www.resistenze.org - osservatorio - mondo - politica e società - 30-11-09 - n. 297

da www.rebelion.org
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura di F.R. del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
All’abbordaggio dei vivai marini africani
 
Sarah Babiker - Periódico Diagonal
 
29/11/2009
 
La spoliazione delle acque dell’Unione Europea ha portato la pesca industriale sulle coste africane. Qui, l’assenza di strutture statali - come capita in Somalia - o la scarsità di capitali aprono grandi opportunità di affari.
 
Serigne ha 34 anni e vive a Madrid. E’ arrivato nelle isole Canarie nel 2006 da Saint-Luis, dopo tredici giorni di viaggio in un cacciucco, un’imbarcazione che usava nel suo lavoro di pescatore costiero a Kayar, un paese della costa senegalese. “Questo mestiere ce l’ho nel sangue” dichiara Serigne.
 
Così come altri 60.000 senegalesi viveva di pesca e lo ha fatto per dieci anni. Fino a quando ha dovuto emigrare. E come lui molti altri. Padre Jerôme, un sacerdote nigeriano che dal 2003 guida la missione cattolica di Nuadibú, sulla costa della Mauritania, ha l’unico registro dei migranti che scelgono la strada del Nord: “Il fatto è che la maggioranza dei senegalesi qui sono pescatori, si potrebbe dire fino all’80%”.
 
Serigne ricorda bene il percorso: Quando studiavo già si notava che ogni anno la quantità di pesce pescato diminuiva progressivamente. Notavamo anche che pescavano pesci sempre più piccoli e giovani”.
 
Con tutto ciò c’entrano gli accordi bilaterali in materia di pesca fatti con la UE tra il 1979 e il 2006. Tra il 1994 e il 2005 il peso delle catture in acque senegalesi scese da 95.000 a 45.000 tonnellate, mentre il numero delle imbarcazioni dei senegalesi scese drasticamente non potendo reggere la competizione con gli enormi pescherecci europei, come segnala Selfish Europe, di Action Aid.
 
La svalutazione della moneta senegalese ha approfondito l’orientamento della pesca verso il mercato estero, abbandonando il mercato locale. Il fatto è comprovato dal Programma dell’ONU per l’Ambiente (PNUMA) del 2002, quando annunciava che la sicurezza alimentare locale e i posti di lavoro erano seriamente minacciati dalla penuria di pesce catturato. L’ultimo accordo col Senegal ha coperto quattro anni, fra il luglio 2002 e il giugno 2006. Il costo totale dell’investimento europeo era di 64 milioni di euro, il 19% destinato a misure di sostegno (ricerche di risorse, ispezioni o sicurezza). In cambio 125 navi hanno avuto accesso alle acque senegalesi, senza limite di cattura e in competizione diretta con la pesca artigianale.
 
“Di questa situazione i colpevoli sono i governi, prima vivevamo bene, ogni famiglia aveva una o due barche artigianali e pescavamo il sufficiente per vivere, ma con gli accordi coi paesi europei e col Giappone sono arrivate grani navi moderne che pescavano di tutto e che contemporaneamente congelavano il pescato”, racconta Serigne. Nel 2006 il Senegal ha negato il rinnovo degli accordi bilaterali. Ma, come denuncia Action Aid, i pescherecci europei hanno eluso gli sforzi del governo senegalese per regolare l’accesso e il controllo delle risorse marine mediante l’acquisto e l’accumulazione di quote di pesca senegalese, il trasbordo del pescato o le joint ventures per la trasformazione del pescato. (..) Secondo gli accordi bilaterali della Convenzione del Mare del 1982, le zone economiche esclusive comprendevano un massimo di 200 miglia dalla linea di costa. Tra l’altro, lo Stato ha diritto di pesca in questo spazio. La stessa convenzione stabilisce che ogni paese deve mettere a disposizione di flotte straniere il pesce che non riesce e a catturare, sempre se non superi il massimo dello sfruttamento sostenibile.
 
La UE paga circa 5165 milioni di euro l’anno per garantirsi l’accesso ai vivai di paesi terzi, secondo fishsubsidy.org. Attualmente, la UE ha in vigore una decina di accordi di pesca con paesi africani. La firma di quegli accordi, però, produce una serie di dubbi. A volte perché si firmano con paesi con gravi deficit democratici che compromettono le risorse della popolazione. Una dimostrazione evidente c’è stata in ottobre, quando la commissione per la pesca del Parlamento Europeo ha bloccato l’accordo con la Repubblica di Guinea (Guinea Conakry) in seguito alla morte di 160 persone che manifestavano contro il presidente golpista. La rappresentante del Gruppo Popolare in quell’occasione si è però lamentata perché la decisione avrebbe “prodotto uno stop temporaneo per un periodo indeterminato” della flotta comunitaria. E’ pure oggetto di polemica l’accordo di pesca in vigore col Marocco, che non esclude esplicitamente le acque del Sahara Occidentale, permettendo la pesca di flotte europee in acque che non appartengono a nessuno dei due firmatari. Di fatto, gli accordi sono da anni al centro di polemiche. Nel 2003 una ricerca dell’Istituto Europeo di Politica ambientale analizzava i patti firmati con Senegal, Angola, Mauritania, São Tomé e Príncipe.
 
Nelle conclusioni, criticava l’arbitrarietà di quanto pagato dalla UE, dai 11.111 euro per nave comunitaria a São Tomé fino ai 346.774 euro alla Mauritania. Criticava anche la differenza fra quanto pagato e il beneficio potenziale delle catture: nel caso di São Tomé e Príncipe “per le tonnare il valore delle catture può essere 40 volte maggiore delle tasse di accesso”. Sempre quella ricerca segnalava il problema dell’assenza di limiti di cattura in Senegal e Mauritania.
 
Sei anni dopo, gli accordi di pesca con São Tomée Mauritania sono stati rinnovati. Angola e Senegal, invece sul momento non hanno accettato di mettere le loro acque territoriali a disposizione delle flotte comunitarie. Nel 2005 l’Angola non ha raggiunto l’accordo per aver richiesto una maggiore sovranità sulla politica delle catture. (...)
 
Non transitano verso le Canarie solo i pescatori che hanno perso il loro lavoro, ma lo fa anche gran parte del pesce proveniente dall’Africa Occidentale verso l’Europa, sicché gran parte del pesce che arriva alle isole è “clandestino”. Il porto di Las Palmas di Gran Canaria ha lo status di zona franca economica, fatto che implica regolamenti doganali favorevoli e pochi controlli: nel 2006 vi erano cinque ispettori portuali per controllare 360.000 tonnellate di pesce in transito l’anno. Gli abusi delle compagnie di pesca hanno trasformato il porto di Las Palmas nel più importante porto europeo per la pesca illegale, non documentata né regolamentata (INDNR). "La pesca [illegale] è internazionalmente riconosciuta come una delle maggiori minacce, specialmente per vivai che subiscono la sovrapesca (overfishing). Ci sono varie iniziativa per combatterla. Nel 2000 la FAO ha adottato un “Piano Internazionale” (...) e recentemente, nel 2009, le nazioni hanno accordato un compromesso legale per applicare misure contro la pesca illegale nei loro porti”, affermano dall’ONG Oceana.
 
Ma le organizzazioni segnalano una falla al momento di lottare contro queste pratiche: l’esistenza di bandiere di convenienza, insegne che gli armatori comprano per velocizzare la burocrazia ed evadere tasse e regolamenti. Si calcola che ci sono circa 40 stati - in cima alla lista troviamo Honduras, Panama e Cambogia – con registri aperti, dove si possono iscrivere comodamente le imbarcazioni. Infatti, nel 2009, 59 pescherecci spagnoli appaiono registrati con bandiere di convenienza.
 
A volte, come denuncia la Coordinatrice Verde, la Spagna si è opposta. E successo quando ci fu l’intento internazionale di adottare misure contro questa pratica. Secondo il diritto del mare, il paese la cui bandiera è spiegata sull’imbarcazione, è tenuto a garantire il rispetto della legalità di quella barca. Normalmente, quei paesi non sono in condizione di esercitare alcun controllo. Quindi, con una bandiera di convenienza risulta facile dedicarsi alla pesca illegale. Il business è lucrativo: le nazioni con quest’attività perdono tra i 10.000 e i 23.500 milioni di dollari l’anno, il che rappresenta tra l’11 e i 26 milioni di tonnellate di pesce. Si calcola che la pesca illegale ai paesi africani costi mille milioni di dollari l’anno.
 
La stessa Commissione Europea stima, in una ricerca emessa nel 2007, che più del 50% del totale delle catture in Somalia, Liberia e Guinea Conakry sono praticate in modo illegale. “In Africa fanno di tutto e senza controllo, perché sanno che non hanno i mezzi per controllare la pesca. Hanno libera circolazione, si portano via tutto il pesce, lasciando il continente morto”, conclude Serigne, ex pescatore senegalese, ora immigrato a Madrid.