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Da Stato unitario a federale, tra decentramento e autonomia. Come opporsi?

Vincenzo De Robertis

Gennaio 2023

In una società divisa in classi sociali, come la nostra, l'attività legislativa e l'attività amministrativa di uno Stato non possono essere altro che il modo attraverso cui viene esercitato il potere della classe che domina, in alleanza con altre classi e strati sociali, ma a danno delle classi sociali ad essa antagoniste e per questo subalterne.
Il Parlamento ed il Governo con i Ministeri sono le Istituzioni centrali che svolgono rispettivamente l'attività legislativa e quella amministrativa, avvalendosi per queste loro attività di una struttura più o meno centralizzata o decentrata a seconda del livello di coesione sociale esistente nella società civile, coesione che è, a sua volta, l'espressione della capacità egemonica della classe dominante.
Non fa eccezione la storia del nostro Paese.

Sommario:
Decentramento amministrativo ed autonomie locali nello Stato Unitario
Le Regioni nella Costituzione del '47 e nel secondo dopoguerra
Le Regioni a statuto ordinario organi di decentramento amministrativo e non di autonomia
Le  Regioni: verso una maggiore autonomia ed una minore democrazia
Le Regioni fra autonomia e secessione
La Riforma costituzionale del Titolo V
L'attuazione dell'Autonomia differenziata delle Regioni
La proposta di Legge ad Iniziativa Popolare che modifica gli artt.116 e 117 Costituzione
Come opporsi a questo disegno perverso?
Conclusioni

* * *

Decentramento amministrativo ed autonomie locali nello Stato Unitario

Lo Stato unitario italiano, infatti, nacque nella seconda metà dell'800 all'insegna della ormai classica tripartizione dei poteri, ma con il predominio del Potere Esecutivo (Monarchia e Governo) sul Legislativo (Parlamento).

"Con lo Statuto Carlo Alberto cedette al "popolo" una parte del suo potere, prima assoluto, cioè il potere Legislativo, anche se il potere Legislativo ceduto "valeva al 50 % ", nel senso che il sistema previsto sulla Carta fu bicamerale alla maniera inglese, con una Camera eletta dal "popolo" ed un Senato di nomina regia.

Se per la Camera dei Deputati si poté parlare di una qualche "rappresentanza popolare" (con i necessari chiarimenti, sia per il sostantivo, che per l'aggettivo, derivanti dall'esame del meccanismo elettorale[1]), per il Senato il problema non si pose, perché questa Camera era formata direttamente dal Re, che con nomina vitalizia ne sceglieva i componenti selezionandoli fra ventuno categorie di "ottimati" (art.33 dello Statuto).

Il potere legislativo concesso al 50% non fu, comunque, assoluto ed indipendente dallo stesso re, che si riservava, comunque, la prerogativa di sciogliere le Camere ed indire nuove elezioni (art.9 dello Statuto)."

"…con lo Statuto il potere Esecutivo rimase saldamente nelle mani del re e questo fece del Governo un'emanazione esclusivamente regale, senza una vera e propria legittimazione parlamentare.[2]"

La pre-esistente frammentazione della Penisola in Stati e staterelli, insieme alla debolezza strutturale della nuova formazione statuale italiana, dovuta alla mancanza di ampio consenso popolare per il modo con cui si era pervenuti all'unità (sostanzialmente un'espansione territoriale del Regno sabaudo sostenuta da un blocco sociale composto da aristocrazia terriera e nuclei di borghesia industriale del Nord che si erano tirati dietro l'aristocrazia terriera del Sud, lasciando inalterati i rapporti economici arretrati di quei territori), costrinsero il nuovo Stato ad attrezzarsi con una struttura amministrativa fortemente accentrata, che aveva il suo perno centrale nel Prefetto, figura determinante per l'esercizio del controllo e dell'uniformità dell'attività amministrativa. I Prefetti erano affiancati da Comuni e Provincie, sin dall'inizio espressione del notabilato locale.

Uno Stato unitario con caratteristiche autoritarie ed un apparato amministrativo fortemente accentrato erano il prodotto di un processo storico che aveva visto escluse le masse popolari, a quell'epoca prevalentemente contadine. La responsabilità politica ricadeva sul Partito di Mazzini e Garibaldi, che non attrezzarono la loro battaglia per la democrazia e la repubblica con un programma agrario che colpisse il latifondo, spezzettandolo a vantaggio della piccola proprietà contadina, facendo così camminare il progetto di un nuovo Stato repubblicano sulle gambe dei contadini, come avevano fatto i giacobini in Francia. Né miglior fortuna ebbero le idee federaliste di Cattaneo e Ferrari.

Con le leggi 1888, volute da Francesco Crispi, si ebbe quella che la storiografia ha unanimemente definito la "seconda unificazione amministrativa" e qualche anno più tardi si ebbe anche l'elettività dei sindaci di tutti i comuni del Paese[3], allargando il diritto di voto anche ai piccoli villaggi rurali, in quei luoghi, cioè, dove maggiore era l'importanza economica e, quindi, l'egemonia politica del proprietario terriero.

Con Giovanni Giolitti si ebbe una spinta razionalizzatrice nell'ordinamento centrale e locale dello Stato che produsse il cosiddetto "decollo amministrativo" caratterizzato, fra l'altro, dalla crescita esponenziale degli impiegati civili e militari dovuta soprattutto all'aumento delle funzioni e dei compiti dello Stato: dai 98.354 dipendenti pubblici del 1883 si passò ai 286.670 del 1914, dalla radicale modificazione delle funzioni degli enti pubblici che, pressati dalle prime lotte popolari, iniziarono ad occuparsi anche di "servizi sociali" e di questioni "industriali" e d'impresa.

Con Giolitti accanto alle strutture ministeriali territoriali sorsero le cosiddette "amministrazioni parallele": come, per esempio, l'Ente Autonomo dell'Acquedotto Pugliese ed il Consorzio del porto di Genova, oppure si ebbe la creazione dei cosiddetti enti economici, come l'Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) o l'azienda delle Ferrovie di Stato - soprattutto la costituzione delle aziende municipalizzate. Le aziende municipalizzate vennero introdotte agli inizi del '900[4], quando Giolitti era Ministro dell'Interno. Si assegnava a tutti i comuni la facoltà di poter creare delle aziende specifiche nella gestione di "pubblici servizi", come la costruzione di acquedotti e fognature o la distribuzione di acqua potabile e l'esercizio dell'illuminazione pubblica.

Uno degli aspetti più importanti di questo periodo, fu la cosiddetta "rinascita comunale" che attestò una nuova e più incisiva presenza dei poteri locali nella vita politica ed amministrativa del Paese dovuta in primo luogo, alle riforme elettorali di fine Ottocento che portarono ad un cauto ma progressivo allargamento del suffragio; in secondo luogo, ad un continuo processo di inurbamento delle città a cui si accompagnò l'affermazione di nuove élite cittadine; e infine, ad un nuovo protagonismo politico testimoniato dall'ascesa di alcune forze politiche radicate nella società che rivendicarono una funzione di indirizzo politico e, soprattutto, dei luoghi di espressione e di rappresentanza politica.

Il Partito Socialista Italiano e i cattolici - quest'ultimi non ancora strutturati in un partito politico, come poco più tardi lo fu il PPI di Sturzo, ma organizzati in un composito e articolato arcipelago di associazioni e comitati radicati nel territorio - furono le due culture politiche emergenti d'inizio secolo che, pur avendo due visioni del mondo contrapposte, declinarono il proprio impegno politico negli ordinamenti locali come una delle attività più importanti della loro azione politica.

In definitiva, l'ordinamento politico-amministrativo del primo Novecento si caratterizzò per almeno tre importanti novità: innanzitutto, l'allargamento del blocco sociale artefice del processo unitario con il passaggio dal cosiddetto "Stato monoclasse" liberale e notabilare ad uno "Stato pluriclasse" in via di democratizzazione; in secondo luogo, una notevole espansione dell'apparato amministrativo a cui corrispose una altrettanto forte crescita delle spese dello Stato (per fare un solo esempio, è sufficiente ricordare che le spese degli enti locali, che nel 1899 erano state di 535 milioni, passarono, nel 1912, a 1 miliardo e 125 milioni). E infine una crescita dell'importanza politica ed economica dei comuni. I quali, da un lato, accrebbero le loro funzioni - in particolare con le aziende municipalizzate - e, dall'altro lato, videro lo sviluppo, all'interno delle proprie aule consiliari, di quei movimenti politici che sarebbero stati, successivamente, gli autentici protagonisti della vita politica del Novecento.[5]

Il processo unitario, che si concluse con la costituzione dello Stato italiano, per il modo come avvenne si portò appresso anche la c.d. "questione meridionale", cioè la differenziazione nello sviluppo economico fra Nord e Sud del Paese, dovuta all'arretratezza delle strutture produttive meridionali, quasi esclusivamente agricole e con rapporti produttivi semi-feudali.

La "questione meridionale", quale peccato originale dell'Italia unita, perpetuatasi nel tempo non ha mai conosciuto una sua definitiva soluzione, ma solo una parziale e temporanea attenuazione, come avvenuto nel secondo dopoguerra, ed oggi alimenta le spinte secessioniste di alcune Regioni settentrionali che si ritengono derubate per i pochi fondi statali destinati ad una parziale perequazione fra Enti del Nord e del Sud.

Con il ventennio fascista l'accentramento amministrativo conobbe la sua massima espressione. La nomina dei Prefetti e la scelta dei Podestà, che nei Comuni avevano sostituito i Sindaci, condizionata dall'appartenenza al Partito Nazionale Fascista come in tutte le altre articolazioni amministrative, toglievano ogni spazio ad una qualche forma di partecipazione democratica, inibita, per altro verso, dalla messa fuorilegge di tutte le altre formazioni politiche e dalla persecuzione dei loro capi.

Le Regioni nella Costituzione del '47 e nel secondo dopoguerra[6]

Sconfitto il fascismo e crollato il suo regime, il dibattito nell'Assemblea Costituente sulla necessità di istituire le Regioni come Ente intermedio fra Stato Centrale ed Autonomie Locali (Province e Comuni), se per un verso trovò terreno fertile nella concezione delle autonomie, già espressa da diverse correnti di pensiero, fra cui quella di Luigi Sturzo, padre nobile della Democrazia Cristiana[7], per altro verso subì il clima politico determinato in campo internazionale dalla "guerra fredda", per cui, prevalse, soprattutto nella Democrazia Cristiana, il timore che l'istituenda Regione potesse creare fattori di disomogeneità e disgregazione del nuovo Stato.

Invero, già nella primavera del 1947 si era creato in Italia un clima di forte contrapposizione politica, con la fine dei governi di ampia coalizione e la cacciata delle sinistre dal governo, su richiesta USA.

Occorre anche dire che ben quattro Regioni, Sicilia e Sardegna a sud e Valle d'Aosta e Trentino Alto Adige a nord, avevano acquisito per ragioni storiche e per contingenze politiche del momento, già prima della promulgazione della Carta Costituzionale, lo 'status' di "Regioni a Statuto speciale", con ampi margini di autonomia riconosciuti successivamente nella Carta[8], che qualche anno più tardi verranno estesi anche al Friuli-Venezia Giulia.

Per cui, non fu semplice raggiungere un compromesso sul modello di regione da istituire, evidentemente in primis di quelle a statuto ordinario. La connotazione che le Regioni assunsero inizialmente nella Costituzione del dicembre 1947 fu quella di Enti cerniera fra Stato Centrale ed Autonomie locali, ma senza una vera e propria autonomia decisionale e finanziaria, come si ricava dalla lettura dell'art.117 della Costituzione ante Riforma del 2001, con la sola eccezione della potestà di gestione del territorio regionale in collaborazione con i Comuni. Si finì, così, per caratterizzare questo nuovo ente in modo asimmetrico: superiore e differenziato nel ruolo e nella posizione rispetto alle altre autonomie, province e i comuni, e tuttavia fortemente subordinato, per poteri e funzioni, alle determinazioni parlamentari espresse con legge ordinaria dello Stato.

Il dettato costituzionale del '47 fu, dal punto di vista politico, l'espressione di un chiaro compromesso, ossia che nessuna delle forze politiche potesse 'utilizzare' questi enti come luoghi dove esercitare, attraverso un'autonomia giuridica di poteri e funzioni, anche un'autonomia propriamente politica.

Successivamente, in ragione dell'acuirsi dello scontro politico e del cambiamento di atteggiamento dei partiti di sinistra verso le Regioni, stante la possibilità di esprimere un modo diverso di amministrare la 'cosa pubblica' attraverso il governo di questi Enti, la DC si adoperò in ogni modo per bloccare la piena attuazione del dettato costituzionale sulle Regioni, procrastinando l'adozione di tutte quelle previsioni legislative (relative all'organizzazione delle elezioni, all'individuazione delle funzioni, degli uffici e del personale, ai rapporti finanziari tra le regioni e lo Stato) che, elencate nella IX Disposizione transitoria della Costituzione, non videro la luce fino al 1970, quando vennero istituite le regioni ordinarie eleggendo per la prima volta i consigli e adottando gli statuti. Infatti, nonostante tutti i governi a guida democristiana inserissero nel proprio programma la necessaria attuazione del titolo V della Costituzione, nulla accadde fino all'elezione dei consigli delle Regioni a statuto ordinario del 7 giugno 1970.

Si attese il finire degli anni Sessanta, quando, dopo il boom economico e lo scongelamento del sistema politico-partitico, sulla spinta delle lotte operaie, sociali e studentesche si aprì la stagione delle grandi riforme e vennero approvate tre leggi chiave che consentirono l'attuazione costituzionale delle regioni ordinarie: la legge che definiva le norme per la elezione dei consigli regionali delle regioni a statuto normale[9], quella relativa ai provvedimenti finanziari per l'attuazione dell'ordinamento regionale ed alla delega legislativa al governo per il passaggio delle funzioni e del personale statale alle regioni nelle materie di loro competenza ex art. 117, 1° co., Cost.[10], infine, quella relativa ai provvedimenti finanziari per l'attuazione delle regioni a statuto ordinario[11].

Le Regioni a statuto ordinario organi di decentramento amministrativo e non di autonomia

In questa prima fase prevalse l'esigenza di omogeneizzare su tutto il territorio nazionale la nuova istituzione, modellandone le caratteristiche sulla base delle istituzioni centrali: sistema elettorale proporzionale, Presidente e Giunta eletti dal Consiglio regionale. Gli stessi Statuti, che teoricamente dovevano essere le Costituzioni elaborate autonomamente dalle nuove regioni, furono di fatto concertati in modo omogeneo con il Parlamento. "Da questo procedimento di approvazione scaturì una forte omologazione tanto nella struttura quanto nei contenuti e quelle carte di autonomia che dovevano definire le caratteristiche, anche simbolico-culturali, di ciascuna realtà territoriale, nei fatti divennero carte giuridiche con mere differenziazioni formali, ma non molto di più" (De Siervo 1974).

Negli anni successivi fu completato il trasferimento delle funzioni elencate nell'art. 117 della Costituzione e l'ambito di intervento delle regioni si ampliò, fino a che l'oggetto della legislazione regionale rappresentò quasi un quarto del bilancio nazionale, in particolare a seguito del trasferimento di settori relativi alla gran parte dei servizi sociali e alla gestione del territorio.

"Ma è soprattutto dal 1997, nell'ambito della riforma della pubblica amministrazione e dell'opera di semplificazione dell'attività amministrativa, che si è avviata una politica di decentramento, attraverso la legge n. 59/1997 (cosiddetta legge Bassanini), contenente la delega al governo per il conferimento alle regioni e agli enti locali delle funzioni e dei compiti amministrativi, e il successivo decreto di attuazione[12] della suddetta delega che ha realizzato il conferimento di funzioni e compiti agli enti locali di alcune materie espressamente indicate e riunite in quattro settori: sviluppo economico e attività produttive; territorio, ambiente e infrastrutture; servizi alla persona e alla comunità; polizia amministrativa regionale e locale e regime autorizzatorio."[13]

Nonostante tutto, però, le Regioni rimasero espressione di un mero decentramento amministrativo, piuttosto che espressione di una vera autonomia decisionale, come testimonia tutta la vicenda dell'approvazione dei relativi Statuti.

"L'autonomia, infatti, consiste nel potere dell'ente di determinare liberamente le proprie regole di organizzazione e azione, seppur all'interno della "cornice" delineata dal Legislatore nazionale. Per decentramento amministrativo si intende, invece, la dislocazione di poteri e funzioni tra i diversi uffici della pubblica amministrazione, favorendone l'esercizio a livello locale, nella convinzione che le realtà territoriali, proprio per il maggior grado di prossimità ai singoli, siano in grado di assicurare una risposta più adeguata ed efficiente alle istanze della collettività, favorendone anche il coinvolgimento nella vita politica."[14]

Quello che si realizzò fu un decentramento amministrativo non privo di conflitti con lo Stato centrale, che non di rado finirono per risolversi con giudizi di fronte alla Corte costituzionale, per prevenire i quali era stato istituzionalizzato, a partire dal 1983, il sistema delle Conferenze (in primis la Conferenza Stato-regioni).

Va aggiunto, inoltre, che lo scontro sociale e politico durato tutto il corso degli anni '70 fino agli inizi degli anni '80, con l'azione politica di un forte Partito Comunista e la presenza di consistenti movimenti giovanili alla sua sinistra, imponeva a tutti i livelli leggi elettorali proporzionali e non consentiva che solo si potesse immaginare un sistema politico basato sulla filosofia del maggioritario, che ha, invece, acquisito un senso solo quando l'omogeneità delle forze politiche in campo ha consentito l'alternanza al potere di schieramenti diversi e contrapposti solo in apparenza, mentre le minoranze politiche, reale espressione delle classi subalterne, sono state tagliate fuori dal gioco politico.

Le  Regioni: verso una maggiore autonomia ed una minore democrazia

Alla fine degli anni '80 e nei primi anni '90 inizia a cambiare la musica: cade il Muro di Berlino e con esso la contrapposizione dei due blocchi, entra in crisi la credibilità del sistema democratico italiano basato fino a quel momento sui Partiti di massa per i grossi scandali di corruzione che li vedono coinvolti, viene messa in discussione la logica del proporzionale che imponeva il compromesso come arte della politica e consentiva anche ai piccoli partiti di avere una propria rappresentanza nelle assemblee elettive e con il cd "mattarellum"  si introduce per la prima volta nel sistema politico nazionale una legge elettorale maggioritaria.

Il sistema politico viene, così, artatamente orientato verso un bipolarismo di facciata, sotto molti aspetti estraneo alla storia politica italiana, per decenni caratterizzata nella neonata Repubblica da una pluralità di posizioni politiche e di partiti, mentre le Assemblee elettive (Parlamento, Consigli regionali, provinciali e comunali) perdono sempre più il ruolo centrale e dominante in quanto espressione della sovranità popolare, a tutto vantaggio degli organi esecutivi (Governo, Giunta regionale e Sindaco).

Il Sindaco, la Giunta ed il Consiglio Comunale sono i primi organi a patire la trasformazione imposta dal nuovo clima istauratosi nel Paese.

Viene introdotta l'elezione diretta del sindaco e, contestualmente, la facoltà di nomina dei componenti della giunta da parte dello stesso, mentre in precedenza, sia il sindaco, sia la giunta erano eletti dal consiglio comunale[15]. In questo modo la forma di governo del Comune, in precedenza riconducibile al modello parlamentare vigente, venne avvicinata ad un modello presidenziale. La stessa legge fissa in quattro anni la durata del mandato del sindaco (art. 2), successivamente portati a cinque.[16]

L'elezione diretta del Sindaco mette in moto un processo di trasformazione "dal basso" della vita politica che vede nel "civismo", cioè il proliferare di liste elettorali agganciate ad un candidato-Sindaco, ma staccate dai grossi partiti nazionali, il fenomeno nuovo capace di trasformare in peggio il sistema politico complessivo.

Infatti, a fronte di uno screditamento dei partiti politici nazionali per effetto della citata corruzione, fustigata dai processi penali del periodo "mani pulite", le liste civiche comunali si presentano, per un verso come un'alternativa credibile, costituita da semplici cittadini; cittadini per lo più estranei ai partiti locali, che nascondono, talvolta, la propria esigenza di ottenere un beneficio diretto con l'appoggio al candidato-Sindaco. Indirettamente si favorisce in modo progressivo una concezione dell'impegno politico sganciato da visioni ideologiche e programmi generali, ma agganciato ad un interesse di piccolo gruppo, se non addirittura individuale. L'interesse 'particulare', spesso personale, in sostituzione dell'interesse generale.

Per un altro verso si introducono nel sistema elettorale comunale e provinciale elementi di maggioritario, perché Sindaco e Presidente di Provincia, non essendo più eletti nei rispettivi Consigli da una maggioranza di Consiglieri, ma direttamente dai cittadini, finiscono per essere espressione di una minoranza di elettori, quella più consistente rispetto alle altre.

Per un altro verso ancora si afferma la logica dell'uomo solo al comando, infatti il Sindaco si sceglie la Giunta e con essa conduce in autonomia la propria attività amministrativa, potendo far decadere il Consiglio Comunale, se decide di dimettersi, mentre il Consiglio non può far decadere il Sindaco, se la maggioranza dei suoi componenti non decide ufficialmente l'autoscioglimento e l'indizione di nuove elezioni comunali.

Alla legge sull'elezione diretta del Sindaco e del Presidente di Provincia seguì presto quella sull'elezione diretta del Presidente di Regione, che, però, a differenza del caso degli enti locali aveva come ostacolo a possibili riforme il dettato della Costituzione, che imponeva la nomina del Presidente della Regione da parte del Consiglio Regionale.

In più, le elezioni politiche anticipate del 1994 resero del tutto improbabile l'ipotesi di una riforma costituzionale in tempo per il previsto appuntamento elettorale regionale della primavera del 1995. Fu così che nel Parlamento della XII legislatura maturò un'intesa bipartisan fondata sul comune accordo per non lasciare le Regioni in un contesto elettorale proporzionale, oramai avulso rispetto a quello degli altri livelli governativi.

La prima seria modifica al sistema elettorale delle Regioni si ebbe così con un'altra legge nazionale, la legge n.43 del 1995, detta "legge Tatarella", dal nome del suo ideatore, neo-fascista e Parlamentare di Alleanza Nazionale. Il "Tatarellum", su di un impianto totalmente proporzionale, com'era quello della legge n.108/68, introdusse un "timido" elemento maggioritario, limitato solo ad un quinto dei Consiglieri da eleggere all'interno di una lista regionale (cd "listino"), da presentare insieme con le liste circoscrizionali a cui doveva collegarsi (art.1, c.3).

Successivamente la legge costituzionale n.1 del 1999, da un lato modificò l'art.122 della Costituzione ed impose l'elezione diretta del Presidente della Giunta Regionale, dall'altro lasciò facoltà alla Regioni di auto-regolamentarsi attraverso l'elaborazione di propri Statuti che disciplinassero regole elettorali, numero dei Consiglieri e quant'altro attinente il funzionamento dell'Istituzione (artt.2 e 3).

Dopo l'approvazione della legge costituzionale n.1/99 tutte le Regioni provvidero a dotarsi di leggi elettorali e Statuti in sintonia con il clima nazionale che buttava nella direzione del presidenzialismo e di un bipolarismo forzato, ottenuto per il tramite di un meccanismo elettorale maggioritario e delle soglie di sbarramento. Qualche anno più tardi un'altra legge nazionale[17] ipocritamente raccomandò i Consigli Regionali ad attenersi nell'elaborazione della normativa elettorale a principi "che assicurassero la rappresentanza delle minoranze".

Inizia così una produzione differenziata, regione per regione, della normativa in materia elettorale, che vede come elementi comuni l'elezione diretta del Presidente della Regione, che qualcuno chiama già Governatore, e l'introduzione nelle leggi elettorali di elementi di maggioritario, più o meno accentuati, che unitamente ad altri elementi, come le soglie di sbarramento, allontanano fette sempre più grosse di elettorato dal voto e consegnano la governabilità dell'Ente alla minoranza più consistente.

Dopo la realizzazione di un ampio decentramento amministrativo si raggiungeva per questa strada l'agognato traguardo di un'autonomia regionale nella elaborazione ed approvazione dei propri Statuti, precedentemente concordati, invece, con il Parlamento nazionale. Ma questo risultato combaciava con la perdita di democrazia evidenziata da sistemi elettorali che tagliavano fuori dai Consigli fette consistenti di elettorato e che ridimensionavano importanza e ruolo dell'assemblea elettiva rispetto alle figure esecutive di Sindaco, Presidente di Provincia e di Regione.

Le Regioni fra autonomia e secessione

Contemporaneamente al processo che portava l'assetto amministrativo dello Stato verso il più ampio decentramento e verso le prime forme di autonomia, ancorché penalizzate da una minore partecipazione democratica,  si verificava la crescita, verso la fine degli anni '80 e nel corso di tutti gli anni '90, del fenomeno del leghismo con la formazione della Lega Nord, capeggiata da Umberto Bossi.

Un fenomeno, quello della Lega, da non confondere con il movimento democratico per il decentramento e l'autonomia in quanto obbiettivo della Lega sin dall'inizio era ed è ancora oggi quello della secessione, cioè del distacco dallo Stato nazionale di alcune regioni, quelle economicamente più sviluppate del Nord del paese. Non è un caso, infatti, che il nome completo della Lega nel suo statuto, tuttora vigente, sia quello di "Lega Nord per l'indipendenza della Padania".

Il rischio di una spaccatura del Paese era stata una preoccupazione dei Costituenti che nell'art.5 della Carta avevano voluto conciliare unità, decentramento ed autonomie nel nuovo Stato repubblicano che usciva dal ventennio fascista.

L'art.5 della Costituzione recita, infatti: "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento".

La prima parte dell'art. 5 qualifica la Repubblica italiana come una e indivisibile. "L'unità allude ad una integrazione normativa tra i vari livelli di governo e ad una (ben più difficile) unitarietà di valori e principi condivisi. Unità, quindi, non solo dal punto di vista territoriale e strettamente politico, ma anche e soprattutto valoriale, nel perseguimento di un processo di integrazione del popolo italiano, all'insegna dei principi solidaristici e dei diritti e doveri fondamentali sanciti in Costituzione. L'indivisibilità si riferisce invece al carattere inscindibile della Repubblica, che non può essere smembrata né frazionata in Stati indipendenti, rappresentando quindi un limite tassativo e inderogabile ad un'eventuale separazione territoriale"[18].

Quello della indivisibilità è un principio che avrebbe dovuto già condurre gli organi dello Stato preposti a reprimere e perseguire per tempo una formazione politica, come la Lega, che nel proprio statuto e programma contempla il proposito eversivo della secessione dallo Stato centrale di una serie di Regioni, "per l'indipendenza della Padania". Invece tutto questo non è avvenuto, anzi si è data la possibilità a questa forza politica di partecipare alle elezioni e di entrare in coalizioni che l'hanno poi inserita nel governo del Paese.

La sub-cultura alimentata dalla Lega nelle regioni settentrionali rovescia la "questione meridionale", facendo delle zone economicamente più sviluppate del Paese quelle più penalizzate, in quanto costrette a subire maggiormente l'onere di dover finanziare con le proprie risorse un apparato burocratico-amministrativo creato principalmente per assistere le popolazioni meridionali. Questo il vero significato dello slogan "Roma ladrona".

Ometteva volutamente la Lega di dire che la politica statale, attuata nelle varie stagioni degli oltre 150 anni di vita dello Stato italiano, era stata caratterizzata da costante incentivazione allo sviluppo economico delle aree del Nord del Paese, mentre al Meridione veniva assegnato fondamentalmente il ruolo di fornitore di manodopera a basso costo e di mercato di assorbimento dei prodotti delle industrie del nord.

Da questa parziale e falsa narrazione la Lega ricavava la rivendicazione del cosiddetto "residuo fiscale", definito come la differenza fra quanto denaro, riveniente da tributi, una Regione versa allo Stato e quanto dallo Stato, direttamente o indirettamente, ne riceve sotto forma di servizi. Vi è in questa definizione una molteplicità di non-verità che finisce per distorcere la realtà del Paese.

In primo luogo la tassazione principale, sia quella diretta sui redditi delle persone fisiche e delle imprese,  che quella indiretta sui consumi, è attività esercitata direttamente dallo Stato e non da Enti Locali, come Regioni e Comuni, i quali hanno, invece, la possibilità di esercitare direttamente un'attività di riscossione di tasse e tributi sui propri cittadini, o sotto  forma di addizionali ai redditi principali, oppure su specifiche materie, come la proprietà di immobili (IMU), di autovetture (ex tassa di circolazione), servizi comunali (spazzatura) ecc.

Il rapporto diretto fra Stato e Cittadino-Impresa, che viene ad instaurarsi con la tassazione basata su aliquote differenti in relazione al reddito annualmente percepito, o al tipo di prodotto per la tassazione indiretta (IVA), esclude una partecipazione diretta nella riscossione da parte delle Regioni a statuto ordinario, che ricevono, invece, trasferimenti dallo Stato per erogare servizi ai propri cittadini, come sanità e scuola.

Dire, quindi, che "le Regioni versano allo Stato le tasse" è quanto meno un'inesattezza. Inoltre, il calcolo di ciò che si riceve dallo Stato non può ridursi solo alla sanità ed alla scuola, ma deve ricomprendere molto altro, come le infrastrutture (strade, aeroporti, ferrovie, ecc.), o i servizi amministrativi (ad es. la giustizia), per non parlare del debito pubblico che lo Stato contrae per garantire i servizi ai cittadini, debito pubblico che non sembra interessare la propaganda della Lega.

Infine, la parola "cittadino" è un'astrazione, dentro cui si nasconde una realtà sociale (e quindi contributiva) estremamente variegata. Di fronte al fisco un conto sono i lavoratori dipendenti o i pensionati, che da soli rappresentano più dell' 80%  del gettito fiscale che grava sul loro reddito, un altro conto sono le imprese. E siccome il nostro sistema fiscale non prevede che il lavoratore dipendente o il pensionato versi lui direttamente allo Stato le imposte sul suo reddito, ma che questo lo faccia il sostituto di imposta, cioè il datore di lavoro alle cui dipendenze lavora, ne discende di conseguenza che se io lavoro al Sud, ma alle dipendenze di una società che ha sede fiscale al Nord, le tasse sul mio reddito figureranno come versate al Nord.

Analoga distorsione possiamo verificare sulle imposte indirette che gravano sui consumi, come l'IVA. Infatti se le grandi Aziende che producono beni e servizi hanno la sede legale in regioni del Nord, l'IVA incamerata sarà versata allo Stato figurando come gettito fiscale di quelle regioni, anche se merci e servizi saranno distribuiti su tutto il territorio nazionale.

La Riforma costituzionale del Titolo V

In questo clima di attenzione e sotterranea condivisione del substrato culturale leghista è nata la Riforma del Titolo V della Costituzione, presentata anche dai partiti di sinistra come la prosecuzione del processo di decentramento ed autonomia che qualche anno aveva visto l'approvazione della legge Bassanini. In realtà si trattava di una cesura rispetto al processo condotto fino a quel momento. Veniva radicalmente cambiato il rapporto Stato-Regioni, estendendo a queste ultime la facoltà di rivendicare la potestà legislativa, non assegnata espressamente allo Stato.

Lo Stato, ad esempio, che fino a quel momento aveva "conferito" con il decentramento alcuni suoi servizi alla potestà amministrativa regionale, perdeva la sua posizione di primazia e veniva posto 'alla pari' con gli altri Enti locali, anzi menzionato in coda all'elencazione. Il nuovo articolo 114, infatti, così recita:" "la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione".

L'aspetto più rilevante, a mio avviso, della Riforma costituzionale del 2001 è la modifica dell'art.117 che prima indicava chiaramente le materie di competenza legislativa regionale e quelle riservate invece allo Stato, mentre nell'attuale formulazione ha ridotto le materie o gruppi di materie di esclusiva competenza statale ed ha proposto un elenco di ben 23 materie oggetto di potestà legislativa concorrente Stato-Regioni, rispetto alle quali lo Stato mantiene solo il potere di determinare i principi fondamentali cui deve improntarsi l'attività normativa: "spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato" (art. 117 quarto comma Cost.).

L'art.116, rinnovato dalla Riforma, definisce, invece, in maniera sommaria la procedura attraverso cui le Regioni possono chiedere al Governo un'intesa per la gestione autonoma della potestà legislativa su alcune o tutte le 23 materie elencate nell'art.117, fra cui non bisogna dimenticare vi sono materie come scuola, sanità ed infrastrutture. Tale intesa, per diventare legge, sarà poi approvata dalle Camere a maggioranza assoluta, senza possibilità di modifica, essendo norma pattizia.

E la natura pattizia della norma, assimilata da una parte della dottrina giuridica alle intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica (protestanti, ebrei, induisti, ecc.), esclude pure la possibilità che la stessa legge-intesa sia sottoposta successivamente a Referendum, essendo esclusa, per tale natura, anche la possibilità di una sua modifica senza il consenso della Regione interessata.

Come si comprende chiaramente siamo di fronte ad una blindatura vera e propria, che non prevede un ritorno indietro senza il consenso della Regione interessata, e che assegna al Parlamento solo il ruolo di ratificatore di scelte adottate dal Governo su materie di estrema importanza, senza possibilità di modificarle.

In questo modo anche l'Autonomia differenziata delle Regioni opera in armonia con la tendenza, da tempo in atto nel nostro Paese, che svuota il Parlamento delle sue funzioni e privilegia l'attività del potere Esecutivo a discapito del Legislativo.

La riforma del Titolo V della Costituzione è entrata in vigore l'8 novembre 2001 dopo un lungo iter normativo. Infatti, essendo stata approvata con una maggioranza inferiore a quella richiesta per una legge costituzionale (maggioranza qualificata dei due terzi dei membri delle Camere durante tutte e 4 le votazioni), tale legge veniva sottoposta a referendum il 7 ottobre 2001, il quale si concludeva, purtroppo, con esito favorevole all'approvazione della legge (il 64% dei votanti per il SI), grazie anche ad una propaganda mistificatrice che presentava la riforma costituzionale come il completamento del decentramento amministrativo.

Dopo l'approvazione della Riforma del Titolo V per molti anni la procedura di trasferimento delle competenze legislative, così come scritto dalla riforma del 2001, non ha trovato attuazione, mentre si creava un contenzioso notevole fra Stato e Regioni che portava la Corte Costituzionale ad intervenire spesso per ridimensionare le velleità autonomistiche di varie Regioni in particolar modo di quelle a guida leghista.

Successivamente, all'interno di una tornata referendaria, quella del 2006, che chiamava i cittadini a pronunciarsi su vari argomenti, prevalentemente imperniati su un ridimensionamento dei poteri del Parlamento, veniva inserito anche il quesito relativo alla cosiddetta 'devoluzione' alle regioni della potestà legislativa esclusiva in alcune materie come organizzazione scolastica, polizia amministrativa regionale e locale, assistenza e organizzazione sanitaria. La maggior parte dei votanti non ne condivise l'impostazione e la proposta fu bocciata con le altre.

Qualche anno più tardi la legge n. 42 del 2009, di delega al Governo in materia di federalismo fiscale, disponeva, all'articolo 14, che con legge adottata ai sensi dell'articolo 116, 3° comma, si sarebbe dovuto provvedere anche all'assegnazione delle necessarie risorse finanziarie con il trasferimento delle competenze legislative.

L'attuazione dell'Autonomia differenziata delle Regioni

Nel 2017 la Lega Nord, attraverso due referendum consultivi in Veneto e Lombardia, rilanciava la campagna per la secessione della Padania, riprendendo la teoria del "residuo fiscale", secondo cui i cittadini delle regioni più sviluppate economicamente avevano diritto a maggiori servizi rispetto ai cittadini delle regioni meno sviluppate, con buona pace di tutta la storia del Paese e di tutti i principi di solidarietà e perequazione contenuti in Costituzione.

Pochi mesi dopo, febbraio 2018, il Governo Gentiloni, dimissionario perché le elezioni si sarebbero tenute a marzo, firmava con tre Regioni richiedenti, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, le pre-intese che ai sensi del 3° comma dell'art.116 avviavano il procedimento di trasferimento a quegli Enti delle competenze legislative. Il tutto nel più totale silenzio dei media e della stampa nazionale e locale, senza nessun dibattito in Parlamento, nonostante che la riforma avviata modificasse sostanzialmente la forma dello stato unitario, introducendo in maniera surrettizia il federalismo.

Si deve all'azione di denuncia avviata da costituzionalisti come Massimo Villone, da professori come Gianfranco Viesti, autore del volume, distribuito gratuitamente dalla Casa Editrice Laterza, "La secessione dei ricchi", da giornalisti come Marco Esposito, autore dell'inchiesta-volume "Zero al Sud", se il tema dell'Autonomia differenziata delle Regioni sia prepotentemente entrato nel dibattito politico, disvelando l'inganno che conteneva.

Essendo rimaste bloccate ed inattuate durante tutti i governi che si sono succeduti nella XVIII Legislatura le pre-intese stipulate da Gentiloni con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, il Governo Meloni e la Lega che lo sostiene hanno posto ora a base delle riforme istituzionali che vorrebbero attuare in questa Legislatura l'Autonomia differenziata delle Regioni ed il Presidenzialismo.

Roberto Calderoli, autore della Legge elettorale da lui stesso definita "una porcata", ora Ministro senza portafoglio per gli affari regionali e le autonomie, si è reso garante dell'attuazione di quelle intese ed ha fatto inserire nella Legge di Bilancio per il 2023 le risorse economiche per dare corso a quelle pre-intese ed ha presentato al Governo un disegno di legge che dovrebbe aprire la strada anche a tutte le altre Regioni che volessero accedere all'Autonomia.

Con il d.d.l. Calderoli nasce la Cabina di Regia con un budget di 500mila euro annui e un minimo di otto membri: Meloni presidente, poi Calderoli e Giorgetti della Lega, Casellati per Forza Italia e Fitto per Fratelli d'Italia oltre a Fedriga (Friuli, Lega) per le Regioni, De Pascale (Ravenna, Pd) per le province e Decaro (Bari, Pd) per i Comuni. Secondo organismo politico è la Commissione Bicamerale Affari regionali, composta da dieci deputati e dieci senatori, mentre il ruolo tecnico più importante, secondo la legge, spetterà alla Commissione tecnica fabbisogni standard (Ctfs). C'è poi da nominare una Segreteria tecnica, targata quasi tutta Calderoli, con dodici persone e personale tecnico per il Ministro Giorgetti. Nei tre anni 2023-2025 il costo calcolato per far partire l'autonomia differenziata sarà di 6,6 milioni.

Principale compito delle strutture tecniche e politiche è fare una ricognizione, stimare costi e fabbisogni ed infine determinare i LEP, sigla ormai nota che sta per Livelli Essenziali delle Prestazioni concernenti i diritti civili e sociali minimi che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, come dice la Costituzione. La tempistica di Calderoli prevede che entro dicembre 2023, la Cabina di regia predisponga gli schemi di Dpcm, cioè di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, Dpcm poi adottati dopo l'intesa con la Conferenza Unificata, quella che riunisce Stato ed Enti locali.

Con la definizione dei LEP entro gennaio 2024 si concluderà la parte prevista per legge e toccherà alle Regioni chiedere al Governo una pre-intesa per la gestione della potestà legislativa su una o più materie (fino a un massimo di 23). Dopo di che le pre-intese saranno inoltrate alla Commissione bicamerale per il parere, che, peraltro, non sarà vincolante per il Governo. Anzi, nella versione del 29 dicembre 2022 della bozza Calderoli (che peggiora sul punto i testi precedenti) il Governo non sarà neppure tenuto a motivare, se si discosta dalle indicazioni della Bicamerale.[19]

La proposta di Legge ad Iniziativa Popolare che modifica gli artt.116 e 117 Costituzione

Come si può notare Calderoli ha predisposto fin nei dettagli un percorso stringente che punta ad attuare l'Autonomia differenziata delle Regioni entro il 2025. Un percorso in cui il Parlamento non viene per nulla chiamato ad esprimere il proprio parere e decidere su argomenti che ne svuotano le funzioni, trasformando irreversibilmente la struttura dello Stato, da unitario a federale e che incidono potenzialmente sulla fruizione dei diritti da parte dei cittadini delle diverse zone del Paese. Considerando, anche, che se i LEP (che sono pur sempre i livelli minimi) non dovessero essere definiti nei tempi previsti, opererà sempre la famigerata "spesa storica" che per decenni ha contrassegnato il divario di cittadinanza Nord-Sud.

Come opporsi a questo disegno perverso?

Una proposta di Legge ad Iniziativa Popolare è stata elaborata dal Prof. Massimo Villone e da altri costituzionalisti, oltre che da intellettuali e dai principali Sindacati della scuola. Essa prevede una modifica degli artt.116 e 117 del Titolo V della Costituzione. E' già partita a novembre la raccolta delle firme che si concluderà dopo sei mesi ed in favore di essa si sono già pronunciati i Sindacati della scuola che l'hanno fatta propria ed importanti associazioni nazionali come l'ARCI e l'ANPI.

Per quanto riguarda l'art.116, viene proposta la modifica del 3° comma, che riguarda la procedura attraverso cui le singole Regioni potranno accedere all'autonomia legislativa dallo Stato centrale.

Innanzi tutto vi deve essere una giustificazione determinata dalla specificità del territorio perché una Regione possa chiedere la propria autonomia decisionale su di una particolare materia fra quelle che il successivo articolo 117 contempla. Questa "giustificazione" non è prevista dall'attuale formulazione del 3° comma e ciò ha provocato da parte della Regione Veneto una richiesta comprensiva di tutte le materie che elenca l'art.117, qualcuna in meno la Lombardia e ancor meno l'Emilia-Romagna.

In secondo luogo, diventa necessario sentire le altre Regioni interessate quando lo Stato deve cedere alcune sue prerogative legislative a singole Regioni che le chiedono, al fine di non predeterminare un eventuale danno alle altre Regioni nel rispetto degli artt.117 e 119, posti proprio a tutela della coesione nazionale.

In terzo luogo, la modifica proposta contempla la possibilità di un Referendum da richiedersi nelle modalità previste per questo istituto (quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali), ove si riscontrassero subito dopo l'approvazione delle negatività sfuggite o non valutate durante la discussione parlamentare, oppure ove quelle negatività si riscontrassero a distanza di tempo dalla sua attuazione.

Oltre alla modifica del terzo comma dell'art.116 la Legge ad Iniziativa Popolare prevede anche la modifica dei primi tre commi dell'art.117.

La formulazione del primo comma dell'art.117 subisce una modifica sostanziale, perché viene introdotto il principio della supremazia della legislazione nazionale su quella regionale "quando lo richiede la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale. La legge regionale non può in alcun caso porsi in contrasto con l'interesse nazionale".

Questo consente allo Stato di intervenire nelle materie devolute alla legislazione regionale, quando questa dovesse entrare in contrasto con l'interesse nazionale. Tutto ciò non è consentito dalla formulazione attuale dell'art. 117, 1°comma.

Il secondo e terzo comma dell'art.117, invece, disciplinano rispettivamente la legislazione esclusiva dello Stato e quella concorrente fra Stato e Regioni. Nelle materie dove vige la legislazione concorrente lo Stato fissa i principi generali e le Regioni li attuano con proprie leggi.

Il 2° comma dell'art.117, che, come detto prima, elenca le materie dove legifera solo lo Stato, attraverso il Parlamento, viene modificato dalla L.I.P. nel senso che vengono precisate alcune questioni di natura fiscale e vengono introdotte materie importanti, come scuola, sanità, previdenza sociale ed infrastrutture, che attualmente rientrano, invece, nella legislazione concorrente.

Inoltre, il termine Livelli Essenziali di Prestazione (LEP) è sostituito dal termine Livelli Uniformi delle Prestazioni che esprime meglio l'esigenza di uniformare in tutto il territorio nazionale la fruizione dei diritti e delle prestazioni garantite dallo Stato.

Come si può notare la L.I.P. non si prefigge di rimodificare l'intero Titolo V, impresa che potrebbe risultare impossibile stante il fronte eterogeneo che nel tempo si è venuto a coagulare sull'autonomia regionale. Essa interviene sterilizzando gli effetti più nefasti che si potrebbero determinare con la normativa ora vigente che, fra gli altri danni, crea nella fruizione di diritti fondamentali, come l'istruzione e la salute, cittadini di serie A e cittadini di serie B in base al luogo di nascita o di residenza.

Inoltre, questa proposta di legge ha, fra l'altro, lo scopo di rimettere al centro del processo legislativo il Parlamento, principale espressione della sovranità popolare, impedendo che su temi che incidono sulla struttura dello Stato e sulla parità di diritti possano decidere solo organi 'tecnici' o capi di Partito e/o Presidenti di Regione.

Una norma approvata negli ultimi anni impone al Senato di prendere in esame le proposte di legge ad iniziativa popolare, che, invece, prima venivano lasciate ammuffire nei cassetti. Ciò non significa che la legge messa in discussione sia automaticamente approvata. Quello che è determinante in questa battaglia, a mio avviso, è la capacità di coinvolgere nel dibattito i più ampi strati dell'opinione pubblica, evitando di restringere a pochi settori il sostegno alla legge, in modo da raccogliere un numero di firme tale da imporre attenzione.

Si può firmare anche on-line con lo SPID, cliccando su questo link:

http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/raccolta-firme-proposta-di-legge/

Conclusioni

Stiamo attraversando un periodo di grandi trasformazioni istituzionali e costituzionali.
Federalismo selvaggio (alias secessione) e presidenzialismo sono i programmi di questo Governo, che trovano sponde in altre forze politiche, formalmente collocate all'opposizione. Questo processo reazionario ha come filo conduttore il ridimensionamento del ruolo centrale del Parlamento a vantaggio del potere esecutivo (Governo, Presidenza della Repubblica e/o Presidenza del Consiglio).
La battaglia per difendere gli assetti istituzionali, così come definiti in Costituzione, resta una trincea importante su cui concentrare le forze di quanti si oppongono alla deriva autoritaria e reazionaria in atto.

Note:

[1] Lo Statuto albertino non conteneva al suo interno una legge elettorale, ma solo il principio elettivo del potere legislativo, come lo contenevano, peraltro, le altre costituzioni promulgate sotto la spinta dei moti del 1848 (Regno di Napoli, Granducato e Stato Pontificio); mentre le repubbliche costituitesi in quello stesso anno (Milano a maggio, Venezia a giugno e Roma a dicembre) già alzavano il vessillo dei sistemi elettorali a suffragio universale.

La legge elettorale venne varata poco dopo, il 18 marzo 1848, e prevedeva il diritto di voto per "censo" e titolo di studio: potevano votare, infatti, gli ultra-25enni, forniti di titolo di studio adeguato o che contribuivano al fisco per un importo di £.40 annue. Esclusi gli analfabeti, che nel 1871 erano il 72.96 % della popolazione. "Di conseguenza non più di 530mila cittadini avevano diritto di voto [nel 1871] su una popolazione di 27milioni, e cioè l'1,98 %". G.Salvemini "L'età giolittiana"

[2] Gli argomenti trattati sono attinti dal volume Storia dello Stato italiano dall'Unità ad oggi a cura di Raffaele Romanelli. Donzelli editore. Roma 1995 e sono stati esposti più diffusamente nel Cap. VI del mio libro A.Gramsci e l'Unità d'Italia, reperibile sul sito www.resistenze.org

[3] Legge n. 346 del 29 luglio 1896

[4] Legge n. 103 del 29 marzo 1903

[5]  Tutti gli argomenti trattati qui sommariamente, sono reperibili integralmente sul sito  Comuni e province dell'Italia liberale (150anni.it)

[6] Per un approfondimento degli argomenti trattati in questo paragrafo, è utile consultare "L'esperienza degli statuti regionali" di Francesco Clementi (2015)

[7] Nel III Congresso nazionale del partito, a Venezia, nell'ottobre del 1921, Sturzo sostenne infatti una riforma amministrativa dello Stato che, partendo dalle autonomie locali, riconoscesse un ruolo giuridico alle regioni. Queste, dal suo punto di vista, non dovevano essere meri enti amministrativi, espressione di un decentramento, quanto piuttosto enti rappresentativi, elettivi e autonomi, con poteri sia amministrativi sia legislativi.

[8] Per l'aggravarsi delle spinte separatiste ‒ che consentirono alla Sardegna di dotarsi di una Consulta e di un Alto commissario (d. legisl. 28 dic. 1944 nr. 417), alla Valle d'Aosta di un governo locale (d. legisl. 7 sett. 1945 nr. 545), alla Sicilia di uno statuto elaborato all'interno della sua Consulta regionale, poi semplicemente recepito dallo Stato italiano (r.d. legisl. 15 maggio 1946 nr. 455), e al Trentino- Alto Adige di adottare ordinamenti autonomistici in base agli accordi De Gasperi-Gruber del 5 settembre 1946 ‒ il contesto politico-culturale del dibattito precostituente e poi di quello costituente si presentò decisamente favorevole ad affrontare il tema del regionalismo nel nostro Paese, senza più forti remore.

[9] Legge 17.02.1968 nr. 108

[10] Legge 16.05.1970 nr. 281

[11] Legge 23.12.1970 nr. 1084

[12] D.lgs. n. 112/1998

[13] "Decentramento amministrativo" - Enciclopedia on line TRECCANI

[14] "L'articolo 5 della Costituzione: unità e indivisibilità della Repubblica. Contenuto, finalità e implicazioni della norma"

di Irene Marconi - Avvocato.  Pubblicato on line il 26/05/2021.

[15] Legge 25 marzo 1993 nr. 81

[16] Art. 7, Legge 30 aprile 1999  nr. 120

[17] Legge n.165 del 2004

[18] "L'articolo 5 della Costituzione: unità e indivisibilità della Repubblica. Contenuto, finalità e implicazioni della norma"

di Irene Marconi - Avvocato.  Pubblicato on line il 26/05/2021.

[19]M.Esposito:" I tempi dell'autonomia differenziata: ventuno mesi per il Sì allo spacca-Italia"-IL MATTINO 3 gennaio 2023


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