Proudhon contro Marx
In tema di violenza,
presa del potere, ecc.
Non è una novità che Marco Revelli si rifà a Proudhon, e che la pretesa di
“ritorno a Marx” obliterando il “comunismo novecentesco” (già accampata da vari
socialdemocratici nel secondo dopoguerra, e diventa un Leit Motiv della
sedicente “rifondazione”) recupera più o meno apertamente proudhoniani
(“mutualismo, banche del popolo”, ed altre “combinazioni economiche” del “Terzo
Settore”). I richiami sono all’ ”antiautoritarismo”, all’ “antipoliticismo”
(ossia “indiffe-renza in materia di politica”), alla rimozione e delegazione
delle questioni “nazionali” o geopolitiche(presunta obsolescenza degli Stati
nazionali e dell’imperialismo), ed altri concetti di ascendenza proudhoniana,
frammischiati con eterogenei elementi anarchici o d’impronta etico-metafisica
più o meno religiosa, compreso il neopaganesimo New Age.
Proudhon negava la dialettica,ed il suo rovesciamento materialistico, perché a
suo avviso l’antinomia (contraddizione “non si risolve, ma i due termini di cui
essa consta si equilibrano”, e pertanto “perchè il potere sociale agisca
pienamente, occorre che le forze operanti di cui si compone siano in
equilibrio, equilibrio che deve risultare dal bilanciamento delle forze che
interagiscono in piena libertà e si equiparano reciprocamente”. Niente quindi
sintesi, come superamento della contraddizione in un nuovo e più alto
ordinamento, bensì “mutuo appoggio” (ti-tolo di un noto libro posteriore
dell’anarco-pacifista Kropotkin) delle forze sociali, attraverso una “media”,
un “giusto mezzo”. Prio perciò, nel Manifesto comunista, Marx collocava
Proudhon tra i socialisti conservatori o borghesi, che “vogliono le condizioni
della società moderna senza le lotte ed i pericoli che necessariamente ne discendono;
vogliono la società attuale previa eliminazione degli elementi che la
rivoluzionano e disgregano: vogliono la borghesia senza il proletariato”.
Questi socialisti si studiano di “disgustare la classe operaia di ogni
movimento rivoluzionario, dimostrandole che può trarre vantaggio, non da questo
o quel mutamento politico, ma solo da un cambiamento delle condizioni materiali
di esistenza, delle condizioni economiche. Ma per cambiamento delle condizioni materiali di
esistenza, questo socialismo non intende affatto l’abolizione delle condizioni
borghesi di produzione, che è realizzabile solo per via rivoluzionaria, bensì
riforme amministrative effettuate nell’ambito di queste condizioni di
produzione,che quindi non modificano per nulla il rapporto tra capitale e
lavoro salariato, ma, nella migliore delle ipotesi, riducono per la borghesia i
costi del governo e ne semplificano la gestione economica”.
Certo Proudhon non era un borghese egli stesso, ma un piccolo-borghese,
socialmente ed ideologicamente: per Marx, “il piccolo-borghese dice sempre: da
un lato, dall’altro… è la contraddizione vivente: e se poi, come nel caso di
Proudhon, è un uomo di spirito, sa giocare di prestigio con le proprie
contraddizioni, al caso elaborandole in
paradossi impressionanti, clamo-rosi, a volte brillanti. Ciarlatanesimo
scientifico ed opportunismo politico sono inseparabili da questo punto di
vista”.Il piccolo-borghese si presume “al di sopra delle classi”, e vede nella
sua stessa condizione il “giusto mezzo” risolutore degli antagonismi sociali.
Ma diamo la parola allo stesso Proudhon, il quale (17 maggio 1846) rispondeva a
Marx, che gli aveva proposto di far parte di un “ufficio internazionale di
informazioni sulla situazione politica e le condizioni del movimento operaio in
diversi Paesi, come indispensabile per “il momento dell’azione”:
Devo pure fare alcune osservazioni
sulla Sua frase “il momento dell’azione”. Lei forse mantiene l’opinione che
nessuna riforma sia attualmente possibile senza un atto di forza, che una volta
si chiamava rivoluzione, e che molto semplicemente è solo una “spallata”.
Quest’opinione la capisco, la scuso, ne discuterei volentieri, perché anch’io
l’ho condivisa a lungo, ma Le confesso che i miei ultimi studi me ne hanno
completamente distolto. Credo che per riuscire non abbiamo bisogno di questo, e
che pertanto, non dobbiamo porre l’azione rivoluzionaria come mezzo di riforma
sociale, perché questo preteso mezzo sarebbe solo un appello alla violenza, all’arbitrio,
insomma una contraddizione. Pongo cos’ il problema: far rientrare,
mediante una combinazione economica,le ricchezze che ne sono uscite per
un’altra combinazione economica…”.
La combinazione economica in oggetto consisteva nei “mercati operai” già
sperimentati in Inghilterra, con esiti disastrosi, come scriva Engels il 19
settembre 1946: “solo un idillio che esclude di per sè ogni grande industria,
ogni edilizia, agricoltura, ecc.”, come “rimedio pacifico”
contro ogni prospettiva rivoluzionaria: “combinazioni economiche”
ciarlatanesche, scriverà Marx nel “18 Brumaio di Luigi Bonaparte”, che possono
solo venir accettate da una classe operaia demoralizzata,con effetti rovinosi
sul piano sia economico, sia politico, e di qui, il ruolo deleterio del
proudhonismo nei confronti del regime reazionario del II Impero,e la sua
idealizzazione ad opera del corporativismo protofascista (il Cercle Proudhon in
cui Sorel collaborava con l’ Action Française),ed anche classicamente fascista
(in particolare, ma non solo, a Vichy).Del resto, proprio Proudhon, il 12
gennaio 1853, si riproponeva di fare uno studio sul come “soddisfare le giuste esigenze del
proletariato senza ledere i diritti acquisiti della borghesia”.
Non si vuole con ciò sostenere che tutti i neoproudhoniani condividano
necessariamente le posizioni più apertamente reazionarie (antisemitismo,
filobonapartismo,feroce misoginia, solidarietà con i secessionisti schiavisti
americani, opposizione all’organizzazione sindacale ed alle lotte di
liberazione nazionali, ecc.) di Proudhon (che paragonava il diritto di
coalizione sindacale al diritto della frode e del furto, dell’incesto e
dell’adulterio”) ¾ ma solo indicare alcuni significativi punti di
convergenza tra Proudhon ed i sostenitori attuali di una “rifondazione”
“comunista e liberale” o “libertaria” e “nonviolenta”,mediante “prefigurazione”
nelle pieghe della società borghese, “allusiva” di “un altro mondo possibile”
(“Terzo settore”, volontariato,mutualismo, ecc.).
M. Revelli e arrivato ad affermare che la rottura rivoluzionaria (violenta) è
stata enunciata da Marx solo in riferimento alle grandi rivoluzioni “borghesi”
(Inghilterra 1669, Francia 1989), e non a quella proletaria. Lui ed altri hanno
ripetuto che l’impiego di mezzi violenti “contraddice” il fine comunista o in
genere di “liberazione”,e questa era certo l’opinione di Proudhon.
Nel dicembre 1873 (e non era ancora l’abominevole Novecento!). Marx ed Engels
pubblicavano, rispettivamente,L’indifferenza in materia politicae Dell’autorità
sull’ Almanacco repubblicano.Nel suo contributo, Marx citava il seguente brano
di Proudhon, da La capacità politica delle classi operaie, 1868 (come gli
odierni postmoderni-postfordisti, Proudhon non riconosce una classe operaia, ma
un insieme di gruppi di “produttori”, in realtà di categorie, o piuttosto
corporazioni):
“sotto pretesto di rialzare la classe
operaia da una cosiddetta inferiorità sociale, bisognerà incominciare dal
denunciare un’intera classe di cittadini, la classe dei signori, imprenditori,
padroni e borghesi: bisognerà eccitare la democrazia lavoratrice al disprezzo
ed all’odio di questi indegni collegati della classe media; bisognerà preferire
alla repressione legale, la guerra mercantile e industriale; alla polizia dello
stato, l’antagonismo delle classi”.
Espressioni che possono parer sorprendenti per chi rammenti la connessione tra
Proudhon e Sorel (il teorico della violenza sia borghese sia proletaria, e
dello sciopero generale), e in genere l’apparte-nenza di Proudhon al filo
anarchico-antiautoritario (di solito non troppo simpatizzante della “polizia
dello stato”); ma è interessante il commento di Marx:
“il maestro per impedire alla classe operaia di uscire dalla sua cosiddetta
inferiorità sociale, condanna le coalizioni [sindacati] che costituiscono la
classe operaia in classe antagonista alla rispettabile categoria dei padroni,
imprenditori, borghesi,che certamente preferiscono, come Proudhon, la polizia
dello stato all’antagonismo delle classi.Per evitare ogni disgusto a questa
rispettabile classe, il buon Proudhon consiglia agli operai (fino alla venuta
del regime mutualista e malgrado “i suoi gravi inconvenienti”)la libertà o
concorrenza, nostra unica garanzia”.
E nell’articolo Dell’autorità, Engels scriveva:
“Tutti i socialisti sono d’accordo (…)
che lo stato politico e con lui l’autorità politica scompariranno in
conseguenza della prossima rivoluzione, e cioè che le funzioni pubbliche
perderanno il loro carattere politico e si cangeranno in semplici funzioni
amministrative, veglianti ai veri interessi sociali. Ma gli antiautoritari
domandano che lo stato politico autoritario sia abolito d’un tratto, prima
ancora che si abbiano distrutto le condizioni sociali che l’hanno fatto
nascere. Essi domandano che il primo atto della rivoluzione sociale sia
l’abolizione dell’autorità. Non hanno mai veduto una rivoluzione questi
signori? Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia; è
l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra
parte col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari se ce ne sono,
e IL PARTITO VITTORIOSO,SE NON VUOL AVERE COMBATTUTO INVANO,DEVE CONTINUARE
QUESTO DOMINIO COL TERRORE CHE LE SUE ARMI ISPIRANO AI REAZIONARI. La Comune di
Parigi sarebbe durata un sol giorno se non si fosse servita di questa autorità
di popolo armato, in faccia ai borghesi? Non si può al contrario rimproverarle
di non essersene servita abbastanza largamente?
Di due cose l’una: O gli antiautoritari non sanno ciò che dicono,e in questo
caso non fanno che seminar confusione; o essi lo sanno e in questo caso
tradiscono il movimento del proletariato. Nell’un caso e nell’altro essi
servono la reazione”.
Come si vede, non si tratta qui del pur essenziale scontro, nel primo
dopoguerra, tra bolscevichi e socialdemocratici anche “di centro”, come K.
Kautsky, ma delle fondamenta stesse del marxismo, ossia del “socialismo
scientifico”. Per cui non è esagerato parlare di “regressione” in merito ai
tentativi di “rifondare” il comunismo non sulle proprie basi marxiste
(denigrate sprezzantemente come vulgata), ma sui paramentri del socialismo
(piccolo-)borghese pre- ed antimarxista.
Fernando Visentin