Rigurgiti del ’68 e altri
MONDOCANE fuorilinea
4/2/4
Fulvio Grimaldi
Tariq Ali l’ho intervistato per il
quotidiano Lotta Continua, di cui ero direttore, agli inizi degli anni’70.
L’argomento era la guerra del Vietnam che volgeva alla vittoria dei bassotti
contro gli altotti e Tariq sparava tuoni e lampi contro l’imperialismo yankee.
Tariq Ali, pachistano più tardi definitosi anglopachistano, a dispetto della
zazzerona nero-lucido, dei baffoni spioventi, degli occhi neri e un po’
balconati e della pelle color dattero maturo, studente della London School of
Economics, era stato nella Gran Bretagna del ’68 quello che Sofri, Negri e
Brandirali erano stati nell’Italia del ’68 e segg., che Rudi Dutschke era stato
in Germania e che Dany Cohn-Bendit era stato in Francia. Visto che Dutschke fu
ucciso quasi subito, per la gioia dell’editore di estrema destra Springer, tra
i sopravvissuti l’anglopachistano è l’unico che milita ancora in una sinistra
dichiarantesi tale. Trotzkista, ma comunque sinistra. Dirige addirittura un
periodico storico, la New Left Review.
Se Cohn-Bendit fa del folklore verde, dopo aver assolto al compito principale
di abbattere De Gaulle e, dunque, la prospettiva di un’Europa sganciata dalla
narcosi-necrosi atlantica e alleata dell’URSS; se Brandirali porta le borse
della vecchiaia e della devastazione morale con la stessa disinvoltura con
cui porta quelle del governatore
lombardo Formigoni; se Negri fa il maitre à
penser delle moltitudini in fuga dall’Impero (ma ha almeno l’intelligenza-decenza di non captare
benevolenze dai poteri immerdacchiando Lenin e Marx, come suggerisce invece lo
sbracamento “innovativo” di certi vertici rifondaroli più retrò di Bernstein);
se Sofri acquista chiavi per le porte del carcere di Pisa vendendosi anima e culo
e mettendoci del suo nello sterminio di slavi, iracheni, palestinesi, a memoria
e scorno di alcune decine di compagni da lui guidati e caduti nella difesa di
qualche angolo di piazza, di un lavoro meno schiavista, di una speranza di
rivoluzione; se questo periodo sta diventando troppo lungo e indigeribile,
ebbene Tariq Ali lo inseriamo subito nella formazione.
L’eminente anglopachistano ha presentato l’altra sera a una fitta folla romana
di naviganti dell’arcipelago antagonista-revisionista-innovatore-disobbediente-gruppettaro-canescioltista-governista
il suo nuovo libretto Bush in Babilonia.
Un lavoro che , con tempistica mercantile, si aggiunge ai tanti scaturiti come
funghi dopo la pioggia bombarola dei civilizzatori anglo-americano-satellitari
e che, tranne un po’ di utile storia del paese, nulla aggiunge di nuovo o
demistificante
alle fandonie che ci hanno intossicato dalla biografia di Saddam dello
Zero-Zero-Zero Magdi Allam in poi. Alla presentazione, riferita l’indomani solo
dal come sempre generoso e versatile Liberazione,
sedicente “giornale comunista”, partecipavano anche Giulietto Chiesa e Luciana
Castellina, subissati dalla pomposa spocchia dell’anglopachistano, ma a loro
volta in grado di tirargli giù un po’ di brache senza che l’interessato, perso
nell’oceano della sua autoconsiderazione, se ne avvedesse.
Certo, Tariq Ali è molto piaciuto a molti (ma succede perfino a Rossana
Rossanda con la fetecchia Sofri). E perché no, a prima vista ribadiva cose
indubitabili: la lunga tradizione di lotta anticolonialista del popolo
iracheno, base morale, politica e psicologica dell’attuale, formidabile
resistenza; i crimini di un genocidio israeliano del popolo palestinese che si
dipanano da oltre mezzo secolo in qua e, “visto che l’occupazione è brutta, la
resistenza non può essere bella” (e qui, senza ironia, i combattenti suicidi
palestinesi gli rendono grazie), la resistenza che non deve essere confusa con il terrorismo, il ricatto morale e
l’intimidazione intellettuale praticata dai mille gangli del sionismo con
l’accusa di “antisemitismo” che, chissà perché (domanda retorica, direi), viene
pompata e rilanciata soprattutto da certa sinistra (Liberazione, ti fischiano le orecchie?).
Tutto bello, tutto gradito, tutti a sorridere compiaciuti. Preparato così il
terreno e spogliato il pubblico di ogni diffidenza critica, Tariq Ali ha
seminato. I solchi glie li ho tracciati io con un paio di domande che si
riferivano a un argomento da lui sollevato e a un altro da lui trascurato. Nel
corso della presentazione, aveva tracciato il solito, liturgico quadretto di
Saddam Hussein: sterminatore di curdi e comunisti, alleato della CIA che gli
forniva l’elenco dei comunisti da liquidare (sai come avrebbe fatto senza la
CIA a rovistare nei bloc notes dei cittadini iracheni!), pedina degli Stati
Uniti nel contenimento della minaccia
islamica di Khomeini, armato, finanziato dal Pentagono, baciato in bocca da
Rumsfeld (allora inviato di Reagan), oltrechè vampiro del proprio popolo e
socio dell’attentatore alle Torri Gemelle e all’impero mondiale USA, Osama Bin
Laden. E a proposito di quelle Torri, arco di trionfo, per quanto cimiteriale,
per il transito delle truppe imperiali inviate a squartare paesi, sfoltire
l’umanità e garantire risorse all’elite statunitense, nulla aveva aggiunto.
La prima domanda era se non gli fosse barluccicato qualche dubbio su “Saddam,
uomo degli USA” al ricordo che Aref, dittatore iracheno messo su dalla CIA nel
1963, lo aveva buttato in galera insieme ai comunisti e baathisti che avevano
cacciato la monarchia e gli inglesi nel 1958; che, alla presa del potere nel
1968 di baathisti e comunisti uniti, Saddam aveva collocato l’Iraq solidamente
nel campo non allineato e socialista, concludendo con l’URSS un trattato di
amicizia e mutua difesa, rinnegato da Mosca solo nel 1980, quando Brezhnev
decise di schierarsi con l’Iran integralista; che, nel 1972, aveva
nazionalizzato il petrolio e cacciato le Sette Sorelle, massimo crimine in
assoluto dal punto di vista imperialista; che poi, per la prima volta nella
storia di quel popolo, aveva concesso ai curdi l’autonomia e l’autogoverno,
sottraendo agli USA la vecchia arma di destabilizzazione del separatismo curdo, cosa che Kissinger
trovò sommamente disidicevole, tanto che riversò montagne di dollari e di oppio
sui capitribù feudali Balzani e Talabani purchè riprendessero la rivolta
(spenta con poche scaramucce dall’esercito iracheno, e mitizzata dai media
occidentali con il “massacro di un milione di curdi”); che, dopo la pace di Camp David tra Sadat e Begin,
con cui la questione palestinese veniva archiviata e Israele riconosciuto
dominus del Medio Oriente, Saddam riunì a Bagdad 17 paesi arabi su 22 e
costituì il “Fronte del Rifiuto” che riaprì quella questione, isolò Sadat, e
offrì un retroterra politico e finanziario per la rinascita della lotta
palestinese, prima in Libano, contro i fascisti filoisraeliani della Falange
maronita, e poi in Palestina con le due Intifade; che l’Iran di Khomeini, armato da Israele (il ricavato venne
dagli USA utilizzato per distruggere il Nicaragua dei sandinisti tramite lo
scherzetto “Iran-Contras”), aggredì l’Iraq (e non viceversa) con la pretesa di
spostare i confini concordati nel 1975 al di là dello Shatt el Arab, con la
minaccia di chiudere all’Iraq lo Stretto di Hormuz, cordone ombelicale per gli
scambi iracheni e, dunque, cappio mortale, e con continue provocazioni armate
sul confine con il Curdistan; che Israele e gli USA promossero quel conflitto
per fare in modo, nelle parole di Kissinger, “che le due potenze regionali
ostili a Israele si dissanguassero tra di loro”; che Israele, alter ego degli
USA nella regione, bombardò nel 1983 l’unica centrale nucleare irachena; che
chiunque visitasse l’Iraq negli anni ’70, ’80, ’90, poteva facilmente incappare
in uno dei mille convegni, manifestazioni, seminari che, a Bagdad,
raccoglievano le forze popolari e socialista del Terzo Mondo in funzione
antimperialista; che, nella prima come nella seconda Guerra del Golfo, non
un’immagine televisiva, non un occhio di osservatore hanno colto anche una sola
arma statunitense, ma solo antiquati armamenti sovietici o europei, a dispetto
di quanto si afferma circa il “Saddam armato dagli USA”; che il Kuweit, 19. provincia irachena,
sottratta all’Iraq dai britannici nel 1926 per togliere a un grande paese
ribelle, che Churchill bombardava con i gas, lo sbocco al mare e un bel po’ di
petrolio, fu istigato dagli USA, dopo la guerra Iraq-Iran, ad abbassare il
prezzo del petrolio in modo da ritardare il recupero economico iracheno e a
rubare petrolio dal giacimento iracheno Rummaneh, perforando trasversalmente
sotto il confine tra i due paesi; che da almeno vent’anni, dal Marocco al Golfo
arabo-persico, le masse protestano contro l’imperialismo e contro i governi
vassalli dei loro paesi nel nome e con i ritratti di Saddam Hussein, visto da
200 milioni come protagonista della rinascita araba, della resistenza
palestinese, della lotta antimperialista.
A questa domanda, Tariq Ali risponde dalle vertiginose altezze della sua
superiore conoscenza, ribadendo l’assioma “Saddam era l’alleato più stretto
degli americani”. Punto e basta. Nella torre d’avorio della sua apodittica
sicumera, con gli occhi sideralmente lontani dai propri piedi,
l’anglopachistano inciampa vistosamente in una contraddizione che, da sola,
basta a porre fine alla questione. Saddam sarebbe sì lo sporco e puttanesco
doppiogiochista che, al di là delle declamazione nazionaliste e di un modello
sociale demagogico e populista che in vent’anni ha dato l’alfabeto, la salute,
l’istruzione, la casa, la donna emancipata, la creatività artistica, il lavoro
a tutti i 22 milioni di iracheni, se la fa sotto sotto con CIA e imperialismo
(con Israele non ha avuto il coraggio di dirlo). Però poi c’è la grandiosa
resistenza irachena contro l’occupazione di angloamericani e ascari da quattro
soldi d’elemosina. E cos’è questa resistenza, sostenuta da tutto un popolo, se
non il risultato di una maturità politica e di una coscienza antimperialista
che le generazioni oggi in lotta hanno acquisito grazie all’esistenza di una
cultura nazionale, sociale, antimperialista, diffusa da un partito con sei
milioni di iscritti e un milione di militanti in quarant’anni di resistenza al
colonialismo di ritorno e di costruzione di una nazione socialmente progredita.
E a chi va attribuito tale risultato? Gli stereotipi dell’oratore si arenano
qui.
La seconda domanda sollevava la
drammatica, direi irresponsabile latitanza dell’informazione e della politica
di sinistra, Tariq Ali compreso, rispetto al lavoro di smascheramento del
paradigma guerra-terrorismo (in Liberazione
la famigerata “spirale guerra-terrorismo”, inventata da Bertinotti e
papagallata come di consueto dal corteo di corifei), con particolare
riferimento alla megatruffa dell’11 settembre, condotto dalla controinformazione
internazionale e specialmente statunitense. Come può, ho chiesto, un esponente
prestigioso della sinistra antimperialista trascurare il dato, ormai
convalidato da innumerevoli ricerche, documenti, testimonianze, falle nelle
versioni ufficiali, sabotaggi delle inchieste da parte dell’amministrazione
USA, di uno spaventoso attentato attuato, sulla scia di numerosi precedenti
storici analoghi, dal potere statunitense allo scopo di ottenere quell’ “evento
traumatico tipo Pearl Harbour” auspicato da Condoleeza Rice e da tutto il
gruppo neonazista del PNAC (Project for a New American Century) che avrebbe
consentito al mostro imperialista di schiacciare l’antagonismo sociale interno
e imporre al mondo un Quarto Reich millenario USA (almeno fino al 2050 quando,
secondo gli studi più seri, il pianeta, con questo modello di “sviluppo”, sarà
arrivato alla frutta). Come può chiudere gli occhi davanti alla siderale bufola
di un potere che potenzia il tradizionale e espertissimo terrorismo CIA e
Mossad, recluta tra poveracci
iperislamisti lobotomizzati la sua manodopera (proprio come i servizi segreti
italiani attingevano al neofascismo), bombarda i suoi e altri cittadini per
ottenere il via libera popolare alla polverizzazione dell’Afghanistan, via d’accesso
al Caucaso dei combustibili fossili, alla Russia e alla Cina, e dell’Iraq,
massima riserva petrolifera del mondo e
garanzia che la borghesia statunitense potrà, almeno fino al 2050,
vivere come se avesse a disposizione non uno, ma cinque pianeti Terra.
L’occhio di Tariq Ali divenne più cupo, ma nulla turbò la suaraffinata
nonchalance da gran maestro, impermeabile alle miserie del
complottismo dietrologo di chi si porta sul gobbo il fuorviante incubo di
millenni di cospirazioni e inganni cristiani, massonici, mafiosi, oligarchici e
cade nel tranello vichiano dei corsi e ricorsi. Con un gesto della mano,
sollecitata da sussiegoso fastidio, allontanò l’assurda illazione: “Li ho letto
anch’io, i documenti, i libri, le controrelazioni…” Con il cerchio della mano
che imprigionava inesorabilmente l’assurda ipotesi, finisce di botto anche la
frase. Tutto qui. Poi, però, solleva l’angolo sinistro della bocca in un
sorriso sardonico e riprende: “Sono stato tra i miei fratelli e ci siamo chiesti se noi musulmani non
fossimo abbastanza intelligenti per fare una cosa come quella dell’11
settembre. Ebbene – si alza anche l’altro angolo della bocca e la voce più
forte sottolinea l’attestato con sconcertante orgoglio - vi garantisco che siamo abbastanza
intelligenti…” Tariq Ali paracaduta l’occhio nero, ora luminoso, sulla vasta
platea a cercare il trionfo sul miserabile San Tommaso. Lo ottiene. La platea
applaude, come sollevata…
CONCLUSIONE
E’ una vita che constato la diabolica abilità del nemico nell’occupare le due
sponde del fiume (proprio come voleva fare Khomeini con lo Shatt el Arab), i
due aspetti dello scontro, i due fronti del conflitto. Tipo gestire l’FBI da un
lato e Al Qaida dall’altro, o, con il MPRI (Military
Professional Resources Inc., esercito privato al soldo del
Pentagono), l’addestramento e la guerra dell’esercito regolare macedone di qua,
e l’addestramento e la guerriglia dei secessionisti albanesi di là. O ancora i
fascisti cronici e strategici: gagliardetti, rune e mazze tra i coatti dell’alienazione
suburbana, oggi cari ai filosofi e gruppuscoli del “superamento della dicotomia
destra-sinistra” (Preve, Campo Antimperialista), a rappresentare nostalgia e
folclore, e Fini, D’Alema, Berlusconi alla corte di Sharon, a incorporare il
fascismo postmoderno dell’”Unica democrazia del Medio oriente” e dell’ Enduring Freedom statunitense.
Non importa, in questo contesto, se Tariq Ali sia un utile idiota, un
presuntuoso stordito dalla vanità, o un amico del giaguaro. Certo è che la sua
esistenza, in termini di costi-benefici, non può che essere gradita a chi si
propone di turlupinare e divorare il mondo. Facciamo un’ipotesi, ovviamente
onirica. Chissà se un bel giorno,
all’apice della carriera di apostolo della sinistra radicale, l’anglopachistano
non sia stato convocato in qualche ufficio dagli aromi antichi e dalla
scenografia solenne. Chissà che non gli abbiano detto: “Tariq carissimo, sono
vent’anni che rompi i coglioni tra Londra e Islamabad. Hai presente quei 15
microbiologi impegnati nella ricerca di retrovirus e coronavirus, tutti morti
ammazzati o incidentati sul finire del 2001, tutti a conoscenza dei nostri
giochini con l’Aids, l’antrace, la SARS, e
tanti altri prodigi biologici sfoldimondo? Hai presente John Lennon? Ti
ricordi del compagno Dutschke? E d’altra parte, hai visto la carriera di Cohn
Bendit o di certi tuoi compagni italiani, o dei trotzkisti statunitensi
contestatori nel ’68 e neo-cons nazisti nel 2000? Beh, pensaci. Pensaci bene. E
poi pensa alla nostra proposta. Continua a blaterare le tue stronzate sui
poveri palestinesi, sui comprensibili kamikaze (tanto il terrore dell’accusa di
antisemitismo, diffuso dai nostri operativi, ti rende del tutto inoffensivo),
continua ad anatemizzare l’imperialismo statunitense, parla malissimo di Berlusconi
(tanto quello ormai l’abbiamo spremuto a fondo) e di Blair, denuncia le bugie
sulle ADM irachene(tanto ormai le abbiamo ammesse tutti), fatti vindice dei
musulmani (tanto ormai abbiamo le leggi che ci permettono di sbatterli dentro a
vita senza accusa e di condannarli senza prove). Fa e di quello che ti pare del
tuo logoro armamentario di sinistra. Una sola cosa ti chiediamo. E ti costa
poco, dato che avrai accanto a te il 90% della sinistra occidentale (quella del
Sud del mondo chi l’ascolta?). Sostieni sempre e ovunque la tesi dell’11
settembre fatto da Al Qaida e dal fanatismo islamico, avvalla la “spirale
guerra-terrorismo”, parla male di Saddam Hussein e, se vuoi essere gentile,
anche di Slobodan Milosevic e Fidel Castro. Tanto sei trotzkista e ti costa
poco. Questa è la nostra proposta, ti sta bene?”
E’ naturalmente dietrologia pura che a Tariq qualcuno abbia sussurrato questo
accordo. Di conseguenza non si può avere la minima idea di un’eventuale
risposta. Ci dobbiamo attenere a quanto ci ha detto presentando “Bush in
Babilonia”.
Aggiungo che è tornato a onore della nostra italica identità che alla
celebrazione di Tariq Ali fossero presenti Giulietto Chiesa e Luciana
Castellina. Professionalità dell’uno e coerenza politica dell’altra non mentono.
Il primo ha amabilmente sabotato le certezze terroristico-saddamiane del
Nostro, offrendo un quadro dell’assassinio della realtà operato dai mezzi della
coppia informazione-potere e, occhieggiando sornione verso i veri responsabili
dell’11/9, ha detto di attendersi qualche megabotto terroristico alla luce
delle difficoltà elettorali che Bush va incontrando dopo il tonfo delle ADM e le spaventose botte
rifilategli dagli iracheni. Tariq Ali faceva finta di niente (o invocava
Osama?).
Castellina ha deviato verso il virulento fracasso non violento innescato da
Bertinotti e subito sussunto da armate di sicofanti e benpensanti, ansiosi sia
di mettere il culo al caldo, dopo i gelidi rigori vissuti dai nonni e padri
partigiani, sia di sfuggire alla micidiale accusa di contiguità col terrorismo
provocata da indulgenze per i teppisti che assaltarono la bastiglia, o il
Palazzo d’Inverno, o il palazzo di Re Faruk d’Egitto, o quello dei Feisal II
d’Iraq, o quello dello Shah di Persia, o i bar dei pieds noires ad Algeri, o le piazze presidiate dalla Celere
di Tambroni, o le camere di tortura dei
coloni in Cisgiordania; sia di rassicurare quelli con la bomba nucleare, i gas
tossici e i microbi delle pandemie, che mai più avrebbero alzato un dito, né
tanto meno inserito il classico granello di sabbia iracheno, o colombiano, o
palestinese, o venezuelano, a bloccare l’invincibile (a priori e per
definizione!) macchina tecnologia del sacrosanto monopolio della violenza. Al
più un po’ di disobbedienza discola, ma sempre nella prospettiva di un
posticino a tavola e uno strapuntino al governo. Insomma, da tutti gli asili, i
nosocomi, le case di riposo, i parchi giochi, i lupanari, la case da gioco, gli
angoli dietro la lavagna, un solo grido si solleva verso i potenti della Terra,
della Confindustria, dei Carabinieri e dell’Ulivo: “Non lo faccio più!”
Vanno segnalati a questo proposito, nel dibattito su Liberazione e Manifesto,
alcune perle di convincente portata ideologica e politica: i
cioccolatini Perugina con bigliettino amoroso e contenuto al cianuro di Niki
Vendola; l’abilità archivistica di Franco Giordano nell’enumerare tutti, ma
proprio tutti, i calembour, modi di dire, frasine ad effetto, del Movimento (un
movimento ovviamente “duraturo, permanente, globale”), evitando accuratamente
di dire qualcosa di suo; il raccapricciantemente umoristico contributo di Ramon
Mantovani (si mormora che sia un deputato del PRC), sopravvissuto a una dura
battaglia con grammatica, sintassi, stile, e, come del resto ogni manifestazione
del deus ex machina del povero
Ocalan, del tutto irrilevante per il dibattito, ma utile pretesto per
l’espressione di psicotiche frustrazioni
di camerata; e il paginone addirittura di controcopertina concesso dal
“nuovo” Manifesto a tal Romano
Màdera. Ne cito solo una “sezione aurea”: ”In realtà bisogna abbandonare
radicalmente l’idea di fare, anche simbolicamente, la guerra alla guerra. Si
tratta di superare la politica che è “contro”; anche Bush siamo noi (sic!),
ricordava già durante la prima guerra del Golfo, a proposito di Bush padre,
quel geniale (sic!) maestro buddista che è Thich Nhat Hahn… Il suo superamento
significa nientemeno che una profondissima trasformazione del sentire e del
pensare degli uomini, secondo lo stesso spirito dei grandi profeti
dell’universalismo pacifico, da Buddha a Gesù di Nazareth…” Ma vuoi mettere
Thich Nhat Hahn con quei primitivi di Marx e Lenin! Ma vuoi mettere quella
polverosa soffitta di una storia di 6000 anni con la radiosa frescura della New Age!
L’avessero capito i palestinesi, prima di essere inceneriti da un
Apache! Si fossero reso conto che Sharon “è noi”, anzi, è loro! Avessero
perseguito la “profondissima trasformazione del pensare e del sentire”, secondo
Buddha e Gesù di Nazareth (ma non è
quello nel cui nome si è decimata l’umanità altra, non fedele, non obbediente,
eretica o addirittura stregonesca?)! Fuor di ogni dubbio gli statisti
israeliani, da Ben Gurion a Sharon, sarebbero rimasti folgorati sulla via di
Nablus e avrebbero portato rose e insalatina al posto dei missili Gerico! E
quanto alla Palestina, avrebbero bussato e chiesto: Scusate, possiamo accomodarci in una stanzetta della
vostra casa? Che sciocchi, questi palestinesi!
Non ci resta che scegliere: Tariq Ali, o Romano Màdera? Insoddisfatti? Vi
potete sempre fare una risata con l’On. Ramon Mantovani. E’ quel che passa il
convento.
O non ci resta che piangere?