www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 16-10-10 - n. 336

I compagni dell’Attivo Unitario dei Comunisti di Napoli indicono per il giorno
Sabato 20 Novembre un Convegno sul tema "I comunisti e la Questione Sindacale".
Il Convegno si svolgerà presso il Centro Culturale La Città del Sole.
Per informazioni e contatti: comunisti.napoli@gmail.com
 
I comunisti e la questione sindacale
 
Lo scontro in atto è di natura schiettamente politica
 
Le gravissime conseguenze della crisi economica hanno chiarito che la natura dello scontro di classe è più che mai squisitamente politica: in gioco è la ridefinizione del rapporto tra le classi.
 
Per i comunisti, allora, non si tratta soltanto di difendere i sacrosanti diritti dei lavoratori, ma di impedire che i rapporti sociali e politici vengano ulteriormente sbilanciati a favore delle classi possidenti. Non è un caso che il disegno reazionario va di pari passo con i tentativi di distruggere la democrazia sociale sancita dalla Costituzione in modo da mettere al riparo la classe dominante dalle ripercussioni che le sue politiche antipopolari determinate dalla crisi avrebbero provocato e provocheranno in futuro. Si tratta ora di portare a termine questo percorso anche con diverse regole delle “relazioni industriali” per mettere definitivamente sotto scacco i lavoratori. È questo il senso della politica di Fiat e Confindustria, condivisa dal governo, sostenuta da CISL-UIL-UGL – che reggono il sacco al padronato – e non adeguatamente contrastata dalle “opposizioni”. I ricatti padronali caricano, allora, la questione sindacale di una forte valenza politica che mette in discussione e, nello stesso tempo, travalica di gran lunga il sistema dei diritti sindacali dei lavoratori. È indispensabile, quindi, inquadrare l’iniziativa difensiva del sindacato in una strategia di tipo squisitamente politico: un compito che spetta ai comunisti che debbono comunque affrontarlo, pur senza un proprio partito e in condizioni di debolezza quali mai prima erano esistite nella loro gloriosa storia. Un impegno, tuttavia, obbligato, ma anche un’occasione straordinaria per avviare la ricostruzione sia del sindacato di classe, sia del partito rivoluzionario.
 
L’unità dei lavoratori per ricostruire il sindacato di classe e il partito comunista
 
Le lotte degli anni’60 e dell’inizio degli anni ’70 avevano ridato centralità e soggettività politica alla classe lavoratrice che tornava a porsi come soggetto di un cambiamento sostanziale della società italiana e proponeva un diverso rapporto tra le classi anche in campo economico e politico.
 
Per quarant’anni la concertazione neocorporativa delle centrali sindacali confederali ha eroso le conquiste dei lavoratori e li aveva disarmati di fronte all’offensiva padronale che ha, naturalmente, scaricato sulla classe lavoratrice le conseguenze della sua crisi irreversibile e strutturale. Il decadimento completo delle forze politiche comuniste e di “sinistra” ha reso via via impraticabile l’opposizione parolaia e improntata a complice arrendevolezza degli ultimi anni.
 
In queste condizioni, la gestione padronale della crisi – con l’acquiescenza “responsabile” e concorrenziale del PD – sta realizzando un livellamento verso la fascia ufficiale della povertà di tutte le classi subalterne.
 
D’altro canto i partiti che ancora dicevano di richiamarsi al comunismo hanno dilapidato un immenso patrimonio di esperienze e di potenzialità, hanno seminato per anni sfiducia completa nei loro stessi confronti provocando il proprio totale distacco delle masse lavoratrici che, alla fine, le hanno abbandonate anche sul terreno elettorale.
 
Nel disastro si è aperto un dibattito, ancora disorganico ma che sta portando le componenti politiche e sindacali più accorte a riproporre con forza la questione dell’unità politica dei comunisti, ma anche della necessità di ricostruzione di un sindacato di classe come parte irrinunciabile della stessa ricostruzione del partito. Si pone il problema di un approfondimento sul piano teorico-politico e di un dibattito volto a individuare un comune percorso a partire dalla crisi economica che ha posto drammaticamente la questione sindacale all’ordine del giorno e, per i comunisti, essa è parte integrante del recupero della propria identità, del proprio ruolo e della ricostruzione del proprio partito.
 
Per i comunisti l’unità della classe lavoratrice, anche attraverso l’azione dei sindacati, è sempre stato un obiettivo concreto e prioritario.
 
Il ruolo dei comunisti nella questione sindacale
 
Oggetto della lotta sindacale non è il potere politico, ma più “modestamente” la contrattazione della vendita della forza-lavoro, ossia il miglioramento parziale delle condizioni dei lavoratori, l’“umanizzazione” della società capitalista.
 
La burocrazia che si forma allora nei sindacati tende a contrastare qualsiasi protagonismo diretto dei lavoratori confliggente con il sistema economico-sociale. Mentre il ruolo delle burocrazie sindacali è tendenzialmente quello di garantire il quadro di compatibilità delle lotte, all’opposto uno degli obiettivi principali del movimento comunista è la costruzione di istituti proletari direttamente nelle mani dei lavoratori in lotta, embrioni di una futura “democrazia operaia” (ad es., i vecchi Consigli di fabbrica). Questo “pericolo” deve oggi essere sventato con l’uso spregiudicato e scissionista di Cisl e Uil, con l’accredito dell’UGL (l’ex CISNAL fascista!), con l’abbandono della CGIL alle sue contraddizioni interne di un apparato concertativo con pezzi di federazioni e una base non più tolleranti verso cedimenti e compromessi, con l’emarginazione e la criminalizzazione del sindacalismo extraconfederale.
 
Negli anni ’60 e ’70 queste spinte trovarono espressione nei CUB, nei Comitati di Lotta e negli stessi Consigli di fabbrica, almeno alla loro nascita e finché rimasero esterni a CGIL-CISL-UIL. Proprio la vicenda dei consigli nati nell’“autunno caldo” è emblematica del rapporto tra lotta economica e lotta politica.
 
Oggi il sindacalismo italiano confederale è giunto al punto più basso della sua storia, ad un tale stato di degrado e di distacco dalla massa dei lavoratori che perfino in parti della CGIL l’esigenza del sindacato di classe si è fatta confusamente strada.
 
I comunisti non si possono limitare a constatare questa esigenza né possono schierarsi con questa o con quella componente sindacale perché formalmente più “democratica” o più “radicale”. Si tratta di una questione epocale e squisitamente politica che richiede ben altre motivazioni. Guardarsi l’ombelico e pretendere di far cominciare la storia da se stessi è sciocco: è necessario combattere con decisione le scelte strategiche del degrado e individuare nuovi percorsi concreti.
 
Riconquistare identità e autonomia di classe
 
Non esiste vaccino contro l’opportunismo: soltanto la direzione vigile dei comunisti può contrastarne la riproduzione. Questa verità attribuisce precise responsabilità storiche a tutti di “dirigenti” comunisti – vecchi e nuovi, di maggioranza come di “opposizione” – che si sono semplicemente disinteressati della questione. Ma è anche monito per chi si illude ancora di poter costruire un sindacato “di classe” senza porsi – contemporaneamente – anche la questione della sua direzione politica: il partito.
 
In secondo luogo va chiarito che l’origine della deriva collaborazionista non ha inizio nel ’93 con la nascita ufficiale della “concertazione”, ma è di molti anni antecedente. Di solito si tende a far risalire la politica di collaborazione di classe del sindacato alla cosiddetta “svolta dell’EUR” che fu, in realtà, soltanto il punto di approdo e di ripartenza di una strategia che ha avuto come posta la totale subordinazione della classe operaia e ha lasciato mano libera al capitale in cambio di un simulacro di compartecipazione. La “difesa dell’economia nazionale” è stata via via assunta dal sindacato confederale come valore primario in nome del quale sono state imposte la “moderazione salariale” e una interminabile sequenza di cedimenti e rinunce. Una volta consumata la rinuncia alla propria autonomia di classe – culturale e politica, ma anche degli interessi materiali – il movimento operaio e comunista è rimasto imprigionato nella crisi del capitale e della società da esso dominata e ne è stato travolto.
 
È contraddittorio e inutile porsi il problema del “sindacato di classe” senza porsi realisticamente da questo punto di osservazione e senza porsi molto concretamente e decisamente in contrapposizione ad esso.
 
Bisogna ripartire da una analisi rigorosa per un verso – sul piano oggettivo – dell’attuale modo di produzione capitalistico, e, per altro verso – sul piano soggettivo –, dell’attuale composizione della classe.
 
E occorre uscire dalla gabbia del semplice contrasto alle singole scelte del capitale, bisogna lanciare la sfida sulle scelte politiche generali, misurarsi sulla strategia. Qui sta il ruolo dei comunisti, qui sta l’esigenza del partito: in discussione oggi non sono la condizione di sopravvivenza della classe operaia né l’illusione di un lento e progressivo avvicinamento ad un socialismo democratico; nell’epoca della crisi finale del capitale all’ordine del giorno è la questione del potere.
 
La posta è, dunque, la possibilità di gettare anche una struttura sindacale di classe nella mischia dello scontro decisivo che si avvicina, per acuire le contraddizioni, per creare condizioni più favorevoli, per farne scuola di comunismo.
 
La sfida è sulle proposte per lo sviluppo
 
La partita si gioca anche e soprattutto sul modello di sviluppo. Ad esso i comunisti non hanno prestato negli ultimi decenni la necessaria attenzione: hanno assunto come oggettive le proposte dal capitale senza contrapporvi una propria interpretazione, rinunciando alla propria autonomia e accettando, di fatto, le scelte strategiche del capitale.
 
La classe operaia è la classe “progressiva” per eccellenza, essa deve essere perciò favorevole ad ogni avanzamento della conoscenza e del modo di produzione che avvicina la crisi del capitale e la società socialista. È suo interesse che i modi di produzione incorporino quantità sempre maggiori di conquiste scientifiche e tecnologiche. Naturalmente il modo in cui queste conoscenze vengono utilizzate sono altra cosa, sono esattamente l’oggetto della lotta di classe: più sapere, più scienza sono incorporate nella produzione, maggiore socialità c’è nella produzione della ricchezza e più stridente e contraddittoria ne è l’appropriazione privata.
 
Guai a equivocare su questo punto, e, dunque, sul modello di sviluppo: si finirebbe per lasciare mano libera al capitale sulle modalità e gli obbiettivi dello sviluppo. È quanto accaduto a partire dalla fine degli anni ’70, e le conseguenze per la classe operaia sono state devastanti.
 
Il capitalismo italiano, storicamente meschino e miserabile, naviga da sempre alla retroguardia dello “sviluppo” capitalistico. Non è per caso che l’Italia ha il tasso di crescita più basso tra tutti i paesi imperialisti.
 
Mentre, nell’epoca della mondializzazione, il capitalismo prendeva a correre a tutta e a diverse velocità verso forme differenti e più moderne di gigantismo, il capitalismo italiano pretendeva di “competere” affidandosi a imprese di dimensioni ridicole e confinandosi ai margini del mercato.
 
Mentre altrove si concentravano intelligenze e risorse in settori fortemente innovativi, e, quindi, ad alto valore aggiunto, in Italia si facevano scelte miserabili senza orizzonte e senza speranza di un futuro per l’economia.
 
I comunisti debbono misurarsi con questi problemi e accettare la sfida del progresso; non possono più vegetare nell’indifferenza ad un mondo che cambia tumultuosamente. È un impegno straordinariamente difficile a cui non ci si può sottrarre perché oggi la partita con il capitale si gioca su questo terreno. I comunisti debbono proporre – sempre – le proprie scelte, alternative a quelle del capitale, e motivarle politicamente, cioè concretamente.
 
Due gambe, una sola anima
 
È emblematico che la politica di collaborazione con il padronato si manifesti scopertamente a ridosso di avvenimenti epocali come l’autoscioglimento del PCI, il “crollo del muro” di Berlino, la fine dell’URSS e la disgregazione di quel grande paese.
 
I primi accordi concertativi provocarono da subito lo scontento e, anche, la reazione di tantissimi lavoratori e di molti loro rappresentanti. Ma, esaurito l’abbrivio di quella reazione, si aprirono autostrade alla politica della concertazione, in un crescendo che ha lasciato solo macerie di tutte le maggiori conquiste di anni e anni di lotte.
 
Ed è da questa realtà che i comunisti debbono ripartire per ricostruire il sindacato di classe in Italia. Una realtà con due gambe, quella della CGIL e quella del sindacalismo extraconfederale, ma che può e deve riconoscersi in un’unica anima.
 
Problemi del sindacalismo confederale
 
Moltissimi lavoratori restano ostinatamente legati alle migliori tradizioni del sindacalismo italiano e si rifiutano di ammettere che la CGIL ha da tempo abbandonato il terreno di classe ed è andata troppo, avanti nella sua mutazione genetica. Gli apparati dirigenti sono ormai svincolati dalla massa dei lavoratori che non hanno alcuno strumento per ai processi decisionali e neppure per esercitare qualche pressione o condizionamento sui vertici: il sindacato che si è fatto funzione dello Stato trae ormai da esso e non dai lavoratori la sua legittimazione e le fonti stesse della sua sopravvivenza, un sindacato che gestisce direttamente servizi o cogestisce con controparte e Stato enti e istituti contrattuali ha altrove il baricentro della sua attività, del suo potere, dei suoi interessi. Il resto lo fa il ruolo che sistematicamente giocano da sempre la CISL e la UIL: nati alla fine degli anni ’40 con fondi neri americani per spaccare il sindacato italiano, già all’inizio degli anni ’70 negavano e sabotavano l’unità sindacale delle categorie sono giunti recentemente a realizzare accordi separati e vanificare il contratto nazionale. Nella vicenda di Pomigliano hanno finalmente gettato definitivamente la maschera e ripreso scopertamente il ruolo originario di sindacati filopadronali.
 
Di nuovo, quindi, la partita si gioca sul piano politico, non su quello rivendicativo o organizzativo. Ancor di più oggi che i vertici della CGIL hanno, una volta di più, fatto una chiara scelta di campo sposando acriticamente la linea social-liberista del PD, accettando di pagare il prezzo altissimo del distacco dalla massa dei lavoratori, abbandonando al suo destino il precariato e rischiando il rapporto con la categoria storicamente più avanzata, la FIOM. Ma la contraddizione vera, su cui si gioca la partita, è con la massa dei lavoratori.
 
La strada più semplice sembra essere quella della contrapposizione e dell’ennesima separazione. Ma a problemi difficili non esistono soluzioni facili. E, invece di scegliere scorciatoie già tentate mille volte con magri risultati, occorre impegnarsi – all’opposto – per unire la classe e sconfiggere politicamente l’opportunismo e il neocorporativismo sul terreno politico, sui contenuti, nel confronto serrato e intransigente.
 
…e di quello autorganizzato
 
Molti lavoratori in momenti e modi diversi hanno reciso i legami politici e organizzativi con il sindacalismo confederale dando vita o aderendo a numerose organizzazioni che hanno tentato in questi anni di costituire l’alternativa “di classe” alla deriva concertativa della CGIL. Un piccolo universo molto variegato, composto di organismi di media grandezza e di altri molto piccoli e, talvolta, su basi soltanto locali o aziendali in cui si raccolgono solo in parte il malumore e le spinte autonome della classe. Raccolgono adesioni – a volte significative – nel pubblico impiego o in singole unità manifatturiere oppure là dove il sindacato confederale lascia paurosi spazi, come nell’universo del lavoro precario.
 
Il processo di ricostruzione di un sindacato di classe in Italia non può fare a meno di nessuna energia positiva, deve marciare su due gambe, deve avere come il bene più prezioso e come bussola per orientarsi l’unità della classe da conquistare sui contenuti concreti e nella sfida ravvicinata con le posizioni opportuniste e neocorporative. Deve liberare la forza e la creatività che sono imprigionate nella classe per definire e costruire il tipo di organizzazione corrispondente alle esigenze del nostro tempo.
 
È su questo terreno che i comunisti debbono operare all’interno della questione sindacale, non certamente partecipare alla zuffa che pretende di stabilire chi sia il più bravo, il più radicale, il più anticoncertativo e il più “democratico”.
 
La mancanza del partito dei comunisti complica maledettamente la questione e fa della costituente comunista e della costituente sindacale due parti dello stesso processo che ha per oggetto e posta la riorganizzazione della classe e, quindi, sotto la sua direzione, la creazione di un vasto blocco sociale anticapitalista.
 
I comunisti debbono essere punto di riferimento dei lavoratori, lavorando alla radicalizzazione delle lotte a partire dall’elaborazione di una comune strategia di mobilitazione articolata intorno a piattaforme unificanti e condivise, al di là della attuale collocazione sindacale di ciascuno.
 
Ma, attenzione: il sindacato non può funzionare su base ideologica e i comunisti possono e debbono dirigerlo soltanto sulla base delle scelte e delle proposte che essi elaborano e che propongono alla massa dei lavoratori ed è su quelle – soltanto su quelle – che ne conquistano e ne conservano la fiducia.
 
La vicenda della Fiat di Pomigliano d’Arco ha messo in evidenza le più gravi carenze del movimento operaio in fabbrica e fuori, soprattutto la mancanza di una prospettiva capace di fare fronte alla nuova qualità dello scontro che Marchionne e l’intero padronato stanno dispiegando contro l’intero mondo del lavoro. Una prospettiva di lotta e di orientamento che deve essere necessariamente internazionalista per far fronte alla moderna configurazione del mercato mondiale dove i lavoratori, dei diversi paesi, sono spinti alla concorrenza tra loro.
 
Risposte concrete alla crisi del capitale
 
La virulenza senza precedenti della crisi economica e la sua irreversibilità hanno posto al centro questi problemi: guai a dimenticarlo, semmai con l’obbiettivo “concreto” di raccattare qualche seggio parlamentare. L’esperienza di questi anni è chiara: la partita si gioca sulla condizione sociale e politica delle classi subalterne, sulla capacità dei comunisti di proporre orizzonti e percorsi alternativi, concreti, credibili. Anche il necessario recupero di rappresentanze non marginali nelle assemblee elettive passa per questa strada, non per le suggestioni mediatiche o per alchimie politiciste finalizzate ad improbabili aggregazioni o a indecorose maggioranze.
 
Non esistono scorciatoie e i comunisti hanno il dovere di farsi trovare preparati e non riproporre all’infinito la parodia di se stessi.
 
Per uscire dalla propria crisi i comunisti debbono porsi fuori della crisi del capitalismo, come l’unica alternativa possibile alla “comune rovina delle classi in lotta”. Ma, per farlo, non è sufficiente averne l’intenzione.
 
L’unità sui bisogni e nelle lotte cardine di ogni strategia
 
Il reinsediamento sociale dei comunisti esige che due siano i loro principali “cantieri” di lavoro: la costituente comunista e la costituente sindacale, diversi, ciascuno con la propria specificità, ma strettamente collegati nei percorsi, nei principi ispiratori e nelle linee politiche.
 
Fondamentale per la ricostruzione del sindacato di classe è l’unità effettiva della classe lavoratrice. Per decenni all’“unità sindacale” con CISL e UIL la CGIL ha sacrificato l’unità effettiva dei lavoratori riconquistata nell’“autunno caldo” e dissipata giorno per giorno fin dai primi anni ’70. Sono stati smantellati gli organismi unitari e democratici di tutta la classe: i consigli di fabbrica ed è stata perfino sdoganata la UGL, il vecchio sindacato fascista Cisnal, per approdare oggi ai ricatti sui contratti e ad una classe divisa e mortificata. Ad arginare questa “macelleria sociale” non son serviti le opposizioni interne, né i mugugni e neppure gli sforzi di esperienze autorganizzate.
 
L’unità è il bene più prezioso, l’unica forza che la classe può mettere materialmente in campo. E questo i lavoratori lo sanno bene. L’unità che conta, quella dell’intera classe si fa sui contenuti e nel corso della lotta. Il lavoratore se ne infischia di quale tessera sindacale abbia il suo compagno di reparto e di fabbrica: sa che ha gli stessi suoi bisogni, e gli interessa soltanto se è disposto a condividere con lui la lotta per soddisfarli.
 
Ma l’unità dei lavoratori stabilmente occupati è soltanto una parte del compito. Il problema vero è l’unità dell’intero esercito proletario e, dunque, degli occupati con i disoccupati, con i precari, con i lavoratori assoggettati al lavoro nero o al sottosalario o a forme diverse di capolarato, con i giovani in cerca di prima occupazione, e con la schiera innumerevole e crescente di lavoratori immigrati, con o senza contratto e permesso di soggiorno. Si tratta di adeguare la struttura del sindacato per organizzare stabilmente questo variegato esercito, e si tratta di individuare obbiettivi, piattaforme e percorsi unitari, comuni o complementari. Per riuscirci, bisogna indagare le novità nel modo di produzione e la diversa composizione della società, delle classi e dei loro rapporti reciproci.
 
La mondializzazione dei mercati, in particolare di quello della forza-lavoro pone come centrale per la ricostruzione del sindacato di classe anche l’unità della classe lavoratrice a livello internazionale. Del resto, occorre fare i conti con la delocalizzazione delle attività produttive nei paesi dove esistono salari più bassi che in Italia. Infine i comunisti debbono farsi carico finalmente della lotta alle condizioni mostruose di sfruttamento che il capitalismo pratica nei paesi del “terzo mondo”.
 
Passare all’offensiva sui contenuti
 
La mondializzazione ha determinato la temporanea sconfitta del comunismo. Ma è proprio la mondializzazione che crea le condizioni più favorevoli per finalizzare la comune condizione di sfruttamento e di oppressione del proletariato e dei popoli di tutto il mondo per realizzarne l’unità anticapitalista; altrettanto non possono fare le diverse componenti del capitale impegnate nella loro reciproca spietata lotta.
 
In questo scontro mortale i comunisti debbono formulare una strategia capace di acutizzare le contraddizioni già esistenti nella realtà. I comunisti non seminano illusioni sulla natura neutrale dello Stato e sulla possibilità di conquistarlo, ma sanno che è uno degli strumenti che è possibile e necessario utilizzare al meglio possibile per allargare le opportunità di partecipazione e di protagonismo di massa. Tramontata ogni suggestione neokeynesiana è indispensabile un duro impegno contro la precarizzazione sfrenata e le privatizzazioni selvagge, politiche che hanno accresciuto a dismisura il caos e l’ingovernabilità dell’economia dominata dal capitale.
 
I comunisti debbono indicare e praticare percorsi di segno opposto, in primo luogo per riaffermare il ruolo centrale dello Stato nell’economia per contenere lo strapotere del capitale e per orientare le scelte strategiche.
 
Fuori da ogni suggestione governi sta i comunisti debbono affrontare i nodi centrali dello sviluppo, rifiutando le scelte della borghesia e proponendo – in assoluta autonomia – percorsi concreti e antagonisti. Ad esempio, all’attacco di al contratto nazionale di lavoro occorre rispondere rivendicando il contratto nazionale intercategoriale per corrispondere sia alle esigenze di unità della classe, sia alla realtà della mobilità. Su tutti i terreni i comunisti debbono misurarsi e lanciare la sfida sviluppando proposte integrate e complementari.
 
Non basta che il sindacato abbia una linea di classe, che sia antagonista ed effettivamente democratico: è necessario che corrisponda alle attuali connotazioni del modo di produzione e alla attuale composizione della classe lavoratrice nel suo insieme, un sindacato ìn cui la precarietà del mondo del lavoro non determini precarietà delle sue strutture. Un sindacato che deve sviluppare una piena “democrazia operaia”, vale a dire la partecipazione e il protagonismo dell’intera classe negli organismi unitari di autogoverno della classe: i consigli dei delegati, che debbono poter esercitare il “controllo”.
 
I comunisti, dunque, in ambito sindacale non debbono mirare alla supplenza o alla sovrapposizione rispetto ai quadri e all’organizzazione sindacale, ma debbono interpretare i nodi politici dello scontro di classe anche in ambito economico, debbono l’iniziativa sindacale per strutturare l’unità della classe e avviarla ad essere classe dirigente nei luoghi di lavoro e nella società.
 
ATTIVO UNITARIO DEI COMUNISTI DI NAPOLI
 
 

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