www.resistenze.org - osservatorio - mondo multipolare - 22-11-18 - n. 692

Un nuovo leader per la globalizzazione

O. B. | nuevo-rumbo.es
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

02/11/2018

L'arrivo di Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha avuto molti effetti collaterali. Tra questi, si torna a dibattere nuovamente su un elemento che, fino a poco tempo fa, era tra quelli intoccabili: il quadro delle relazioni commerciali mondiali.

Naturalmente, la proposta dell'amministrazione Trump non cerca di includere la classe operaia e i popoli in una equazione che finora si è basata unicamente sugli interessi dei grandi monopoli. Tuttavia, è curioso vedere i leader politici mondiali ripetere sciocchezze come queste:

"Con i sentimenti protezionisti e antiglobalizzazione che minacciano di tornare, il nostro mondo sente un maggior grado di instabilità e incertezza".

"Sicuramente, non balleremo alla musica suonata dagli Stati uniti sul protezionismo. Abbiamo il nostro orientamento favorevole alla globalizzazione e al mercato".

Solo che, in questo caso, sono citazioni dei leader di un paese che aspira ad esser il nuovo campione della globalizzazione e del libero commercio: la Cina. Nonostante il governo del paese sia presieduto da un partito che continua a portare il nome di comunista, in Cina a dominare sono i rapporti mercantili.

In questo 2018, si compiono 40 anni dalla creazione delle prime zone economiche speciali. In esse, si sperimentava l'introduzione dell'impresa privata e delle relazioni di mercato. Dalle 4 zone iniziali, si passò a 18 nel 1984 e, dal 1988, si sono praticamente estese a tutto il paese, riconoscendo, dal 1992, il ruolo decisivo svolto dal mercato nel sistema cinese.

Nel 2013, si è passati a una fase superiore: una volta divenute dominanti le relazioni mercantili private, si sono iniziate a creare zone di libero commercio. La prima è stata Shanghai, dove per la prima volta si è permesso l'investimento in banche o servizi medici. Attualmente, conta 30.700 imprese private, incluse 7.700 a capitale straniero. Altre 11 zone sono state inaugurate finora. L'ultima, nell'ottobre 2018, è un'intera provincia: l'isola di Hainan.

Il Global Times, portavoce del governo, attesta orgogliosamente: "la zona di libero commercio di Hainan invia un importante messaggio dei leader della nostra nazione: la Cina non cambierà il ritmo delle sue riforme e aperture nonostante le pressioni e la Cina assume il testimone di difensore della globalizzazione economica".

La Cina non verrà colpita da sanzioni e guerra commerciale per continuare ad aprirsi al capitalismo. Ma a colpirla invece sembra sia una lettera che l'amministrazione Trump ha inviato all'Organizzazione Mondiale del Commercio, in cui accusala Cina di non esser completamente un'economia di mercato. Ad essa, hanno risposto indignati che "tra tutte le riforme che si stanno realizzando, inclusa la riforma fiscale, la più importante è la riforma delle imprese statali".

E' ovvio, nessuno può dubitare dell'impegno cinese a privatizzare. Dal 1998 al 2007, il numero di imprese statali si è ridotto da 238.152 a 115.087, ossia, meno 52%. Tra le 2.926 grandi imprese statali presenti nel 2007, l'86,88% sono state riformate negli anni seguenti e il 34,52% è passata a proprietà mista. Di fatto, nel 2007, si approvò la Legge sulla proprietà della Repubblica Popolare Cinese che cambia il concetto di impresa statale con quello di impresa in cui lo Stato investe. Gli ultimi anni non sono stati da meno in quanto a privatizzazioni, con 2.618 imprese statali di vari dimensioni trasferite al capitale privato.

Li Keqiang, premier cinese, ha annunciato mentre si recava alla Settimana degli imprenditori (concetto che ha abbracciato anche il "socialismo" cinese) che la prova che non si lasciavano influenzare dalla guerra commerciale di Trump è che i dazi doganali cinesi generali sono scesi al 7,5% dal 9,8% del 2017.

In realtà, la guerra commerciale non è una guerra di buoni e cattivi, di socialismo e capitalismo, ma di interessi commerciali e monopolistici in entrambi i casi. La Cina non vuol esser esportatrice di materie prime e cianfrusaglie e gli Stati Uniti non vogliono perdere la posizione di asse della catena del valore nella produzione capitalista mondiale.

La stampa cinese ha recuperato la dimenticata parola socialismo per spiegare i suoi presunti vantaggi in questa guerra. Lo Stato cinese controlla meno del 2% delle imprese, sebbene in esse lavori il 18% della classe operaia del paese. Il governo si riferisce ad esse come le leve di controllo dell'economia, da un'ottica che in Europa può ricordare molto il keynesismo, nonostante che queste abbiano un capitale diviso in azioni e in proprietà minoritaria di numerosi capitalisti privati. Sarà sufficiente in questa guerra commerciale?

La vera arma cinese, in ogni caso, non è sul fronte di guerra, ma nella retroguardia. Con un mercato interno di 1.400 milioni di persone e una gestione delle masse che Trump si sogna, si equilibrano i vantaggi economici e tecnologici rispetto a quelli su cui può contare l'imperialismo yankee.

Dice Trump che il maggior problema con la Cina è il furto di tecnologia. In realtà, la Cina è da tempo che non si dedica alla mera copia, ma fa cose nuove e in molti casi migliori: valgano come esempio i treni, le autostrade o i telefoni .

La Cina fa accordi multimilionari con imprese statunitensi. Quando un compratore fa un ordine di 300 aerei, all'impresa si risolvono i conti per un decennio. Questo si, la Cina fa buone offerte, ma esige il trasferimento di tecnologia come parte dell'accordo. Non è un furto mascherato, ma una clausola del contratto.

La guerra commerciale sta suscitando conclusioni errate. Da un lato, non c'è un furto da parte della Cina, semplicemente gli Stati Uniti si trovano su scala globale lo stesso tipo di competizione che fanno i negozianti cinesi in Occidente a livello locale: lavorano più ore, a minor prezzo e con più varietà di prodotti.

Non c'è una guerra tra due mondi, né tra due sistemi sociali. Ci sono due potenze dove imperano i rapporti di produzione capitalisti, che lottano per i mercati e cercano di imporre i loro interessi.


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