www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 31-05-11 - n. 366

Ed ora Bossi a chi farà pernacchie? Forse a se stesso
di Tiziano Tussi
 
Elezioni 2011: Le illusioni della democrazia rappresentativa delegata
di Michele Michelino
 
Ascoltare il popolo
di Dante Barontini

 
Ed ora Bossi a chi farà pernacchie? Forse a se stesso.
 
di Tiziano Tussi
 
I ballottaggi archiviano un’ aspettativa di cambiamento. A Milano ed a Napoli due luoghi topici. Ma anche il resto del paese si sta svegliando – citiamo Novara, dato emblematico. A Milano la percentuale di elettori è sostanzialmente la stessa della scorsa tornata elettorale e Pisapia prende ancora più voti. A Napoli c’è stata invece una forte disaffezione al voto ma De Magistris arriva ad una percentuale altissima di voti.
 
All’inizio di questa elezione amministrativa molti non ci credevano, tra i quali chi scrive, ma si sono dovuti ricredere. Il dato nuovo è stata la decisione dell’elettorato progressista, la sua richiesta di nuova direzione.
 
Come già scritto due settimane fa, al di là delle persone, però non prescindendo da esse, e dai programmi che queste hanno espresso, c’è stato proprio un grido di liberazione dall’ignoranza elevata a sistema. Una saturazione dell’idiozia non più sopportata.
 
Basta con le litanie di Berlusconi contro i comunisti per poi fare proseguire tutto come prima. Basti pensare alle differenze delle elargizioni delle pensioni, da pochi giorni ancora una volta alla ribalta dell’attenzione dei media.
 
Basta con le solite storie contro gli immigrati ed i rom. I problemi ci sono e sono seri ma vanno affrontati e risolti, invece che spostati – un campo profughi, o similare, via di qua e lo sopportiamo per un po’ là e poi si vedrà.
 
Basta con la questione degli extracomunitari che porterebbero guai e malattie di ogni tipo salvo poi usarli per tenere alta la concorrenza salariale per lavori di fatica. Una sorta di colonialismo interno. Non siamo noi ad andare in Africa è un pezzo d’Africa che viene da noi, per essere sfruttata ben bene.
 
Basta con le corruzioni e con la burocrazia e la disorganizzazione nel mondo dell’amministrazione pubblica e del lavoro. La modernizzazione, salvo qualche spruzzatina telematica, non è mai avvenuta. Burocrati di stato che guadagnano cifre altissime, sprechi del palazzo mai tagliati. Alla faccia di ogni indagine sulla casta.
 
Basta con l’approssimazione dei rapporti di lavoro. La precarietà è tendenzialmente tesa a diventare la totalità. La Confidustria che prima si gonfia le tasche di soldi, de localizzando selvaggiamente, e poi ci dice che il governo non ha fatto abbastanza per le imprese.
 
Bene: tutti questi temi ed altri ancora – scuola, sanità – sono da aggredire, risolvere. Ed allora facce nuove, personalmente oneste, raccolgono tale grido contro la saturazione della barbarica guerra di bande . Difficile dire cosa faranno coloro che hanno vinto ma non dobbiamo sempre essere negativi per il futuro. Le difficoltà sono tutte qua, squadernate alla grande. Ed i nuovi sindaci dovranno affrontare tali nodi, dovranno scegliere. Se non lo faranno, se non prenderanno parte veramente, ma si limiteranno ad imbellettare i sepolcri, alla prossima prima occasione, il ritorno della destra potrà essere possibile.
 
Ma ora almeno sappiamo che il cervello degli italiani, indipendentemente dal loro pensare politico, non sopporta più il solito circo di nani e ballerine. C’è bisogno di serietà, c’è bisogno di capacità. In fondo siamo il paese di Giordano Bruno, Galileo Galilei, Giambattista Vico, Antonio Gramsci. Insomma l’intelligenza degli italiani si è spesso sostanziata.
E così è anche ora. Si riparte. O almeno lo si può pensare di fare.

 
Elezioni 2011: Le illusioni della democrazia rappresentativa delegata
 
di Michele Michelino
 
La borghesia illude i proletari sulla possibilità di cambiamenti reali. Pensare di poter cambiare la propria situazione di vita e di lavoro semplicemente con il voto nelle urne, sostituendo i rappresentanti politici dello schieramento di destra con quelli di sinistra (o viceversa) senza intaccare la struttura e il modo di produzione capitalista porta a grandi delusioni.
 
Il voto serve a legittimare chi vince e gli attuali partiti, dal PdL al PD fino ai vari partiti nati dallo sfaldamento di Rifondazione Comunista, se governano lo fanno solo nell’esclusivo interesse della classe dominante, come ormai è ampiamente dimostrato (vedi l’identità di interessi sulla necessità di aiutare l’industrie, la posizione sulla guerra, ecc).
 
Gli interessi delle varie frazioni borghesi, mediati dallo stato borghese e dalle sue istituzioni sono sempre gli stessi. Cambia solo la formazione politica o la coalizione politica che - nella situazione data - dirige e rappresenta l’interesse particolare o collettivo della classe sfruttatrice.
 
Il copione si ripete anche nelle elezioni locali. La batosta subita da Berlusconi e dai suoi alleati non può che rallegrarci. Tuttavia non possiamo fermarci all’istinto, dobbiamo analizzare la realtà.
 
La vittoria di Piero Fassino a Torino, Giuliano Pisapia a Milano, Luigi de Magistris a Napoli, Massimo Zedda a Cagliari, Roberto Cosolini a Trieste, per quanto avversari del centrodestra e di schieramenti opposti, diversi su alcune proposte, possono rappresentare anche un “vento nuovo”, ma non rappresentano visioni del mondo e modelli di società contrapposti, bensì frazioni diverse della stessa classe borghese, del capitale, che a livello locale si combatte su interessi contrapposti.
 
Da una parte ci sono gli interessi del capitale finanziario, del capitale industriale e commerciale e delle rendite parassitarie, dei sostenitori della svendita delle proprietà statali ai privati e agli amici degli amici, rappresentati a rotazione e volta per volta da Berlusconi e dal centrodestra e dall’altra quelli della frazione dei concorrenti, degli Agnelli, dei De Benedetti, Della Valle, ecc, sostenuti dal PD e dal polo di centro sinistra insieme ai suoi alleati. Anche a Milano queste frazioni si sono divisi in schieramenti contrapposti. A Milano Giuliano Pisapia è stato sostenuto dal Comitato “oltre il 51” per cento guidato da Piero Bassetti (primo presidente della regione Lombardia, ex parlamentare Dc e presidente della Camera di Commercio) forte di circa 200 firme di rappresentanti e personaggi influenti del mondo dell’economia tra cui Luciano Balbo, Salvatore Bragantini, Carlo Dall’Aringa, Alessandro Profumo, Anna Puccio, Pippo Ranci, Sabina Ratti, Guido Roberto Vitale, Marco Vitale.
 
I vari avversari che si sono sfidati in questa campagna elettorale pur rappresentando frazioni diverse del capitale, sostengono gli interessi della stessa classe: la borghesia, gli sfruttatori.
 
Ognuno di questi schieramenti ha cercato di attirare i voti dei proletari, della piccola borghesia e di tutti gli strati intermedi ignorati, schiacciati e dimenticati dalla loro politica, politica che si ricorda di loro solo in periodo elettorale. Ormai anche in Italia ha fatto scuola il modello americano basato sui leader che fanno le campagne elettorali basandosi sui sondaggi e le trasmissioni tv. Dirigenti politici che evitano di confrontarsi con le piazze con cui hanno sempre più problemi.
 
La storia insegna che l’illusione del cambiamento attraverso il voto che avviene in caso di ricambio delle forze politiche, ma che non muta la struttura, non cambia la realtà economica e la vita di milioni di persone e questo è alla base della crescente apatia e distacco dalla politica.
 
Non è un caso che, in mancanza di un partito che rappresenti anche nelle elezioni gli interessi della classe operaia, l’astensionismo continui a crescere fra strati gli proletari, evidenziando il distacco degli interessi reali di chi ha perso o non trova lavoro, casa, diritti.
 
L’astensionismo proletario non significa indifferenza dalla politica. In generale è praticato da lavoratori e da compagni organizzati che lottano, partecipando in prima persona agli scioperi, alla costruzione di associazioni e Comitati, senza delegare a nessuno la difesa dei loro interessi e che non si riconoscono in nessun partito attualmente sulla piazza.
 
La lotta fra capitale e lavoro
 
Al mondo delle chiacchiere si contrappone il mondo reale di milioni di persone che, nella lotta fra capitale e lavoro, ogni giorno si battono per potere mantenere condizioni di vita decenti per sè e le proprie famiglie, faticando spesso a mettere insieme il pranzo con la cena.
 
Il valore della forza-lavoro in generale è costituito da due elementi, uno fisico, l’altro storico-sociale. Gli industriali cercano di realizzare il massimo profitto giustificandolo con le leggi del mercato. Il continuo attacco ai salari cerca di ridurli sempre più al minimo. I padroni si occupano solo della realizzazione del massimo profitto, lasciando allo stato e alle istituzioni il compito di intervenire con leggi a favore dei più bisognosi o poveri, e ancor più delegando alle istituzioni religiose la carità, affinché forniscano gli aiuti sociali e i mezzi necessari alla conservazione fisica della classe proletaria.
 
La società capitalista legifera e permette attraverso i contratti imposti dai padroni e sottoscritti dai sindacati filo-padronali di ridurre i salari al minimo e in alcuni casi sotto il minimo di sopravvivenza.
 
La massima flessibilità, la precarietà è sempre più diffusa, lo sfruttamento e l’intensità del lavoro sempre più intensi fanno sì che al massimo profitto corrisponda il minimo dei salari.
 
I capitalisti da sempre, ma ancor più oggi nella crisi, cercano di ridurre i salari e aumentare la giornata lavorativa, come Marchionne e la FIAT dimostrano, ed è solo con la lotta di tutti i lavoratori a livello nazionale, i contratti nazionali e gli interventi legislativi che si può cercare di contrastare questi attacchi con speranza di successo.
 
Non abbiamo nessuna illusione sullo stato. Sappiamo bene che non è un organismo neutro, al di sopra delle parti. Siamo coscienti che la “Repubblica Italiana nata dalla Resistenza” è uno Stato capitalista. Questo Stato che tutti i borghesi difendono non è altro che l’organizzazione, l’istituzione che legittima gli sfruttatori; è l’organizzazione che essi si sono data per difendere e mantenere i loro privilegi.
 
Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli”
Via Magenta 88, Sesto San Giovanni, mail: cip.mi@tiscali.ithttp://ciptagarelli.jimdo.com/ -
Sesto San Giovanni 30 maggio 2011

 
da www.contropiano.org/it/archivio-news/editoriale/item/1640-ascoltare-il-popolo
 
Ascoltare il popolo
 
di Dante Barontini
 
31/05/2011
 
Berlusconi è politicamente morto, evviva! Fine delle celebrazioni, mettiamoci a pensare. Anzi, ad elencare – come prima cosa - “i fatti”. In modo da avere, successivamente, elementi di giudizio non puramente “impressionistici”.
 
La dimensione della sconfitta è il dato principale. Come nel calcio – Berlusconi viene anche da lì, oltre che dalla televisione e dall'immobiliarismo d'assalto – si può perdere con onore (2 a 1, 3 a 2, ecc) e non succede granché. Ma il 7 a 1 implica che è finito un ciclo e vanno cambiati giocatori, allenatore, spogliatoio, sponsor e forse anche il massaggiatore e la proprietà. Tra il primo e secondo turno di queste elezioni, “solo amministrative”, è maturata una disfatta di dimensioni non immaginabili prima. E siccome non crediamo alle parole dette dopo, chi l'aveva previsto ci mostri un testo dalla data certa.
 
Il secondo dato certo è che non vince l'opposizione parlamentare. Anzi, dopo questo giro, possiamo dire con una qualche certezza che il Pd è un partito che può vincere solo se non si presenta. Non uno dei candidati nelle città teatro di vero scontro elettorale – Torino a parte dunque, strangolata da altri ricatti o Bologna dove si gioca sempre in casa – viene dalle sue fila o mostra pubblicamente un qualche feeling con questa formazione. Peggio ancora per le miserie partitiche che stanno tra o oltre i due “colossi mancati” (Pd+L e Pd senza L). Una conclusione attendibile può essere tratta: questo voto è contro il sistema dei partiti attualmente esistente. In toto. Basta chiamarsi “partito” per esser guardati di sottecchi e depennati dall'elenco dei simboli “crociabili”.
 
Il terzo dato, da non sottovalutare, anzi tutto da indagare, è l'astensionismo. A Napoli ha votato solo un avente diritto su due. De Magistris rappresenta un terzo della città, il derelitto Lettieri appena un sesto(c'è chi dice “sapevano di perdere , quindi non hanno stanziato lo stock di biglietti da 50 euro con cui si paga di solito un voto”; e chi scherza sul voto della sola “camorra propriamente detta”). La metà di Napoli, però, guarda; muta, non partecipa più. Non crede, qualsiasi cosa abbia in testa (e cosa abbia in testa è problema anche nostro: non dobbiamo “immaginarcelo”, né tantomeno attribuire a questa metà il nostro pensiero; dobbiamo, più concretamente, “indagare” camminando in mezzo alla gente). Anche altrove l'astensione è altissima, tranne che a Milano, dove la partita politica e quindi simbolica era totalizzante e chiara.
 
Altri dati empirici vengono dalla Lega, che ha perso molto e forse anche la verginità immaginaria, la supposta purezza dei rozzi. E' l'unica formazione politica parlamentare attrezzata per stare fuori dai giochi una legislatura intera. Ma ha scontentato molto la sua base “territoriale”; le faticose trattative per portare a casa i decreti attuativi del “federalismo” non bastano a giustificare Ruby, Cosentino, la Sicilia, la 'ndrangheta in Lombardia o i permessi Schengen ai profughi dalla Tunisia. Bossi deve scegliere: o accettare lo sfarinamento emerso con chiarezza in questa tornata, o ristrutturarsi come “ce l'ho sempre duro”, mollando il “padrino” e rassegnandosi a qualche anno di marginalità politica differenziale solo al Nord. Ma non più come prima.
 
E' un voto che sembra l'equivalente elettorale degli “indignados”. Premia gli outsiders più radicalmente estranei alla politica politicante. Di più (e ce n'è per far riflettere gli esperti di media): fa vincere solo quelli che non sono quasi mai apparsi in tv: De Magistris, Pisapia, Zedda. Non si può non vedere che a Milano, Napoli e Cagliari si è messa in strada una massa di volontariato militante assetato di “politica sana”, che ha ricevuto scarso o nullo supporto dagli apparati partitici di opposizione. Inutile sottolinearne le ingenuità – tutte reali – perché non si deve mai fare spallucce alla partecipazione dal basso. Si rischia di fare come la volpe con l'uva.
 
Alla prova dell'amministrazione territoriale questa militanza di base sarà ovviamente sorpassata dai professionisti dell'assessorato. Ma a noi deve interessare la spinta di massa (relativa, ma verace) a un radicale cambiamento di rapporto con la “cosa pubblica”. Non sottolineeremo mai abbastanza che Berlusconi viene azzerato non dalle “manovre di palazzo” continuamente sognate dai D'Alema di turno, non dalle defezioni organizzate da questo o quel cacicco in sofferenza (Fini, per dirne uno): ma da una corale defenestrazione di popolo. Un popolo che va ascoltato perché chiede di essere ascoltato.
 
Perché è vero che la crisi economica – soprattutto – ha bombardato i fondali di cartone del berlusconismo, quella grande “narrazione” nata negli anni '80 (l'”edonismo reaganiano” contrapposto all'impegno civile e politico degli anni '60-'70) che metteva la “libertà individuale senza legge” al di sopra di qualsiasi “bene comune”, al di sopra della stessa tenuta sociale. Assistiamo ai primi effetti di un cambiamento culturale di lungo periodo, che rivela l'impossibilità di credere alle facili promesse dei partiti quando si ha la certezza empirica che i problemi della sopravvivenza sono gravi, seri, complicati e inaggirabili. E' lo spazio culturale – di massa, è bene accorgersene – entro cui si può agire per evidenziare la portata devastante delle “tre crisi” (economica, energetica, ambientale) e la necessità di una trasformazione del modo di produrre e vivere.
 
Non è più il tempo della pura “resistenza” a difesa dei principi. E' il tempo dell'azione politica, dell'organizzazione del conflitto sociale di massa. La partita è riaperta e va giocata.
 
Dietro l'angolo, infatti, premono le falangi di Confindustria per consolidare il prima possibile un nuovo blocco sociale fondato su un “patto dei produttori” che superi modalità e vincoli della rendita (immobiliare e finanziaria) e assicuri solidità di poteri all'impresa “produttiva”. Possono contare su sindacati complici e una Cgil che pensa solo a “tornare ai tavoli”, ma attraversata anch'essa dalla durezza della crisi. Non si tratta dunque di gioire in modo acefalo per una caduta lungamente attesa o di cavillare spocchiosamente sul tasso di radicalità di questo o quel neosindaco. Si tratta di vedere, comprendere e invadere il campo della politica e del conflitto.
 

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