2007-2009 forniva appunto un esempio di «ordine capitalista ferito e in declino». A cui prevedibilmente hanno fatto seguito l'autarchia e il nazionalismo economico.

Tale tendenza è stata intensificata dalla crisi del debito europea, che ha insinuato un cuneo tra il nord più ricco e il sud più povero dell'Unione Europea. Analogamente, la Brexit ha costituito un esempio della tendenza a «fare da soli», rimpiazzando la cooperazione con la competizione. Le classi dominanti hanno sostituito l'accordo «win-win» con il gioco a somma zero.

Il ritmo e l'intensità del commercio internazionale non si sono mai più ripresi.

Benché Milanović non ne tenga conto, questo ciclo di espansione capitalista e crisi economica seguita dal nazionalismo economico (e spesso dalla guerra) ricorre periodicamente.

Alla fine dell'Ottocento, l'economia mondiale fu segnata da una vasta ristrutturazione del capitalismo, caratterizzata da nuove tecnologie e da un aumento della produttività (e da un corrispondente aumento dei tassi di sfruttamento). Quell'epoca fu inoltre caratterizzata da quella che gli economisti definiscono «una recessione dei prezzi e dell'economia a livello mondiale» protrattasi dal 1873 al 1879 (la «Lunga Depressione»). All'indomani di quella crisi esplosero il protezionismo e le guerre commerciali - ogni Paese tentava di smerciare in altri Paesi i suoi prodotti più a buon mercato, scontrandosi tuttavia con la barriera dei dazi.

La «corsa all'Africa» dell'imperialismo - descritta in modo tanto incisivo da John Hobson e da V. I. Lenin - intensificò la competizione e la rivalità a livello internazionale, creando nel contempo le basi per la crescita economica e per il commercio globale con le colonie di nuova acquisizione. È il periodo che Milanović definisce «Globalizzazione I». Un ulteriore aspetto che stimolò la ripresa della crescita e del commercio fu costituito dai massicci programmi di armamento avviati dalle grandi potenze. Questa corsa agli armamenti senza precedenti - la «corsa alle corazzate» - fece da motore per la crescita, e al tempo stesso fece aumentare in modo esponenziale il rischio di guerre (tra il 1880 e il 1914 le spese per gli armamenti aumentarono di sei volte in Germania, di tre volte in Russia e in Gran Bretagna e di due volte in Francia; fonte: Eddie Glackin, The Bloody Trail of Imperialism, 2015).

Analogamente, si può sostenere che gli anni Trenta furono un periodo di depressione e nazionalismo economico, che fece seguito a una vasta e vivace espansione economica. E come durante la Globalizzazione I precedente la Grande Guerra, le contraddizioni furono risolte con un conflitto mondiale.

È la guerra il nostro destino dopo la fine della Globalizzazione II? 

Indubbiamente, i paralleli storici ricordati sopra suggeriscono che spesso le guerre fanno seguito a crisi economiche pronunciate e alla conseguente ascesa del nazionalismo economico - sebbene sia opportuno ricordare che gli eventi non seguono meccanicamente schemi predeterminati.

Ma se la storia è maestra di vita, si direbbe davvero che le crescenti contraddizioni del capitalismo attuale stiano contribuendo a intensificare le rivalità e i conflitti. Sul Wall Street Journal del 24 marzo, un titolo strilla: In tutto il mondo esplode la guerra commerciale con una rapidità mai vista da decenni!

L'articolo ricorda come il famigerato Smoot-Hawley Act del 1930 - un provvedimento relativo ai dazi introdotto come reazione alla Grande Depressione - fu abrogato soltanto dopo la guerra.

L'articolo osserva inoltre - correttamente - che i dazi non sono soltanto un'iniziativa di Trump. Al 1° marzo, il G20 aveva imposto oltre 4500 restrizioni alle importazioni - un aumento pari al 75% rispetto al 2016 e al decuplo rispetto al 2008.

Il WTO, l'Organizzazione Mondiale del Commercio che presiedette alla Globalizzazione II, è venuto meno al suo compito. Riferisce il Wall Street Journal:

In febbraio, la Corea del Sud e il Vietnam hanno imposto nuove dure restrizioni alle importazioni di acciaio cinese, in seguito alle lamentele dei produttori locali per l'assalto della concorrenza a prezzi stracciati. Analogamente, il Messico ha avviato un programma anti-dumping per i prodotti chimici e i laminati plastici cinesi, mentre l'Indonesia sta preparando nuovi dazi sul nylon da imballaggio importato dalla Cina e da altri Paesi.

Perfino la Russia colpita dalle sanzioni sta cercando di limitare l'ingresso di auto cinesi, a dispetto delle ottime relazioni tra il presidente russo Vladimir Putin e il leader cinese Xi Jinping. Nelle ultime settimane la Russia ha aumentato la tassazione sulla rottamazione dei veicoli di importazione, facendone di fatto lievitare i costi. Oltre metà dei veicoli venduti recentemente in Russia sono di produzione cinese - prima dell'invasione dell'Ucraina nel 2022 erano meno del 10%.

Con l'aumentare della tensione sul fronte commerciale, anche il riarmo e le tensioni politiche stanno crescendo. I discorsi bellicosi montano e i mezzi di distruzione diventano sempre più efficaci e numerosi. Gli Stati Uniti da soli esportano il 43% degli armamenti mondiali - nel 2020 ne esportavano il 35%. La Francia è oggi il secondo esportatore di armi a livello globale, dopo aver superato la Russia. E in poco più di un decennio, il valore delle armi importate dalla NATO è più che raddoppiato.

Le spese dell'Europa per la difesa stanno aumentando con una rapidità mai vista dopo la Guerra Fredda - in alcuni casi dopo la seconda guerra mondiale. Secondo la BBC, «Il 4 marzo la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen ha annunciato piani per un fondo per la difesa da 800 miliardi di euro denominato "ReArm Europe Fund"». La Germania ha eliminato dal suo bilancio ogni restrizione alle spese militari. Analogamente, la Gran Bretagna progetta di elevare la spesa militare sino al 2,5% del PIL nei prossimi due anni, mentre nello stesso periodo la Danimarca punta a raggiungere il 3% del PIL (si tratta di aumenti paragonabili a quelli delle grandi potenze prima del primo conflitto mondiale, tranne che nel caso della Germania).

Un elemento di rischio è costituito dal fatto che i politici centristi dell'UE stiano cominciando a ravvisare nell'aumento della spesa militare un mezzo per rivitalizzare un'economia in affanno. L'ascesa del keynesismo militare fa aumentare i rischi di una guerra globale, specie alla luce del mutamento delle alleanze nella guerra per procura combattuta in Ucraina.

Ancor più inquietante è che le due potenze nucleari europee - Francia e Gran Bretagna - stiano discutendo seriamente riguardo allo sviluppo di una forza nucleare europea indipendente dal potenziale nucleare NATO, controllato dagli Stati Uniti.

Contemporaneamente, il nuovo segretario degli Stati Maggiori Congiunti degli USA ha annunciato la disponibilità a fornire capacità nucleari a ulteriori potenze NATO.

Con l'intensificarsi degli appelli bellicisti, la Commissione Europea ha raccomandato ai cittadini dell'UE di dotarsi di scorte di emergenza per 72 ore per fare fronte al pericolo incombente di guerra.

È ovvio come l'incessante escalation di dazi, sanzioni e ostilità verbale messa in atto contro la Repubblica Popolare Cinese dagli USA e dai suoi alleati minacci di trasformarsi in un conflitto aperto e in una guerra generalizzata - una guerra per la quale, comprensibilmente, la Cina si sta preparando attivamente.

Come nel caso delle due precedenti guerre mondiali, il punto - in questo momento - non è tanto chi abbia ragione e chi torto, ma quando la spinta verso la guerra diventerà irreversibile. Un'altra guerra imperialista - perché di questo si tratterebbe, fondamentalmente - sarebbe una catastrofe inimmaginabile. Nulla è più vitale per la nostra sopravvivenza che arrestare questa spinta verso una guerra globale.


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