www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 21-03-04

Proudhon contro Marx


In tema di violenza, presa del potere, ecc.

Non è una novità che Marco Revelli si rifà a Proudhon, e che la pretesa di “ritorno a Marx” obliterando il “comunismo novecentesco” (già accampata da vari socialdemocratici nel secondo dopoguerra, e diventa un Leit Motiv della sedicente “rifondazione”) recupera più o meno apertamente proudhoniani (“mutualismo, banche del popolo”, ed altre “combinazioni economiche” del “Terzo Settore”). I richiami sono all’ ”antiautoritarismo”, all’ “antipoliticismo” (ossia “indiffe-renza in materia di politica”), alla rimozione e delegazione delle questioni “nazionali” o geopolitiche(presunta obsolescenza degli Stati nazionali e dell’imperialismo), ed altri concetti di ascendenza proudhoniana, frammischiati con eterogenei elementi anarchici o d’impronta etico-metafisica più o meno religiosa, compreso il neopaganesimo New Age.

Proudhon negava la dialettica,ed il suo rovesciamento materialistico, perché a suo avviso l’antinomia (contraddizione “non si risolve, ma i due termini di cui essa consta si equilibrano”, e pertanto “perchè il potere sociale agisca pienamente, occorre che le forze operanti di cui si compone siano in equilibrio, equilibrio che deve risultare dal bilanciamento delle forze che interagiscono in piena libertà e si equiparano reciprocamente”. Niente quindi sintesi, come superamento della contraddizione in un nuovo e più alto ordinamento, bensì “mutuo appoggio” (ti-tolo di un noto libro posteriore dell’anarco-pacifista Kropotkin) delle forze sociali, attraverso una “media”, un “giusto mezzo”. Prio perciò, nel Manifesto comunista, Marx collocava Proudhon tra i socialisti conservatori o borghesi, che “vogliono le condizioni della società moderna senza le lotte ed i pericoli che necessariamente ne discendono; vogliono la società attuale previa eliminazione degli elementi che la rivoluzionano e disgregano: vogliono la borghesia senza il proletariato”.

Questi socialisti si studiano di “disgustare la classe operaia di ogni movimento rivoluzionario, dimostrandole che può trarre vantaggio, non da questo o quel mutamento politico, ma solo da un cambiamento delle condizioni materiali di esistenza, delle condizioni economiche. Ma per cambiamento delle condizioni materiali di esistenza, questo socialismo non intende affatto l’abolizione delle condizioni borghesi di produzione, che è realizzabile solo per via rivoluzionaria, bensì riforme amministrative effettuate nell’ambito di queste condizioni di produzione,che quindi non modificano per nulla il rapporto tra capitale e lavoro salariato, ma, nella migliore delle ipotesi, riducono per la borghesia i costi del governo e ne semplificano la gestione economica”.

Certo Proudhon non era un borghese egli stesso, ma un piccolo-borghese, socialmente ed ideologicamente: per Marx, “il piccolo-borghese dice sempre: da un lato, dall’altro… è la contraddizione vivente: e se poi, come nel caso di Proudhon, è un uomo di spirito, sa giocare di prestigio con le proprie contraddizioni,  al caso elaborandole in paradossi impressionanti, clamo-rosi, a volte brillanti. Ciarlatanesimo scientifico ed opportunismo politico sono inseparabili da questo punto di vista”.Il piccolo-borghese si presume “al di sopra delle classi”, e vede nella sua stessa condizione il “giusto mezzo” risolutore degli antagonismi sociali.
Ma diamo la parola allo stesso Proudhon, il quale (17 maggio 1846) rispondeva a Marx, che gli aveva proposto di far parte di un “ufficio internazionale di informazioni sulla situazione politica e le condizioni del movimento operaio in diversi Paesi, come indispensabile per “il momento dell’azione”:

Devo pure fare alcune osservazioni sulla Sua frase “il momento dell’azione”. Lei forse mantiene l’opinione che nessuna riforma sia attualmente possibile senza un atto di forza, che una volta si chiamava rivoluzione, e che molto semplicemente è solo una “spallata”. Quest’opinione la capisco, la scuso, ne discuterei volentieri, perché anch’io l’ho condivisa a lungo, ma Le confesso che i miei ultimi studi me ne hanno completamente distolto. Credo che per riuscire non abbiamo bisogno di questo, e che pertanto, non dobbiamo porre l’azione rivoluzionaria come mezzo di riforma sociale, perché questo preteso mezzo sarebbe solo un appello alla violenza, all’arbitrio, insomma una contraddizione. Pongo cos’ il problema: far rientrare, mediante una combinazione economica,le ricchezze che ne sono uscite per un’altra combinazione economica…”.

La combinazione economica in oggetto consisteva nei “mercati operai” già sperimentati in Inghilterra, con esiti disastrosi, come scriva Engels il 19 settembre 1946: “solo un idillio che esclude di per sè ogni grande industria, ogni edilizia, agricoltura, ecc.”, come “rimedio pacifico”
contro ogni prospettiva rivoluzionaria: “combinazioni economiche” ciarlatanesche, scriverà Marx nel “18 Brumaio di Luigi Bonaparte”, che possono solo venir accettate da una classe operaia demoralizzata,con effetti rovinosi sul piano sia economico, sia politico, e di qui, il ruolo deleterio del proudhonismo nei confronti del regime reazionario del II Impero,e la sua idealizzazione ad opera del corporativismo protofascista (il Cercle Proudhon in cui Sorel collaborava con l’ Action Française),ed anche classicamente fascista (in particolare, ma non solo, a Vichy).Del resto, proprio Proudhon, il 12 gennaio 1853, si riproponeva di fare uno studio sul come “soddisfare le giuste esigenze del proletariato senza ledere i diritti acquisiti della borghesia”.

Non si vuole con ciò sostenere che tutti i neoproudhoniani condividano necessariamente le posizioni più apertamente reazionarie (antisemitismo, filobonapartismo,feroce misoginia, solidarietà con i secessionisti schiavisti americani, opposizione all’organizzazione sindacale ed alle lotte di liberazione nazionali, ecc.) di Proudhon (che paragonava il diritto di coalizione sindacale al diritto della frode e del furto, dell’incesto e dell’adulterio”) ¾ ma solo indicare alcuni significativi punti di convergenza tra Proudhon ed i sostenitori attuali di una “rifondazione” “comunista e liberale” o “libertaria” e “nonviolenta”,mediante “prefigurazione” nelle pieghe della società borghese, “allusiva” di “un altro mondo possibile” (“Terzo settore”, volontariato,mutualismo, ecc.).

M. Revelli e arrivato ad affermare che la rottura rivoluzionaria (violenta) è stata enunciata da Marx solo in riferimento alle grandi rivoluzioni “borghesi” (Inghilterra 1669, Francia 1989), e non a quella proletaria. Lui ed altri hanno ripetuto che l’impiego di mezzi violenti “contraddice” il fine comunista o in genere di “liberazione”,e questa era certo l’opinione di Proudhon.
Nel dicembre 1873 (e non era ancora l’abominevole Novecento!). Marx ed Engels pubblicavano, rispettivamente,L’indifferenza in materia politicae Dell’autorità sull’ Almanacco repubblicano.Nel suo contributo, Marx citava il seguente brano di Proudhon, da La capacità politica delle classi operaie, 1868 (come gli odierni postmoderni-postfordisti, Proudhon non riconosce una classe operaia, ma un insieme di gruppi di “produttori”, in realtà di categorie, o piuttosto corporazioni):

“sotto pretesto di rialzare la classe operaia da una cosiddetta inferiorità sociale, bisognerà incominciare dal denunciare un’intera classe di cittadini, la classe dei signori, imprenditori, padroni e borghesi: bisognerà eccitare la democrazia lavoratrice al disprezzo ed all’odio di questi indegni collegati della classe media; bisognerà preferire alla repressione legale, la guerra mercantile e industriale; alla polizia dello stato, l’antagonismo delle classi”.

Espressioni che possono parer sorprendenti per chi rammenti la connessione tra Proudhon e Sorel (il teorico della violenza sia borghese sia proletaria, e dello sciopero generale), e in genere l’apparte-nenza di Proudhon al filo anarchico-antiautoritario (di solito non troppo simpatizzante della “polizia dello stato”); ma è interessante il commento di Marx:

“il maestro per impedire alla classe operaia di uscire dalla sua cosiddetta inferiorità sociale, condanna le coalizioni [sindacati] che costituiscono la classe operaia in classe antagonista alla rispettabile categoria dei padroni, imprenditori, borghesi,che certamente preferiscono, come Proudhon, la polizia dello stato all’antagonismo delle classi.Per evitare ogni disgusto a questa rispettabile classe, il buon Proudhon consiglia agli operai (fino alla venuta del regime mutualista e malgrado “i suoi gravi inconvenienti”)la libertà o concorrenza, nostra unica garanzia”.

E nell’articolo Dell’autorità, Engels scriveva:
“Tutti i socialisti sono d’accordo (…) che lo stato politico e con lui l’autorità politica scompariranno in conseguenza della prossima rivoluzione, e cioè che le funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico e si cangeranno in semplici funzioni amministrative, veglianti ai veri interessi sociali. Ma gli antiautoritari domandano che lo stato politico autoritario sia abolito d’un tratto, prima ancora che si abbiano distrutto le condizioni sociali che l’hanno fatto nascere. Essi domandano che il primo atto della rivoluzione sociale sia l’abolizione dell’autorità. Non hanno mai veduto una rivoluzione questi signori? Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia; è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari se ce ne sono, e IL PARTITO VITTORIOSO,SE NON VUOL AVERE COMBATTUTO INVANO,DEVE CONTINUARE QUESTO DOMINIO COL TERRORE CHE LE SUE ARMI ISPIRANO AI REAZIONARI. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno se non si fosse servita di questa autorità di popolo armato, in faccia ai borghesi? Non si può al contrario rimproverarle di non essersene servita abbastanza largamente?
Di due cose l’una: O gli antiautoritari non sanno ciò che dicono,e in questo caso non fanno che seminar confusione; o essi lo sanno e in questo caso tradiscono il movimento del proletariato. Nell’un caso e nell’altro essi servono la reazione”.

Come si vede, non si tratta qui del pur essenziale scontro, nel primo dopoguerra, tra bolscevichi e socialdemocratici anche “di centro”, come K. Kautsky, ma delle fondamenta stesse del marxismo, ossia del “socialismo scientifico”. Per cui non è esagerato parlare di “regressione” in merito ai tentativi di “rifondare” il comunismo non sulle proprie basi marxiste (denigrate sprezzantemente come vulgata), ma sui paramentri del socialismo (piccolo-)borghese pre- ed antimarxista.

Fernando Visentin