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- osservatorio - mondo - politica e società - 21-03-22 - n. 822
Considerazioni sul significato storico della guerra di Ucraina
Eros Barone
21/03/2021
«Il capitalismo porta in sé la guerra, come il nembo l'uragano.» Jean-Léon Jaurès (1859 - 1914)
Il controllo della centrale nucleare di Zaporizhzhia da parte delle truppe russe, avvenuto al nono giorno di guerra, simboleggia come meglio non si potrebbe quale sia la posta della guerra che si sta combattendo in Ucraina. Del resto, le regioni russe dell'est e del sud con i relativi accessi al mare sono ormai in mano ai russi, mentre a Mariupol mezzo milione di abitanti sono accerchiati e a nord-ovest Leopoli è affollata di profughi, in prevalenza donne e bambini perché gli uomini restano a combattere una battaglia di resistenza già persa.
Il fragile negoziato in corso ha portato all'apertura di corridoi umanitari per consentire l'esodo dei civili, mentre la colonna di 60 chilometri di carri russi prosegue lentamente la sua avanzata su Kiev lungo il corso del Dnepr, che in futuro potrebbe segnare il confine fra la parte orientale e la parte occidentale dell'Ucraina riproponendo nel bassopiano sarmatico ciò che è avvenuto per quasi mezzo secolo in Germania: "eadem sed aliter", secondo un modulo ironicamente iterativo, tutt'altro che infrequente nella storia.
Sennonché tutti definiscono quella che si sta svolgendo in Ucraina come "la prima guerra nel cuore dell'Europa dopo quasi ottant'anni", dimenticando (o facendo finta di dimenticare) che in Europa la guerra era già tornata negli anni Novanta in quella Jugoslavia che ha anticipato e prefigurato tutte le guerre successive a base etnico-nazionalista sparse per il mondo. Forse che la Jugoslavia era, prima della sua disintegrazione, una periferia dell'Europa? E invero nell'immaginario dell'Europa appartenente alla Unione europea e alla Nato sembra proprio che il cuore dell'Europa stessa resti sempre lì, al confine fra l'ex Unione Sovietica e l'Occidente capitalistico.
Così, ad ulteriore smentita di coloro che nel 1989 sancirono "la fine della storia", la Storia - con la esse maiuscola - riprende la sua marcia in grande stile, come se in mezzo, tra l'89 e oggi, non vi fosse stato niente, giacché, con ogni evidenza, quelli che stiamo vivendo sono giorni che valgono anni. La contesa fra i diversi e contrapposti imperialismi è quindi una terribile resa dei conti, lo sbocco inevitabile di un trentennio cominciato male e finito peggio.
Se nel clima di isteria bellicista e di paranoica russofobia che domina il mondo sempre più incolto e sguaiato dei 'mass media' non si corresse il rischio di essere accusati di connivenza con il nemico, consiglierei di leggere integralmente i due discorsi del 21 e del 24 febbraio, con cui Putin ha annunciato prima il riconoscimento ufficiale delle repubbliche popolari del Donbass e poi l'"operazione militare speciale", così come l'ha definita lui stesso, in Ucraina. Lungi dall'essere l'espressione politico-letteraria di un folle, come ripete, in base al solito modulo della 'reductio ad Hitlerum' già applicato a Saddam Hussein, a Milosevic, a Gheddafi e ad Assad, la propaganda occidentale e filo-Nato, i due discorsi espongono alcuni dati di fatto incontrovertibili sull'estensione a est della Nato, sulle guerre di aggressione scatenate dall'Occidente a partire dagli anni Novanta in poi (Kosovo, Iraq, Siria, Libia) e, più in generale, sullo "stato di euforia creato dal sentimento di assoluta superiorità, una sorta di assolutismo moderno, unito ai bassi standard culturali", che si è impossessato del campo dei vincitori della "guerra fredda". [1]In realtà, la disàmina che Putin conduce circa le cause di lungo periodo della rinascita dei nazionalismi, ad Est, dopo la fine dell'Urss, conferma che egli, sul piano intellettuale, è uno dei maggiori statisti ('of course', borghesi) che siano emersi sulla scena politica russa e internazionale in questi due decenni del XXI secolo. [2]
Ma vi è di più, poiché ciò che colpisce nelle parole di Putin è l'assunzione della dimensione storica come contesto ineludibile del discorso politico. Una dimensione che è del tutto assente nel discorso politico occidentale, che, sotto il profilo dello spessore storico, si dovrebbe supporre che sia il più dotato. E che invece, per bocca di Draghi e degli altri esponenti dei governi della Unione europea e della Nato, risponde all'iniziativa politico-militare di Putin - un'autodifesa di carattere strategico - usando unicamente il linguaggio dell'economia e della sicurezza, ossia sanzioni e riarmo, e arrivando a scotomizzare - e perfino a teorizzare, come ha fatto Draghi nel discorso alle Camere - ogni ricostruzione del passato attraverso cui si è giunti, passo dopo passo (Iraq, Kosovo, Afghanistan, Libia, Siria), al presente. Del resto, che sugli antecedenti del conflitto in corso Draghi propugni una 'ignava ratio' non può sorprendere, poiché se la concatenazione storica degli eventi che hanno portato alla guerra di Ucraina fosse esattamente compresa nella sua natura di potenziale prologo ad una guerra ben più vasta, i paesi occidentali, e in particolare quelli europei, dovrebbero allora farsi carico (non della intenzionale omissione ma) di ad una radicale autocritica rispetto a tre questioni cardine della politica mondiale.
La prima questione concerne l'atroce sequenza di guerre con cui l'Occidente ha insanguinato l'epoca di pace che aveva annunciato alla fine della "guerra fredda": guerre che rappresentano non solo le concause politiche, ma anche i presupposti formali della situazione che si va delineando in Europa. Innanzitutto, non può non attirare l'attenzione l'analogia fra le motivazioni addotte da Putin a sostegno della minoranza russa in Ucraina e le motivazioni che caratterizzarono la cosiddetta "guerra umanitaria" della Nato a sostegno della minoranza kosovara in Serbia, con il conseguente bombardamento di Belgrado. Laddove il Pd, erede del Pds che in Italia fu, nel quadro politico italiano, il principale responsabile della guerra contro la Serbia, mantiene tuttora un silenzio tombale su quella sciagurata iniziativa bellica, preoccupato soltanto di accreditare il carattere, dapprima 'pacifico' e 'benigno' ed ora guerresco ed interventista, ma pur sempre trionfale, del processo di unificazione dell'imperialismo europeo che si è sviluppato nel trentennio seguito al crollo del muro di Berlino.
In realtà, dovrebbe sollecitare una specifica riflessione la sequenza di guerre civili, regimi instabili, terrorismo ed esodi migratori di proporzioni bibliche prodotta dalle guerre successive a quel crollo, tutte caratterizzate dall'intreccio micidiale di rivendicazioni nazionaliste e scioviniste e di rivendicazioni regionali ed etniche. Si tratta di quella dinamica micidiale che si delinea oggi in Ucraina e, come già è accaduto in Iraq, in Siria e in Libia, rischia di estendersi, con il sostegno militare dei paesi della Nato alla resistenza ucraina e con l'intervento dei mercenari dell'una e dell'altra parte, ad uno scenario europeo ben più vasto di quello ucraino.
La seconda questione riguarda lo stato della democrazia nell'età dell'imperialismo (diciamo pure lo stato della democrazia imperialista) e, segnatamente, quello connesso alla costruzione dell'Unione europea. Secondo Biden, il governo ucraino, sorto da una sanguinosa insurrezione che nel 2014 rovesciò il governo legittimo di Yanukovich, è diventato di colpo la trincea della difesa della democrazia contro l'autocrazia. In altri termini, la linea divisoria del conflitto fondamentale del nostro tempo sarebbe quella che separa e contrappone la democrazia all'autocrazia. A questa narrazione costruita dal gruppo egemone della democrazia imperialista si contrappone la concezione putiniana della cosiddetta "democrazia sovrana": emerge dunque una nuova versione di quello "scontro di civiltà" fra l'Occidente e l'Islàm che ha dominato il ventennio successivo all'11 settembre 2001. Sennonché si tratta di un nodo che, se si tiene presente tutto il periodo che va dal 1989 ad oggi, stringe quel trentennio al presente e al futuro dell'Unione europea e investe la collocazione di quest'ultima nella contesa globale che si sta profilando su scala mondiale.
La terza questione riguarda la collocazione internazionale dell'Unione europea. Orbene, il rilancio dell'atlantismo da parte di Biden risultava già ambivalente all'indomani della sua elezione, giacché, mentre riavvicinava le due sponde dell'Atlantico che la politica isolazionista di Trump aveva allontanato, innalzava un nuovo muro fra l'Europa e i paesi orientali chiamando l'Unione europea a schierarsi nettamente contro di essi. Già allora i dirigenti più consapevoli e responsabili dei paesi europei - 'in primis', la Germania - spinsero per una scelta, sì, atlantista, ma aperta verso Est e capace di porsi come anello di congiunzione fra gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Sennonché la fine dell'epoca dominata dalla personalità di Angela Merkel in Germania e l'avvento del governo Draghi in Italia hanno segnato una netta cesura nei confronti di quella prospettiva. E oggi è quanto mai significativo, ed inquietante, il consenso generale che circonda l'orientamento dei governi dei paesi europei attorno alla parola d'ordine americana di un nuovo scontro di civiltà fra Occidente e Oriente integralmente posto sotto l'insegna della Nato, di sanzioni durissime che colpiranno Putin ma affosseranno la transizione energetica europea e la "via della seta" cinese, di una politica di pura potenza, di un riarmo di cui la Germania assume per la prima volta l'iniziativa e di un clima di crescente "mobilitazione totale" che mette persino in discussione la neutralità storica di paesi come la Finlandia, la Svezia e la Svizzera.
A questo punto, è lecito domandarsi se l'Unione europea, dopo aver clamorosamente mancato tutte le possibilità di una composizione diplomatica del conflitto, armandosi in tale misura e armando la stessa resistenza ucraina, come già sta facendo, non finirà col fare le spese della nuova spartizione dell'ordine globale che si sta giocando nella guerra fra l'imperialismo russo e il nazionalismo ucraino. Occorre riconoscere infatti che alla potenza militare ed economica effettivamente mostruosa che i paesi della Nato sono riusciti a sviluppare non corrisponde alcun progetto, giacché tale non è la narrazione del "conflitto di civiltà" tra Oriente ed Occidente. Anzi, questo è propriamente il tallone di Achille dell'Occidente. Si intende qui per progetto un disegno di governo mondiale che sia allo stesso tempo riconoscibile econdivisibile da parte dell'umanità. La pura esibizione di potenza, la declamata volontà di imporre il proprio dominio, restano semplicemente tali. Ottengono nel breve periodo obbedienza formale, accettazione forzosa, non adesione convinta. In realtà, in Russia, piaccia o non piaccia all'Occidente, è sorto un gruppo dirigente fortemente qualificato, per il quale la revanche è diventata, nelle mutate condizioni di un capitalismo di Stato, un obiettivo da perseguire. Ma proprio questa considerazione mostra come la volontà di potenza statunitense bruci i gruppi dirigenti "alleati" anziché consolidarli. In quanto politica imperialista non ce ne può essere una così poco lungimirante.
Senza un progetto la tenuta dell'imperialismo occidentale è altamente problematica. Che debba farlo notare, con Kissinger e poche altre menti illuminate, la diplomazia "classica" di tradizione liberale, quella attenta agli equilibri e alle conseguenze controproducenti delle proprie stesse vittorie, è un paradosso della politica "progressista". Sono le antinomie di cui si nutre il pensiero borghese. Allo scrivente, che si rifà ad un ben diverso filone di pensiero, spetta quindi soltanto di ribadire il seguente assioma: sotto il tallone di ferro dell'imperialismo non vi è pace che sia desiderabile e non vi è guerra che non sia infame.
Note:
[1] In questa fenomenologia rientrano ad esempio, come sottoprodotti politico-culturali dell'attuale classe dirigente italiana, un Di Maio e un Guerini.
[2] Putin, nel rivendicare l'esperienza storica dell'imperialismo e del nazionalismo grande-russo, attacca Lenin per la sua politica delle nazionalità fondata sul riconoscimento del diritto di autodecisione delle nazioni. L'Ucraina, afferma, è «l'Ucraina di Vladimir Lenin», che ne è «autore ed architetto». Nella sua ricostruzione storica vi è un elemento di verità, là dove afferma che i bolscevichi non si curarono di danneggiare l'interesse della Russia, perché la loro prospettiva era «la rivoluzione mondiale». Lenin individuò infatti nella questione nazionale un'arma per combattere l'Impero zarista "prigione di popoli"; in questo il diritto di autodecisione fu parte integrante della strategia di disfattismo rivoluzionario che portò alla rivoluzione d'ottobre. Quando in questione fu lo statuto dell'Urss, si deve poi considerare che la scelta di assicurare piena autodeterminazione all'Ucraina dentro all'Unione fu, per un verso, una carta contro le spinte grandi-russe e, per un altro verso, fu un modo per depotenziare le possibilità d'intervento delle potenze imperialiste, che miravano a far leva sulle correnti nazionaliste per indebolire e disgregare l'Urss; per un altro verso ancora, fu un segnale che il potere bolscevico mandava ai movimenti di liberazione nazionale in atto nel mondo coloniale.
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