La campagna genocida di Israele ha trasformato le infrastrutture sanitarie nel principale teatro di guerra, rendendo quasi tutti gli ospedali di Gaza inutilizzabili. In una situazione di grave emergenza sanitaria, la sorte delle donne palestinesi incinte e dei loro neonati è appesa a un filo. Contestualizziamo il genocidio in corso come l'espressione culminante della necropolitica sionista, dove il dominio israeliano è legittimato attraverso il dominio della morte. Nonostante queste condizioni strazianti, sottolineiamo il coraggioso lavoro delle ostetriche a Gaza che sostengono la vita palestinese di fronte all'imminente annientamento. Ridefiniamo di conseguenza il lavoro di assistenza al parto come un luogo di prassi politica, che funge da uno dei tanti fronti della resistenza palestinese. Per esplorare queste intersezioni, ripercorriamo le forze storiche e politiche che hanno plasmato il lavoro delle ostetriche palestinesi e ci concentriamo in particolare sull'ostetricia come lente investigativa sui pilastri della resistenza palestinese: sumud, rottura e ritorno.
Sovranità israeliana e diritto di uccidere
La distruzione delle infrastrutture sanitarie precede l'attuale offensiva genocida, come dimostra il continuo attacco ai servizi sanitari a Gaza e in Cisgiordania 1. Inoltre, Israele nega da tempo ai palestinesi l'accesso a servizi di assistenza riproduttiva equi, come dimostrano i casi di donne palestinesi costrette a partorire ai posti di blocco senza poter accedere a cure salvavita 2. A Gaza, dove l'entità sionista controlla le risorse che entrano ed escono dalla Striscia, gli operatori sanitari devono spesso fare i conti con la carenza di farmaci antidolorifici. Ciò significa spesso che le donne palestinesi incinte partoriscono senza anestesia, aggravando ulteriormente le complicazioni durante i cesarei e gli interventi chirurgici addominali. In questo contesto, la trasformazione degli ospedali di Gaza in zone di guerra attive costituisce un pilastro della strategia di occupazione israeliana. Lo conferma il dottor Ghassan Abu Sittah, un chirurgo che ha lavorato per oltre un mese all'ospedale Al-Shifa, il più grande centro medico di Gaza.
Egli ha sottolineato come la distruzione degli ospedali sia una strategia militare deliberata, volta a condannare tutti gli abitanti a una morte agonizzante 3. Questa strategia genocida non ha risparmiato nessuno, poiché le forze di occupazione israeliane prendono di mira intenzionalmente gli ospedali che ospitano reparti neonatali e bambini prematuri 4. Di conseguenza, le condizioni delle donne palestinesi durante il parto non possono essere separate dalla realtà dell'occupazione militare. Questi atti di violenza sionista riflettono il bisogno incessante di mantenere il dominio totale sull'esistenza dei palestinesi.
Come osserva C. Heike Schotten, "la continua esistenza dei popoli indigeni non solo sfida la pretesa di legittimità e di 'primato' della sovranità dei coloni, ma è anche foriera della morte di tale sovranità".5 La sopravvivenza stessa del sionismo è quindi legata al controllo fondamentale della vita palestinese, espresso attraverso il suo sistema di apartheid legale, sociale e politico. Nei suoi 76 anni di vita, tuttavia, l'entità israeliana non è riuscita a spegnere lo spirito di resistenza palestinese, incarnato dalla resilienza di Gaza di fronte a un assedio terrestre, aereo e marittimo che dura da sedici anni. Non riuscendo ad estendere la sovranità sionista sui palestinesi, l'entità soccombe alla propria contraddizione: l'esistenza dei palestinesi nella "terra senza popolo".6
Lo studioso camerunese Achille Mbembe coglie le dinamiche della sovranità statale e della guerra nel suo influente saggio Necropolitics, affermando che "l'espressione ultima della sovranità risiede, in larga misura, nel potere e nella capacità di dettare chi può vivere e chi deve morire. Quindi, uccidere o permettere di vivere costituisce il limite della sovranità".7 Mentre Israele governa tutti i palestinesi dettando le loro condizioni di esistenza attraverso posti di blocco e permessi, Gaza è stata particolarmente soggiogata attraverso il dominio della morte. Anche prima del genocidio, la legittimità di Israele si è espressa attraverso la trasformazione di Gaza in un "mondo della morte", un purgatorio tra la vita e la non esistenza.8 È stato scoperto che i funzionari israeliani limitano le importazioni di cibo per soddisfare il fabbisogno calorico minimo necessario alla sopravvivenza.9 Il genocidio in corso è quindi l'espressione culminante della sovranità israeliana attraverso il "controllo della mortalità" stessa.10
Poiché alle ostetriche palestinesi non resta altra scelta che navigare in questo terreno necropolitico, cosa differenzia la morte dallo stato di vita sospesa? Quando salvare una vita significa tornare nel regno della morte israeliano, come può una nuova vita emergere in un mondo di morti viventi? Nel tentativo di conciliare queste contraddizioni, dobbiamo collocare le ostetriche palestinesi alle frontiere della macchina da guerra sionista.
Il lavoro ostetrico sotto l'occupazione
Per ricontestualizzare il lavoro del far nascere come resistenza, dobbiamo prima svelarne i legami con il dominio coloniale e la disciplina. Lo definiamo come la pratica a sostenere il processo di nascita, dalla pianificazione pre-concepimento, al periodo prenatale, al travaglio e al parto, fino al post-parto. Ciò significa che il lavoro del far nascere non inizia né finisce con la nascita, ma comprende tutte le esperienze coinvolte nella creazione e nella sostenibilità di una nuova vita. Le operatrici del parto comprendono una vasta gamma di professioniste, dalle doule (ndt: https://it.wikipedia.org/wiki/Doula) di supporto emotivo, alle ostetriche e ai medici specializzati in ostetricia e ginecologia. Mentre la medicalizzazione del parto ha standardizzato il lavoro e l'ambito di competenza dei medici, l'ostetricia comprende un approccio assistenziale radicato nei "processi biologici, psicologici, sociali e culturali del parto e della prima infanzia".11 Il ruolo che assume un'ostetrica è influenzato dalla politica e dalla storia locale, dalle esigenze specifiche della popolazione e dalle risorse disponibili.
Poiché le disuguaglianze nell'assistenza riproduttiva riflettono le disparità tra i paesi occidentali e il Sud del mondo, l'assistenza al parto riflette in ultima analisi le forze più ampie del colonialismo e dell'imperialismo. Mentre il modello riproduttivo occidentale dà priorità agli aspetti medici dell'assistenza al parto, le pratiche indigene palestinesi sono profondamente radicate nella lotta politica per la liberazione. Nel ricontestualizzare l'assistenza al parto come luogo di prassi politica, è fondamentale comprendere come le strutture coloniali abbiano plasmato l'assistenza riproduttiva palestinese.
Mandato britannico
Durante il periodo del mandato britannico, le ostetriche tradizionali palestinesi, chiamate dayat, erano fortemente demonizzate, controllate e regolamentate in modo sproporzionato a favore del modello ostetrico occidentale imposto.12 Storicamente, le dayat erano membri e leader molto rispettati nella comunità che fornivano assistenza ginecologica, ostetrica e pediatrica. Inoltre, le dayat spesso davano il nome ai bambini, pianificavano e partecipavano alle cerimonie. In questa prospettiva, le dayat non solo accompagnavano le nuove vite e guidavano le famiglie durante il processo di nascita, ma fungevano anche da custodi culturali tramandando la tradizione. L'ordinanza sulle ostetriche, promulgata dal governo britannico dal 1920 al 1948, "esemplificava le preoccupazioni e i presupposti britannici [...] - in particolare, la disciplina delle classi lavoratrici colonizzate e il fatto che i medici maschi formati in Occidente dovessero supervisionare in ultima istanza la fornitura dell'assistenza sanitaria".13 In questo contesto, le ostetriche britanniche bianche in Palestina fungevano da estensione delle forze di occupazione, applicando l'Ordinanza sulle ostetriche come mezzo per controllare la capacità dei palestinesi di praticare e accedere ai servizi di assistenza riproduttiva.
Di conseguenza, le ostetriche palestinesi erano sottoposte a ispezioni, controlli e persino a procedimenti giudiziari per aver esercitato al di fuori dell'ambito definito dal colonialismo. Queste politiche erano giustificate dal fatto che le ostetriche palestinesi erano considerate "arretrate" e non qualificate, in contrasto con le ostetriche bianche che cercavano di 'civilizzare' i modi "primitivi" delle loro controparti razzializzate e colonizzate. L'ordinanza aveva anche messo le ostetriche palestinesi in una posizione di svantaggio economico, limitando la loro pratica a zone prestabilite al di fuori delle città. Inoltre, il governo del mandato britannico ha collaborato strettamente con le forze sioniste, anche prima della Nakba, dando priorità ai servizi di assistenza riproduttiva per i coloni recenti. Come indicato in una lettera del dipartimento della sanità a Lord Nodel Buxton il 10 dicembre 1930, il governo coloniale aveva designato un Centro di assistenza all'infanzia (IWC) ogni 35.824 palestinesi, contro uno ogni 7.000 abitanti ebrei.14
Seguendo le orme del suo predecessore, il regime di apartheid israeliano ha continuato a esercitare il controllo attraverso la violenza riproduttiva. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite stima che ogni anno 2.500 donne palestinesi incinte abbiano notevoli difficoltà a raggiungere le strutture ostetriche, aumentando il rischio di mortalità materna e infantile.15 I coloni israeliani armati in Cisgiordania limitano ulteriormente la libertà di movimento e l'accesso agli ospedali con totale impunità.16 Queste condizioni disastrose sono create dall'esterno dalle forze di occupazione, che attuano un apartheid medico nei confronti dei palestinesi.
Il lavoro ostetrico sotto il colonialismo di insediamento
L'apartheid medico, come funzione della società coloniale, soggioga le popolazioni native creando disuguaglianze sanitarie attraverso l'apparato statale, compresi i tribunali, le prigioni e altre istituzioni amministrative. Questo non è un fenomeno esclusivo di Israele e può essere osservato anche nel trattamento riservato dal Canada ai propri popoli indigeni. Scrivendo dal cuore dell'impero come studenti e professionisti critici nei confronti del sostegno incondizionato del Canada a Israele, sarebbe negligente non sottolineare le somiglianze tra la violazione della sovranità e il lavoro di assistenza al parto indigeno.
Il sostegno del Canada alla campagna genocida di Israele è coerente con la sua continua violenza contro le popolazioni indigene di Turtle Island. Le pratiche indigene di assistenza al parto sono state sostituite con la forza da un modello medico occidentale a scapito delle madri e dei loro neonati. Ciò ha portato all'evacuazione forzata e sistematica delle donne indigene incinte dalle loro comunità locali e al loro trasferimento nei centri urbani in attesa del travaglio e del parto. Nel 2022, il governo federale ha speso oltre 600 milioni di dollari per finanziare il trasporto medico, comprese le evacuazioni per il parto, nonostante l'evidenza di un peggioramento dei risultati sanitari.17 Secondo le ostetriche e le attiviste indigene, le evacuazioni per il parto hanno un "impatto devastante sia sulla conservazione della cultura che sulla salute delle madri e dei neonati nelle comunità indigene di tutto il Canada".18 Il continuo investimento del governo in questa politica, nonostante i suoi effetti sociali e medici dannosi, sottolinea la continua sottomissione della vita degli indigeni.
La violenza riproduttiva subita sia dagli indigeni di Turtle Islan, che dalle madri palestinesi a Gaza evidenzia la lotta comune per l'autodeterminazione. Poiché gli sgomberi durante il parto hanno reciso le reti di assistenza indigene, le madri palestinesi affrontano il travaglio sotto la costante minaccia dei bombardamenti, tra i resti in decomposizione dei loro cari. Queste condizioni strazianti riflettono la differenza fondamentale tra il lavoro ostetrico inteso semplicemente come pratica clinica e quello inteso come pratica politica, modellato dalle ostetriche palestinesi che affrontano il genocidio in corso sia come fornitrici di assistenza, che come sopravvissute. In definitiva, questa doppia posizione richiede una prassi politica che infonda al lavoro ostetrico palestinese un impegno radicale per la liberazione.
Il lavoro del far nascere come resistenza
Praticare il lavoro del far nascere sotto l'occupazione rivela efficacemente l'ubiquità della violenza coloniale sotto il dominio sionista. Lo scrittore palestinese Fargo Tbakhi descrive questo incontro ricorrente come il "lungo mezzo", ovvero l'infrastruttura microscopica che mantiene la macchina da guerra sionista.19 Essere costrette a partorire ai posti di blocco militari, ad esempio, è emblematico della "temporalità statica della violenza persistente", piuttosto che un singolo episodio di aggressione sionista.20 Questa violenza di routine si manifesta ulteriormente in una guerra psicologica con l'intento di rendere la sottomissione inevitabile e la resistenza futile. Nonostante questa brutalità incessante, i palestinesi hanno mantenuto il sumud, ovvero un impegno incrollabile alla resistenza che si manifesta in varie "forme di cura, tenerezza, violenza, ingegnosità, risorse e sopravvivenza". 21 In questa ottica, comprendiamo la resistenza palestinese come una costante intifada, che perfora il tessuto materiale, temporale e psicologico dell'occupazione.
In questo senso, le ostetriche sono parte integrante di questo quadro rivoluzionario. Ne è un esempio lampante il lavoro di Samah Qeshta, una levatrice di 29 anni di Gaza che ha costantemente rischiato la propria vita al servizio della sua comunità, mentre affrontava il proprio parto e il periodo post-parto.22 Anziché soccombere al senso di disperazione causato dai continui bombardamenti e dall'assedio brutale, Qeshta afferma: "ogni volta che aiuto una donna a partorire, ogni volta che tengo in braccio un neonato, ringrazio Dio. Sono felice che Dio ci abbia offerto una nuova vita, una nuova persona".23
Le forze di occupazione hanno da tempo riconosciuto la capacità rivoluzionaria dell'assistenza al parto, come descrivono le ostetriche palestinesi che raccontano le persecuzioni subite fin dalla prima Intifada.24 Feeza Sharim racconta di essere stata "tenuta sotto tiro dai soldati israeliani, barricata in un ospedale per 48 ore e, a volte, di essere scappata nel cuore della notte nascosta in un veicolo", tutto per fornire assistenza vitale alle donne palestinesi e ai loro neonati.25 Questa feroce dedizione non solo serve a mantenere la sacralità di ogni vita, ma rifiuta ulteriormente la pretesa di sovranità di Israele sull'esistenza palestinese.
Allo stesso modo in cui il lavoro di assistenza al parto infrange la facciata della permanenza israeliana, esso rifiuta anche "l'erezione di un futuro coloniale unico". Mentre l'occupazione scatena la violenza nel "presente", le ostetriche mantengono un'ancora di salvezza verso un futuro di liberazione, libero dall'assedio israeliano.26 Rivedendo il parto come un lampo di libertà, il lavoro di ostetricia rompe l'infrastruttura temporale sionista, allargando le crepe e le fessure per il ritorno. Sottolineando un pilastro della resistenza palestinese, lo scrittore Adam Hajyahiya definisce il principio del ritorno come "l'abolizione delle condizioni che rendono l'esilio l'unica possibilità rimasta".27 Così, rifiutando tutti gli aspetti della temporalità sionista, il lavoro del far nascere diventa il precursore della liberazione, inaugurando "incantesimi negativi del tempo, non importa quanto brevi o fugaci, come esseri ritornati".28 In altre parole, ogni nuova vita che nasce grazie al lavoro del far nascere, simboleggia un ritorno alla liberazione espresso attraverso il rifiuto del regime temporale di Israele. Con questo in mente, Samah Qeshta continua a sostenere madri come Iman Abu Mutlaq nel dare alla luce due gemelli, mentre suo marito, Ayman Abu Odah, decide di chiamarli come i suoi due nipoti martirizzati da un attacco aereo israeliano. Invocando la promessa del ritorno, Abu Mutlaq afferma: "La situazione è difficile, ma Dio mi ha offerto due bambini, due eroi".29
Solidarietà e prassi attraverso il lavoro del far nascere
Affermando la lotta palestinese per l'autodeterminazione, ridefiniamo il lavoro del far nascere come una prassi politica rivoluzionaria radicata nel tessuto della costante intifada. Dalla Palestina a Turtle Island, il lavoro del far nascere indigeno incarna il rifiuto del disfattismo coloniale-capitalista. Piuttosto che arrendersi alle strutture oppressive apparentemente irreprensibili, il lavoro del far nascere ci incoraggia a "legarci gli uni agli altri per impedire che la quotidianità abbia la meglio".30
Mentre circolano immagini di bambini palestinesi senza vita distesi in un'incubatrice, è inconcepibile che ogni ostetrica non sia indignata dalle atrocità dell'entità sionista. Le ostetriche occidentali sono ulteriormente implicate nei crimini di Israele, poiché le loro tasse vengono destinate alla produzione di armi responsabili dell'omicidio delle loro colleghe palestinesi. Tuttavia, la cultura dominante della professione considera la solidarietà con la Palestina al di fuori dell'ambito della pratica. Questa inerzia istituzionalizzata rappresenta l'essenza stessa della pratica ostetrica occidentale, riluttante a riconciliarsi con la sua eredità coloniale in Palestina e a Turtle Island.
Continuare a praticare l'ostetricia senza mobilitarsi contro la complicità del Canada nel genocidio, costituisce una violazione del dovere verso un'assistenza al parto compassionevole e dignitosa. Adottando il lavoro di parto palestinese come prassi politica, le ostetriche occidentali in Canada e oltre devono spostare i loro sforzi di solidarietà verso lo smantellamento dello status quo. Ciò significa coltivare una coscienza radicale in grado di riconoscere che la reazione disciplinare è contingente all'esistenza temporanea di Israele. Rifiutando le comuni tattiche sioniste di intimidazione e silenzio, le ostetriche occidentali riaffermano la liberazione palestinese come imminente e inevitabile.
Wahi Mohamed: Wahi è una studentessa di master in antropologia e studi africani alla Carleton University. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle intersezioni tra salute globale e imperialismo occidentale.
Touka Shamkhi, RM: Touka è un'ostetrica appassionata di salute decoloniale e assistenza riproduttiva. Touka ha pubblicato una ricerca sulle esperienze delle studentesse di ostetricia vittime di razzismo sul Canadian Journal of Midwifery Research and Practice.
Note
1 Yazid Barhoush and Joseph J. Amon, "Medical apartheid in Palestine," Global Public Health 18, no. 1 (April 2023): 1-13.
2 Halla Shoaibi, "Childbirth at checkpoints in the occupied Palestinian territory," The Lancet (July 2011): 2011-4.
3. Ghassan Abu-Sitta. 2024. "I Spent 43 Days in Gaza's Now-Destroyed Hospitals. My Mind Is Still There," Al Jazeera, May 3, 2024, https://www.aljazeera.com/opinions/2024/5/3/i-spent-43-days-in-gazas-now-destroyed-hospitals-my-mind-is-still-there.
4. "Two Premature Babies Die, 37 under Threat at Gaza's al-Shifa Hospital," Al Jazeera, November 11, 2023, https://www.aljazeera.com/news/2023/11/11/37-babies-at-risk-of-dying-in-gaza-hospital-israel-says-to-aid-evacuation.
5. C. Heike Schotten, Queer Terror: Life, Death, and Desire in the Settler Colony. (New York: Columbia University Press, 2018), 249.
6. A common Zionist saying legitimizing the creation of Israel insinuating "a land without a people for a people without a land".
9. "Israel Gaza Blockade Study Calculated Palestinians' Calories," Reuters, October 17, 2012, https://www.reuters.com/article/world/israel-gaza-blockade-study-calculated-palestinians-calories-idUSBRE89G0NM/.
10. Mbembe, "Necropolitics", 11.
"Definition of Midwifery," International Confederation of Midwives, June 9, 2023, https://internationalmidwives.org/resources/definition-of-midwifery/.
Elizabeth Brownson, "Enacting Imperial Control: Midwifery Regulation in Mandate Palestine," Journal of Palestine Studies. 46, no. 3 (2017): 27-42.
Brownson, "Midwifery Regulation," 27.
Brownson, "Midwifery Regulation " 28.
Note: This statistic highlights a discrepancy of over 5 times the access to IWCs for Jews living in Palestine compared to Palestinians. The use of the population descriptor Jews is not to conflate Judaism with Zionism, rather because that was the descriptor used in the original resource as cited by Brownson. The resource cited differentiates between Jews and Palestinians, thus implying that the 2 populations discussed are non-Palestinian Jews living in Palestine, and Indigenous Palestinians.
"Annual Report of the UN High Commissioner for Human Rights and Reports of the High Commissioner and the Secretary-General: The Issue of Palestinian Pregnant Women Giving Birth at Israeli Checkpoints", United Nations, January 1, 2003, https://www.un.org/unispal/document/auto-insert-186867/.
Berit Mortensen, "Palestinian midwives on the front line", Journal of Middle East Women's Studies 14, no. 3 (2018): 379-383.
"End Forced Birth Evacuations." NCIM, January 30, 2024, https://indigenousmidwifery.ca/end-forced-birth-evacuations/#1705311421639-2c3a4767-9bef.
"Indigenous Midwifery in Canada," NCIM, April 17, 2019, https://indigenousmidwifery.ca/indigenous-midwifery-in-canada/.
Fargo Tbakhi, "Notes on Craft: Writing in the Hour of Genocide," Protean Magazine, December 8, 2023, https://proteanmagstaging.wpcomstaging.com/2023/12/08/notes-on-craft-writing-in-the-hour-of-genocide/.
20. Adam Hajyahiya, "The Principle of Return," Parapraxis, accessed August 25, 2024, https://www.parapraxismagazine.com/articles/the-principle-of-return.
Tbakhi, "Notes on Craft".
Nidal Al Mughrabi, Amina Ismail, and Stephan Grey, "At a Gaza Hospital, a Midwife Brings Life and Volunteers Tend the Dead," Reuters, November 18, 2023, https://www.reuters.com/investigates/special-report/israel-palestinians-gaza-days/.
Al Mughrabi et al., "Gaza Hospital."
Sustained series of protests, acts of civil disobedience and riots carried out by Palestinians in the late 80s and early 90s against Israeli occupation.
Nida Khan. "A Palestinian Midwife Who Defies the Odds," Women's Media Center, September 29, 2010. https://womensmediacenter.com/news-features/a-palestinian-midwife-who-defies-the-odds.
Hajyahiya,"The Principle of Return."
Hajyahiya,"The Principle of Return."
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Al Mughrabi et al., "Gaza Hospital."
Tbakhi, "Notes on Craft."
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