www.resistenze.org - osservatorio - mondo multipolare - 27-07-11 - n. 374

da www.lernesto.it:80/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=21232
 
Il grande balzo della Cina in Africa
 
di Sergio Ricaldone
 
21/07/2011
 
L’attenzione e i mezzi con cui la Cina popolare lavora al rafforzamento dei suoi legami con l’Africa trova un'altra conferma nel libro-reportage scritto dai due giornalisti svizzeri, Serge Michel e Michel Beuret, dal titolo “La Chinafrique, Pekin a la conquete du continent noir”, edition Grasset, 348 pag. euro 19,50 (per ora disponibile solo in francese). Già dal titolo si intuisce che l’interesse di Pechino per l’Africa ha una valenza strategica ed è destinato a cambiarne il suo futuro e la geopolitica del pianeta. Il massiccio ingresso di Pechino nel continente nero è un tema già ampiamente trattato (e manipolato) dalla carta stampata e dai media ed è seguito con crescente irritazione dall’Occidente imperialista che si vede sottrarre senza un colpo di fucile, come si usava ai tempi di Kipling tra imperi coloniali concorrenti, le ricchissime fonti di materie prime ed energetiche di molti Stati africani, in apparenza indipendenti, ricolonizzati e sfruttati negli ultimi 50 anni dalle multinazionali con forme un po’ meno feroci (ma non troppo e non sempre) e dominati con la copertura di governi locali ricattati o asserviti. I risultati sono stati semplicemente disastrosi.
 
Molti autori esorcizzano i sensi di colpa per i milioni di morti dell’olocausto africano postcoloniale facendo leva sull’ ”afropessimismo”, luogo comune coniato da Sarkozy in un suo viaggio in Mali, nel 2006, per definire l’Africa un luogo di disperazione, di guerre, di miseria e di fame, refrattario ad ogni forma di sviluppo e di “democrazia” e dunque un continente inguaribile. E’ l’eterno refrein dei colonizzatori bianchi che sono sbarcati in Africa da conquistatori con la forza della armi e in nome di Dio onnipotente, diventando i padroni della terra e delle sue immense risorse naturali ed ora vogliono restarci arginando il pericolo “giallo” con le buone o le cattive. Fallito lo schema “neocoloniale” si ritorna all’antico e l’oltranzismo bellico di Sarkozy ne è la forma più intransigente: i bombardieri euroamericani della Nato e i parà della Legione ricominciano, in Libia e in Costa d’Avorio il lavoro di “civilizzazione” svolto a suo tempo dalle “cannoniere” di Napoleone III. Risulta ormai chiaro che il vero nemico di queste guerre e di altre in gestazione non sta a Tripoli o a Ouagadugu ma a Pechino.
 
Il lavoro dei due autori svizzeri è importante poiché descrive le tappe del disastroso fallimento degli Occidentali in Africa, specie quello della BM e del FMI, che negli anni ottanta hanno trascinato gli Stati africani in un debito colossale che ha devastato le loro deboli economie. Ci fanno poi capire, senza indugi ideologici o apologetici, il metodo seguito dalla leadership cinese per conquistarsi la fiducia delle elite politiche africane superando la loro atavica barriera di diffidenza: nel momento in cui l’Africa è stata abbandonata come una “zattera alla deriva” la Cina popolare se n’è fatta carico. La differenza tra i due approcci, quello vetero coloniale e quello cinese, sono impietosamente messi a confronto: prima ancora di risultare sedotti dal modello di sviluppo di Pechino, gli africani si sentono trattati per le prima volta da partners con uguali diritti e non da popoli barbari subalterni ai poteri forti delle cittadelle bianche d’Occidente.
 
L’ultimo grande balzo africano della Cina è stato quello compiuto nella Repubblica Democratica del Congo. I cinesi sono arrivati a Kinshasa con molta discrezione, senza fanfare e in punta di piedi, pronti ad iniziare subito il ciclopico lavoro di edificazione previsto dai contratti sottoscritti dal governo congolese con le imprese di stato cinesi che si sono impegnate a dotare il paese di strade, di ospedali, di scuole, di ferrovie, di telecomunicazioni, in cambio di materie prime (rame, cobalto, legno tropicale, ecc.) Un accordo che prevede investimenti iniziali per 11 miliardi di euro che ha indignato solo gli antichi predatori di Bruxelles, sorpresi che l’ingrato Kabila abbia scelto i nipoti di Mao anziché quelli di Leopoldo I, per costruire una nazione progredita e moderna.
 
I giochi tra il dragone cinese in ascesa e l’imperialismo declinante sono chiusi da tempo in Africa: in Angola, Namibia, Guinea, Sudan, Ciad e altrove i lavoratori cinesi sono al lavoro da parecchi anni. Sono operai e tecnici di primordine, lavorano velocemente e bene, vivono in condizioni spartane desiderosi di inviare alle loro famiglie i loro salari, non miseri ma dieci volte inferiori al costo dei colonizzatori occidentali. Per descrivere l’entità di questa rivoluzione Serge Michel e Michel Beuret sono approdati, innanzitutto in Cina, poi in una quindicina di paesi africani, per tentare di capire quale sia la molla che spinge questa inedita specie di comunisti orientali a “invadere” l’Africa che, a differenza di quelle compiute con la forza dai colonizzatori bianchi, avviene con modalità assolutamente diverse.
 
Nel 2006 Michel e Beuret sono riusciti per il rotto della cuffia ad assistere a Pechino al vertice Cina-Africa, presenti 52 Stati africani, ma al quale non erano stati invitati giornalisti e diplomatici occidentali. Già in quell’occasione si sono resi conto di quanto grande fosse l’operazione di collaborazione Cina-Africa iniziata dai cinesi e condivisa dagli africani, testimoni ammirati di uno sviluppo impensabile fino a pochi anni prima e sempre più intenzionati a condividerne i modelli di sviluppo. In quel vertice Pechino ha presentato all’Africa le armi di cui dispone per sostenerne lo sviluppo: sono le risorse valutarie della Banck of China, i tassi di interesse vicini allo zero, l’eccellente livello tecnologico della mano d’opera. Alle quali va aggiunto il dignitoso rispetto con cui sono stati trattati i governi africani, ben diverso dalla ottusa arroganza degli investitori di Wall Street e della City.
 
Pechino non ignora, ovviamente, che certi governi africani sono retti da leaders corrotti e senza scrupoli ma, in nome della “non ingerenza”, non può che mantenere rapporti con le autorità di ciascun paese e lascia che siano i popoli a decidere quando e come risolvere le proprie contraddizioni interne. Ed è altrettanto convinta che il suo approccio verso l’Africa, oltre ai benefici immediati di un commercio equo e solidale, renda sempre più popolare anche l’immagine del suo modello socio politico, antimperialista e socialista, fattore determinante che sta facendo crescere la Cina come prima potenza economica globale, a guida comunista, universalmente riconosciuta.
 
L’altro aspetto, forse il meno noto raccontato dai due giornalisti svizzeri, è l’atteggiamento di rispettoso rapporto con le popolazioni locali da parte dalle centinaia di migliaia di operai, di tecnici e di imprenditori cinesi che da anni lavorano a colossali progetti di sviluppo destinati a proiettare l’Africa fuori dalla fame, dalla miseria e dalle devastanti epidemie che ancora falciano milioni di esseri umani. Trattati come animali per secoli, vessati e massacrati da bande mercenarie, dai “marines” e dai parà della Legione straniera, gli africani ritrovano finalmente un rapporto di sincera amicizia e di scambio equo con i lavoratori cinesi, molto rispettosi delle diversità culturali e politiche dei paesi in cui lavorano.
 
Chi sono, da dove arrivano, quali le motivazioni che spingono i lavoratori cinesi a cimentarsi in questa avventura africana ? Anche se il “socialismo di mercato” alla cinese ha fatto compiere balzi in avanti enormi al livello di vita e reso sempre meno acute che altrove le diseguaglianze, gli incentivi economici mantengono tutto il loro peso nelle scelte dei lavoratori cinesi che vanno in Africa. Michel e Beuret sono andati a trovarli nel loro luogo di nascita . Mianyang dista due ore di treno da Chengdon, capitale del Sechuan . Peng Su Ling fa i bagagli e si prepara a partire per l’Algeria con un contratto di tre anni che gli permetterà di guadagnare 373 dollari al mese anziché i 60 attuali. Potrà garantire una buona pensione a suo padre e ridarà il sorriso a sua madre rimasta disoccupata. Altri cinesi come lui stanno partendo per pagare gli studi superiori ai loro figli e ultimare la costruzione della loro casa. Lavorano in tre turni di otto ore nei grandi cantieri e conducono nei loro residence un vita piuttosto appartata. Non intendono restare per sempre in Africa ma lasciano questa possibilità ai più giovani che, ultimati gli impegni contrattuali, aprono piccole imprese di prodotti di largo consumo (soprattutto di elettrodomestici) che con i loro prezzi diventeranno accessibili anche agli africani.
 
Dall’Algeria alla Guinea, passando per il Centro Africa, il Sudan, la Nigeria, la Cina è diventata il grande operatore di questo miracolo africano. Il libro che ne descrive i passaggi lascia intendere che nel giro di qualche anno i cinesi riusciranno in quello che gli occidentali non sono riusciti a compiere nei lunghi secoli di dominio coloniale e postcoloniale: agganciare il continente nero alle dinamiche di progresso economico e sociale simili a quelle dell’America latina.
 
Gli autori di “Chinafrique” raccontano con minuziosi dettagli gli ingredienti del successo cinese in Africa, ma soprattutto fanno vivere i loro attori, descrivono il loro entusiasmo, la loro passione per il lavoro, la loro disciplina, il loro rispetto per le popolazioni locali e ricordano che se la potenza economica della Cina gioca il suo ruolo è soprattutto il fattore umano “made in China” a fare la differenza.
 

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