Corrono tempi difficili, pericolosi e frustranti. Molte certezze rassicuranti stanno crollando. Molti valori un tempo condivisi non sono più tali. E si diffonde la sfiducia verso istituzioni impossibili da smantellare.
Eppure, sono trascorsi soltanto poco più di tre decenni da quando gli intellettuali nordamericani ed europei lodavano in coro il trionfo del «dono» elargito dall'Occidente al mondo intero: il liberalismo politico ed economico. Per quasi mezzo secolo, il liberalismo occidentale aveva condotto una guerra «fredda» contro quella che era la più grave minaccia al suo predominio. Fatta eccezione per la controrivoluzione fascista degli anni Trenta contro il liberalismo politico, nessun movimento aveva mai scosso l'establishment liberale occidentale e la sua fiducia in se stesso come il socialismo rivoluzionario. All'apparenza, tale minaccia terminò nel 1991.
In quel momento fatidico, molti ritennero che i valori dell'illuminismo occidentale si fossero dimostrati universali ed eterni. Fu Francis Fukuyama a proclamare orgogliosamente nel 1992 ciò che nessuno aveva ancora dichiarato: la storia aveva trovato la propria soluzione dialettica nella vittoria del capitalismo e delle sue istituzioni politiche.
Tale vittoria aleggiava nella mente di molti, e si trattava di una vittoria duplice: dimostrava che vi erano Stati - concentrati in due continenti, Europa e Nord America - che avevano vinto in quanto facevano propri e promuovevano i valori vincenti, e dimostrava inoltre che tali valori erano di fatto i più avanzati e giusti di tutti i tempi.
Le lugubri vicende del Novecento, all'insegna di imperialismo, guerra e disumanità, offrono un esempio decisamente misero di promozione del pensiero illuminista e di applicazione dei criteri di uguaglianza, democrazia e giustizia sociale.
Dal canto loro, gli Stati Uniti, forti del loro isolamento dalla misantropia europea, orgogliosi della loro gioventù, del loro vigore e del loro retaggio rivoluzionario e attenti a insabbiare la loro opera di distruzione dei popoli indigeni, si ponevano come modello di liberalismo politico ed economico. Gli USA, concentrati sull'espansione nel proprio continente (con la conseguente dispersione dei popoli nativi), erano scesi in ritardo nell'arena della lotta imperialista globale, facendo affidamento più sulla coercizione economica che sulla potenza militare nelle questioni internazionali.
Non del tutto a torto, gli Stati Uniti vantano i loro successi: il superamento di una grande guerra civile combattuta per infrangere le catene della schiavitù, un passato di apertura all'immigrazione, una tradizione ininterrotta di prassi elettorale e una costante stabilità sociale e politica. È ovvio che, a un'analisi più attenta, nessuna di queste glorie risulta avere il peso che viene loro attribuito nella mitologia nazionale.
Cionondimeno, nel bene e nel male questi successi sono stati presentati come il miglior esempio dell'aderenza dell'Occidente ai valori portati alla ribalta dalla transizione rivoluzionaria dal dispotismo feudale, dall'arretratezza economica e dall'oppressione religiosa. La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti rimane uno dei riflessi ideologici più avanzati di tali processi.
Paradossalmente, poco dopo la dissoluzione dell'URSS - che segnò la fine di una grande lotta per la conquista della lealtà di miliardi di persone - questa immagine liberale degli USA si è rapidamente offuscata e macchiata in modo irreparabile. Venuta apparentemente meno la necessità di mostrare al mondo un volto illuminato, la maschera è caduta, rivelando una nazione governata da una classe dirigente intollerante, privilegiata e rapace, che si cura ben poco dei valori del liberalismo classico da essa tradizionalmente professati.
Un risorgente militarismo alimentato da un'assurda guerra «al terrorismo» ha plasmato una politica estera distruttiva e prepotente. L'attacco jihadista sferrato in risposta contro civili americani nel 2001 è servito da pretesto per una guerra del governo contro la privacy e le libertà civili dei cittadini, senza precedenti in termini di pervasività e raffinatezza tecnologica. Fatta eccezione per la fiacca e trasparente bugia delle «armi di distruzione di massa», non si è nemmeno tentato di mascherare l'invasione non provocata dell'Iraq nel 2003. A pochi anni dall'inizio del XXI secolo, sulla vita pubblica e privata degli Stati Uniti era ormai calata una cortina orwelliana. Il mito secondo cui gli USA non avevano mai condotto guerre di aggressione era in frantumi.
Guantánamo e Abu Ghraib hanno distrutto un altro mito, quello secondo cui l'icona del liberalismo non torturava i suoi prigionieri. Le riflessioni filosofiche sull'efficacia della tortura non erano più un esercizio puramente teorico.
I guru statunitensi hanno abbracciato apertamente l'imperialismo, citando espressamente il Vecchio Mondo e gli imperi antichi quali precedenti degli interventi USA in tutto il mondo e del ruolo degli Stati Uniti quali arbitri e gendarmi a livello globale. Gli USA si sono rifiutati di riconoscere come vincolanti i risultati delle inchieste dei tribunali internazionali e le risoluzioni adottate democraticamente dalle Nazioni Unite. Le denunce delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani - che durante la Guerra Fredda si erano deliberatamente prestate a fare da utili strumenti - sono state ignorate ogni qual volta criticavano anche velatamente le pratiche adottate dagli USA.
La promessa liberale di universalità e uguaglianza di fronte alla legge è stata infranta da un'ondata di carcerazioni draconiane e discriminanti sul piano razziale nel corso degli anni Novanta, che hanno riempito il sistema carcerario statunitense fino al limite della sua capienza trasformando in farsa la giustizia e la prassi processuale.
Le enormi diseguaglianze di ricchezza e di reddito negli Stati Uniti - aumentate in proporzione geometrica nel corso degli ultimi cinquant'anni - sono sabbia negli ingranaggi del tanto vantato meccanismo politico liberale imperniato su elezioni frequenti, informate ed eque. Quando oltre metà dei cittadini ormai delusi non si prende nemmeno il disturbo di registrarsi o di votare, quando l'elezione a cariche importanti richiede investimenti per la campagna elettorale ben al di là delle possibilità della maggior parte dei cittadini, quando la maggior parte dei candidati si vende a ricchi finanziatori, quando i media trattano le questioni all'insegna del sensazionalismo e della banalizzazione, il valore delle procedure «democratiche» diminuisce vertiginosamente.
Questa diseguaglianza economica colpisce con la massima violenza le minoranze storicamente defraudate di una piena partecipazione alla vita civile - la pietra angolare del liberalismo. Razzismo, nazionalismo anti-immigrazione e intolleranza pervadono quelli che furono i bastioni del liberalismo in Europa e Nord America.
I fallimenti del liberalismo economico non hanno fatto che acuire le difficoltà del liberalismo politico. Il capitalismo globale ha attraversato numerose dure tempeste dopo il Duemila - crisi finanziarie, crisi del debito e oggi l'inflazione.
Con buona pace di Francis Fukuyama e degli altri tronfi celebratori della «morte» del comunismo, il treno liberale ha iniziato ben presto a deragliare. Nel 2023 la fiducia nelle sorti del liberalismo è ormai crollata.
Gli elettori hanno ben poche alternative: lasciare tutto come sta, oppure rivolgersi al nuovo populismo, con un piede nel passato («Make America Great Again!») e l'altro nella promessa di un vago e indistinto futuro liberato dalla corruzione e dall'ipocrisia dei partiti tradizionali.
Va detto che sono sorti nuovi movimenti «alla moda», guidati da giovani, che hanno tentato di fare fronte al crollo del consenso verso la politica tradizionale promettendo novità confezionate in forme accattivanti e innovative. Movimenti quali Occupy e formazioni quali SYRIZA, Podemos e Movimento 5 Stelle hanno irretito molti con i loro programmi ultra-liberali e ultra-tolleranti, indirizzati ai ceti medi e medio-alti istruiti relativamente sicuri sul piano economico, ma sordi nei riguardi degli stili di vita e delle barriere culturali più tradizionali. Una volta maturati, e sovente trasformatisi in partiti politicamente rilevanti in grado di misurarsi con la vecchia guardia, questi movimenti si sono rivelati essere la solita vecchia minestra, che ha lasciato l'amaro in bocca ai loro sostenitori.
La politica odierna è prigioniera di un'avvilente impasse, caratterizzata da una forte tendenza alla litigiosità, ma continua a collocarsi nel ristretto solco del liberalismo classico, in una variante o nell'altra. È interessante rilevare come il disagio dei ceti intellettuali e la collera della cittadinanza abbiano stimolato una sorta di atteggiamento tribale. Accademici e guru parlano e scrivono della necessità di salvare «la nostra democrazia», come se qualcuno credesse davvero che possa esistere una democrazia quando candidati, voti e notizie sono oggetto di compravendita. E i loro omologhi di destra celebrano la santità e le virtù della Costituzione americana, come se provenisse da Dio invece che dai lumi della ragione.
Ma sia la destra sia la sinistra, nel campo della politica tradizionale, sono ormai pronte a gettare alle ortiche la tolleranza e la civiltà del liberalismo per ostacolare - e perfino per eliminare politicamente - i loro avversari politici. La libertà di espressione, di parola, di associazione e di difesa contano ben poco nel sordido mondo di oggi, in cui i più strenui fautori del liberalismo difendono attivamente la violazione dei valori più sacri del liberalismo stesso e si fanno promotori della censura e dell'esclusione.
La dottrina dei diritti, un tempo sacrosanta, è stata estesa al di là dei diritti umani sino a divenire assurda e priva di senso, allargandosi alle multinazionali, a tutte le creature organiche e perfino agli oggetti inanimati - tutti soggetti che oggi vengono ampiamente riconosciuti come portatori di diritti.
La libertà, pietra angolare delle costituzioni liberali, è ormai del tutto scollegata dalle proprie radici di liberazione e si è ridotta a un egoismo personalistico e individualistico, prodotto decadente del consumismo aziendalista.
I pochi liberali convinti rimasti - individui come Glenn Greenwald e Matt Taibbi - vengono bersagliati da ogni parte per la loro difesa della libertà di parola e del giornalismo «neutrale». In un'era di sfacciata ipocrisia, costoro appaiono degli autentici ingenui.
Se Marx fosse vivo, non sarebbe sorpreso da questi sviluppi. Marx associava l'emergere del liberalismo classico alle origini e alla maturazione del capitalismo. L'ascesa della borghesia come classe aveva generato un'ideologia propria, un'ideologia che spezzava le catene del privilegio nobiliare ereditario e dell'oscurantismo religioso, diffondendo la speranza tra le masse condannate a un futuro immutabile di lavoro contadino e opprimente miseria. Tale speranza per le classi lavoratrici - fondata sulle promesse incarnate da diritti umani naturali e universali, fratellanza e suffragio universale - servì a cementare l'alleanza tra la borghesia e la classe operaia contro la nobiltà e i suoi sostenitori.
L'ideologia borghese, il liberalismo classico, sfidava le fondamenta del privilegio medievale basato sul diritto divino e sull'immutabilità delle posizioni all'interno della società. Al posto del vecchio modo di pensare, gli illuministi promuovevano i diritti naturali - equivalenti sul piano sociale delle leggi naturali scoperte dalle scienze emergenti. Come le leggi della natura, le leggi sociali dovevano fondarsi sulla ragione, non su Dio o sul diritto di nascita.
Per le società occidentali questa nuova ideologia costituì un dono positivo, che ampliò la partecipazione politica, stimolò la mobilità sociale, liberò lo sviluppo economico e scientifico e creò istituzioni politiche più democratiche. Tali sviluppi furono accompagnati dall'idea che le classi in ascesa possedessero verità universali e rivelate - che il nuovo ordine economico, sociale e politico fosse cioè il migliore ordine concepibile.
Gli accademici borghesi tentano ossessivamente da secoli di fornire un fondamento razionale a questa concezione, ma senza successo.
Il giovane Karl Marx la vedeva in modo del tutto diverso; liquidando senza mezzi termini l'ossessione borghese per i diritti naturali che rilevava in Die Judenfrage di Bruno Bauer, scriveva: «Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa dunque l'uomo egoistico (…) cioè l'individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità».
Marx ammetteva che l'armamentario sociale borghese - il liberalismo classico - era «adeguato» e funzionale, nella sua epoca, all'emancipazione e alla liberazione della classe borghese e, in misura limitata, della classe operaia. Ma si rendeva conto anche che esso era limitato dalla propria prospettiva di classe. Il diritto di proprietà e la sacralità della proprietà privata, nucleo del liberalismo classico, impedivano il completamento dell'emancipazione dell'umanità.
Tutte e tre le classi - nobiltà, borghesia e proletariato - presero parte alle rivoluzioni che scossero l'Europa nel 1848, stabilendo alleanze temporanee e instabili atte a raggiungere i loro rispettivi obiettivi - un periodo magnificamente fotografato da Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Ma le differenze tra l'ordine borghese in ascesa e il futuro ordine proletario erano incarnate dal popolare slogan «Non libertà di leggere, ma libertà di nutrirsi!».
Oggi il capitalismo è moribondo. Il suo declino era ormai evidente negli ultimi decenni del Novecento, benché temporaneamente attenuato dalla sua espansione nella Repubblica Popolare Cinese e dalla controrivoluzione in Unione Sovietica e nell'Europa orientale. In ogni caso, la capacità del capitalismo di garantire un tenore di vita adeguato, sicurezza e difesa diminuisce con ogni crisi economica e con ogni guerra. Non deve dunque sorprendere che anche la sua sovrastruttura politica e sociale, che comprende le ideologie del liberalismo economico e politico, sia a sua volta in crisi e mostri analoghi segnali di declino e disfunzione.
Così come l'ascesa del liberalismo politico ha accompagnato l'alba del capitalismo, il suo declino ne accompagna il tramonto. Il cancro della corruzione e dell'avidità, la decomposizione della prassi politica e la decadenza della cultura e dei media rendono inevitabile un'ulteriore declino delle istituzioni del liberalismo classico.
Da che cosa saranno sostituite?
È opportuno oggi rammentare e considerare le parole di Rosa Luxemburg: «La società borghese si trova ad un bivio, o la transizione al socialismo o la regressione alla barbarie».
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