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Guerra, lotta di classe e petrolio a buon mercato (1)

Jan Angus | antropocene.org

28/05/2022



La Seconda Guerra mondiale ha creato le condizioni cha da allora hanno foggiato il capitalismo e provocato la Grande accelerazione nelle sue dinamiche ecologicamente distruttive.

Pubblichiamo, dal libro di Ian Angus, Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra * (Asterios Editore, 2020), il Capitolo IX: Guerra, lotta di classe e petrolio a buon mercato, dove la guerra e le sue conseguenze vengono considerate come una fase di transizione tra due epoche. Questa è la prima parte.



Le decine di milioni di morti delle due Guerre mondiali hanno dato luogo a decine di trilioni di dollari di investimenti redditizi nella enorme ricostruzione di case e industrie distrutte, nonché nel riarmo; ossia più di un milione di dollari per cadavere.
Darko Suvin [1]

L'abitudine di usare gli eventi storici come spartiacque temporali, può distrarre dal contenuto reale di quegli eventi. Per esempio, quando si dice che l'Anthropocene è iniziato dopo la Seconda Guerra mondiale, di solito vogliamo dire che è iniziato dopo il 1945, quando bisognerebbe piuttosto sottolineare che il suo avvento ha fatto seguito ad uno dei conflitti più devastanti, micidiali e disumani della storia.
Questa è una distinzione importante, perché la guerra non costituisce solo un passivo spartiacque tra Olocene e Anthropocene. La Seconda Guerra mondiale ha creato le condizioni cha da allora hanno foggiato il capitalismo e provocato la Grande accelerazione nelle sue dinamiche ecologicamente distruttive. Questo capitolo considera la guerra e le sue conseguenze come una fase di transizione tra due epoche.

I profitti della guerra

Lo sviluppo del capitalismo è segnato dall'inizio del XIX secolo da una dipendenza sempre più marcata dai combustibili fossili, ma il ritmo di crescita e trasformazione dell'economia aveva subito un rallentamento con la Grande Depressione degli anni '30, prima di essere interrotto dalla Seconda Guerra mondiale. Dato il bisogno intrinseco del capitalismo non solo di crescere, ma di crescere più velocemente, un fenomeno come la Grande accelerazione si sarebbe forse prodotto anche se non ci fossero state la crisi e la guerra. Di fatto, la peggiore depressione della storia del capitalismo e la guerra più devastante di tutti i tempi hanno preparato il terreno ai cambiamenti economici e sociali che hanno proiettato il sistema Terra in una nuova e pericolosa epoca.

È impossibile esagerare l'orrore della Seconda Guerra mondiale, un conflitto nel quale le potenze in competizione hanno usato ogni possibile arma e risorsa in una lotta per il dominio globale. In sei anni, sessanta milioni di soldati e civili sono morti in combattimento o genocidi voluti dagli stati, e altre venti milioni di persone sono morte di fame o malattia. In URSS la guerra ha fatto ventisette milioni di vittime. In India, tre milioni di persone sono morte di fame a causa della cosiddetta «guerra segreta di Winston Churchill». Intere città del Giappone e dell'Europa sono state rase al suolo. Vaste foreste, milioni di ettari di terreni agricoli e siti industriali del valore di miliardi di dollari sono stati distrutti. Nell'agosto del 1945, l'arma più devastante mai concepita ha ucciso in pochi secondi più di centomila persone e ne ha condannato altre migliaia a una lenta agonia. Alla fine dei combattimenti, vaste regioni dell'Europa, Asia e Africa erano in rovina. Le loro infrastrutture economiche erano devastate. Il Regno Unito era in condizioni migliori rispetto al resto d'Europa, ma la sua economia era indebolita e le finanze dello stato gravemente compromesse. L'unico vero vincitore furono gli Stati Uniti. Risparmiata dai danni materiali del conflitto, la sua economia era più potente che mai. Grazie alla produzione di guerra, il PNL era più che raddoppiato: con quasi i due terzi della produzione industriale mondiale, gli Stati Uniti erano diventati una potenza egemonica planetaria [2].

Guadagni per il capitale monopolistico

Nel 1942, Henry Stimson, Segretario alla Guerra sotto Roosvelt, spiegava perché si era opposto all'imposta sui maggiori utili di guerra: «Se un paese capitalista vuole fare la guerra, gli ambienti imprenditoriali devono trarne profitti o non coopereranno» [3]. Così, mentre milioni di persone si facevano massacrare, una minoranza si arricchiva. Un scrittore socialista avrebbe descritto così la situazione nel 1946: «Per la plutocrazia statunitense, la Seconda Guerra mondiale fu l'impresa più redditizia di tutta la sua carriera. Essa ha fatto dei capitalisti americani i più ricchi padroni della storia» [4].
Le tendenze a lungo termine di cui abbiamo parlato nell'ottavo capitolo si sono consolidate durante questo conflitto.

Concentrazione del capitale. I due terzi delle commesse militari, per un totale di centosessantacinque miliardi di dollari, furono ottenute da cento aziende, e più della metà solamente da trentatré. Quasi l'80% delle fabbriche costruite con l'aiuto di fondi pubblici era gestito dalle duecentocinquanta più grandi corporation. Dopo la guerra, queste strutture furono vendute a meno di un quarto del loro costo di costruzione, e ottantasette aziende ne acquisirono i due terzi. La maggior parte delle commesse erano stipulate a costo maggiorato (cost-plus), dunque i profitti delle corporation erano garantiti. Durante la guerra, le società statunitensi realizzarono profitti per cinquantadue miliardi di dollari al netto delle imposte, accumulato riserve di capitale per un totale di ottantacinque miliardi e accresciuto la loro capacità produttiva di oltre il 50% [5].

Alla fine della guerra, il 31% dei dipendenti statunitensi lavorava in aziende con più di diecimila dipendenti, rispetto al 13% del 1939 [6]. Durante lo stesso periodo, la percentuale di imprese con meno di cinquecento dipendenti era passata dal 52 al 34%. Nel 1946, la commissione del Senato sulle piccole imprese riferiva che le duecentocinquanta più grandi corporation controllavano «il 66,5 % di tutti gli impianti utilizzabili e quasi il totale dei 39,6 miliardi di dollari detenuti prima della guerra dalle ben oltre 75.000 aziende manifatturiere esistenti» [7].

Le corporation americane hanno inaugurato il periodo post-bellico con un'immensa riserva di liquidità e infrastrutture produttive più nuove e più grandi di quelle dei loro potenziali concorrenti degli altri paesi.

Petrolio e automobile. Il petrolio aveva svolto un ruolo importante nella Prima Guerra mondiale; nella Seconda, il suo ruolo fu determinante:

Più che in qualsiasi conflitto precedente, le armi alimentate a petrolio (carri armati, aerei, sottomarini, portaerei, blindati per il trasporto truppe) hanno dominato i teatri delle operazioni belliche… La richiesta di carburante era esorbitante: per coprire cento chilometri, un battaglione blindato tipo aveva bisogno di oltre 40.000 litri di benzina; da sola, la Quinta Flotta degli Stati Uniti ha consumato 630 milioni di galloni di benzina nell'arco di due anni [8].

Su sette barili di petrolio usati dalle forze alleate, sei provenivano da pozzi situati negli Stati Uniti ed erano stati raffinati da compagnie petrolifere statunitensi [9]. Per garantire gli approvvigionamenti, il governo realizzò oleodotti destinati a portare il petrolio del Texas alle raffinerie del Nord-est, e, nel quadro di «una delle imprese industriali più grandi e più complesse della guerra», costruì decine di nuove raffinerie dotate di tecnologie avanzate, in grado di produrre carburante con un numero di cento ottani destinato agli aerei [10]. Dopo la guerra, la benzina ad alto numero di ottani avrebbe alimentato non solo gli impianti di produzione ad alto consumo di energia ma anche i motori V8 delle auto dalle dimensioni sproporzionate progettate a Detroit.

Sarebbe rimasto abbastanza petrolio per l'economia del dopoguerra, o per un'altra guerra? Nessuno conosceva allora l'entità delle riserve racchiuse nel sottosuolo degli Stati Uniti. Nel 1943, il governo fece quindi il necessario per evitare eventuali carenze corrompendo il monarca assoluto Ibn Saud, affinché concedesse i diritti esclusivi sul petrolio saudita a un consorzio di società petrolifere statunitensi.

Nel 1942, la produzione di auto, camion e pezzi di ricambio era interamente cessata negli Stati Uniti, ma le case automobilistiche continuavano a prosperare: lo stato versò loro circa ventinove miliardi di dollari per la produzione di più di tre milioni di jeep, camion, motori per areoplani, carri armati, veicoli blindati, mitragliatrici e bombe. Alla fine della guerra, le loro fabbriche non solo erano intatte ma persino modernizzate e ampliate.

Chimica industriale. Durante la Seconda Guerra mondiale, il governo degli Stati Uniti investì più di tre miliardi di dollari nella costruzione e nell'ingrandimento di impianti petrolchimici incaricati di produrre composti azotati per esplosivi, gomma sintetica per pneumatici, nylon per paracadute, etc. Dopo il conflitto, le compagnie petrolifere e chimiche poterono acquistare questi impianti al ribasso: ad esempio, una fabbrica del valore di due miliardi di dollari fu venduta a 325.000 dollari (a Standard Oil), un impianto da diciannove milioni fu venduto a dieci milioni (a Monsanto) e un complesso industriale da trentotto milioni fu venduto a tredici milioni (a DuPont) [11].

Questi omaggi gettarono le basi dell'era della plastica, in cui DuPont avrebbe brandito il suo slogan «Better Things for Better Living Trough Chemistry» senza coprirsi di ridicolo. Secondo lo storico Kevin Phillips, «le commesse di guerra hanno rivoluzionato» le tecnologie di produzione, cosicché «i dirigenti di un numero crescente di aziende hanno iniziato a vendere prodotti la cui commercializzazione sarebbe stata impossibile prima di Pearl Harbor» [12]. Quasi inesistente prima della guerra, l'industria della plastica è diventata la terza più grande industria manifatturiera degli Stati Uniti, posizione che occupa ancora oggi.

(Seconda parte)

Note

* Titolo originale: Facing the Anthropocene. Fossil Capitalism and the Crisis of Earth System, Monthly Review Press, New York, 2016, (Trad. it. Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra, Trieste, Asterios Editore, 2020, a cura di Giuseppe Sottile e Alessandro Cocuzza, traduttori: Alessandro Cocuzza, Vincenzo Riccio, Giuseppe Sottile).

[1] Darko Suvin, In Leviathan's Belly: Essays for a Counter-Revolutionary Time, Rockville (MD), Wildside Press, 2013 edizione Kindle, pos. 1825.
[2] E. J. Hobsbawm, The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914-1991, Londra, Abacus Books, 1995, p. 258, (trad. it. Il secolo breve, Rizzoli, 1997).
[3] David M. Kennedy, Freedom from Fear: The American People in Depression and War, 1929-1945, New York, Oxford University Press, 1999, p. 622.
[4] J. Thorne, «Profiteering in the Second World War», Marxists Internet Archive. https://www.marxists.org/history/etol/newspape/fi/vol07/no06/thorne.htm. J. Thorne avrebbe potuto essere lo pseudonimo di Frank Lovell o Art Preis.
[5] George Lipsitz, Rainbow at Midnight: Labor and Culture in the 1940s, Chicago, University of Illinois Press, 1944, p. 57; James Heartfield, Unpatriotic History of the Second World War, Londra, Zero Books, 2012, p. 36.
[6] George Lipsitz, op. cit. p. 61.
[7] Citato in Art Preis, Labor's Giant Step: Twenty Years of the CIO, New York, Pioneer Publishers, 1964, p. 301.
[8] Michael T. Klare, Blood and Oil: The Dangers and Consequences of America's Growing Dependency on Imported Petroleum, New York, Henry Holt, 2004, p. 28.
[9] Timothy Mitchell, Carbon Democracy: Political Power in the Age of Oil, London, Verso, 2011, p. 133-135; Michael T. Klare, op. cit., p. 28.
[10] Daniel Yergin, The Prize: The Epic Quest for Oil, Money and Power, New York, Simon & Schuster, 1991, pp. 383, 384 (trad. it. Il premio. L'epica corsa al petrolio, al potere e al denaro, Sperling & Kupfer, 1991).
[11] Peter H. Spitz, Petrochemicals: The Rise of an Industry, New York, Wiley, 1988, pp. 153, 154, 228.
[12] Kevin Phillips, Wealth and Democracy: Political History of the American Rich, New York, Random House, 2002, p. 77.

Ian Angus

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Guerra, lotta di classe e petrolio a buon mercato (2)

Ian Angus | antropocene.org

10/06/2022



Seconda parte del Capitolo IX: Guerra, lotta di classe e petrolio a buon mercato di Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra * di Ian Angus, dove la guerra e le sue conseguenze vengono considerate come una fase di transizione tra due epoche.

Il keynesismo militare

Nel 1944, la rivista Politics pubblicò un articolo del socialista Walter J. Oakes che prevedeva che, contrariamente a ciò che era avvenuto dopo i precedenti conflitti, gli Stati Uniti avrebbero mantenuto spese militari elevate dopo la guerra. Egli osservò che la classe dominante si era data due grandi obiettivi per il periodo post-bellico: avviare i preparativi in vista di una terza guerra mondiale e prevenire i disordini sociali che avrebbero potuto impadronirsi del paese se la disoccupazione di massa l'avesse colpito di nuovo. Per raggiungere questi obiettivi, gli Stati Uniti avrebbero inaugurato «un'era di economia di guerra permanente» [1].

Sebbene abbia impiegato più tempo del previsto a concretizzarsi, la prognosi di Oakes si è rivelata in sostanza giusta. Nel 1950, il settimanale U.S. News & World Report informava i suoi lettori degli ambienti d'affari che «gli strateghi del governo ritengono di aver trovato la formula magica per una congiuntura economica favorevole quasi permanente ... la guerra fredda è un vero e proprio catalizzatore» [2]. Il keynesismo militare (massiccia spesa militare destinata a mantenere o stimolare la crescita economica) ha caratterizzato l'economia statunitense per più di mezzo secolo, non importa quale partito fosse al governo.

Negli anni '30, il budget militare degli stati Uniti era di circa cinquecento milioni di dollari all'anno. Dal 1946 al 1949, nonostante i tagli fatti alla fine della guerra, le spese per il personale militare e per gli armamenti erano trentotto volte più elevate di prima della guerra, raggiungendo una media di diciannove miliardi di dollari all'anno [3]. Esse sarebbero esplose quando Washington intervenne nella guerra civile coreana - un'"azione di polizia" che avrebbe fatto più di due milioni di vittime, per lo più civili:

Nel primo anno della guerra di Corea, Truman procedette a preparativi la cui ampiezza finì col superare quella della mobilitazione di poco successiva all'entrata degli Stati Uniti nella Seconda Guerra mondiale. Così fece passare gli effettivi dell'esercito da 1,5 milioni a 3,2 milioni di soldati, il numero di divisioni dell'esercito da 10 a 18, il numero di squadre aeree da 42 a 72 e il numero di navi da 618 a 1000, incluse 14 per il trasporto di truppe. Il Congresso aveva stanziato la somma di 50 miliardi di dollari a questo scopo; Truman avrebbe chiesto 62,2 miliardi per l'anno seguente, dopo aver contenuto le pretese del comitato dei capi di stato maggiore interforze, che ne richiedeva oltre 100 miliardi. Solo circa il 25% di queste somme colossali era destinato alla guerra di Corea, la maggior parte dei fondi essendo riservata alla lotta mondiale contro il comunismo [4].

Le centinaia di miliardi di dollari riservati alla produzione di armamenti e alle industrie interessate durante la guerra di Corea - e in tutti gli anni che seguirono - accelerarono gli investimenti in impianti ad alto consumo di energia e fortemente inquinanti e stimolarono indirettamente il consumo di automobili, case, elettrodomestici e altri beni. Questi miliardi ebbero anche conseguenze disastrose per l'ambiente.

Riconversione e lotta di classe

Gli storici liberali amano presentare gli anni del dopoguerra come una transizione rapida e lineare dall'economia di guerra al Golden Age. Grazie alle vigili politiche dell'amministrazione Truman e ai risparmi accumulati da soldati e lavoratori, la «riconversione» generò prosperità universale senza distruzione. Nella sua storia pionieristica del CIO, lo storico marxista Art Preis contesta questa interpretazione:

Tale falsificazione si ottiene mettendo insieme gli anni del boom della guerra di Corea con quelli precedenti di stagnazione e recessione. Nasconde le reali condizioni che regnavano durante gli anni di pace dell'amministrazione Truman. Si tende a coprire l'aspetto fondamentale della recente storia economica americana: dal 1929, in nessun periodo il capitalismo americano ha mantenuto la minima parvenza di crescita e stabilità economica senza enormi spese militari e un debito di guerra [5].

L'economista Lynn Turgeon concorda:
Sebbene l'economia americana del dopoguerra sia stata stabilizzata dalla domanda repressa e dal risparmio forzato accumulato durante la guerra, dal Piano Marshall, dal programma Point 4 e dal successivo programma Foreign Aid (che sarebbe diventata in seguito l'Agency for International Development), la transizione verso un'economia di pace si è svolta molto lentamente. Nel 1950, il reddito reale era appena più alto che nel 1945, e fu necessario il boom della guerra di Corea perché la produzione annuale superasse quella della fine della Seconda Guerra mondiale [6].

Sul piano statistico, è possibile che la domanda repressa di beni di consumo abbia contribuito a prevenire una recessione, ma la maggior parte dei lavoratori non beneficiarono della prosperità dei padroni prima degli anni '50. Per molte persone, l'immediato dopoguerra fu un periodo particolarmente difficile. Sulla scia della capitolazione della Germania nazista nel maggio 1945, gli industriali americani ridussero le ore di lavoro ed effettuarono licenziamenti, e la fine del controllo dei prezzi provocò un'inflazione del costo del cibo e altri beni essenziali. Nell'ottobre del 1945, gli Stati Uniti contavano circa due milioni di disoccupati e il reddito reale era diminuito del 15% [7].

Furono particolarmente colpite le donne, perché i datori di lavoro intendevano tornare a una forza-lavoro "normale" (vale a dire esclusivamente maschile). Questa congiuntura economica e le rimostranze accumulate durante i quattro anni di guerra provocarono la più importante ondata di scioperi della storia degli Stati Uniti. Nel 1945, 3,5 milioni di lavoratori parteciparono a 4750 scioperi; nel 1946, 4,6 milioni parteciparono a 4985 scioperi. Secondo Art Preis, «Per numero di scioperanti, il loro peso nell'industria e la durata delle lotte, l'ondata di scioperi del 1945 e 1946 negli Stati Uniti fu più importante di tutte quelle che si erano precedentemente verificate in altri paesi capitalistici, compreso lo sciopero generale del 1926 in Gran Bretagna» [8].

Come osservò nel '46 il noto consulente aziendale Peter Drucker, i leader dei grandi sindacati non erano contenti di questa ondata di scioperi: «nessuno dei cinque maggiori scioperi del primo inverno del dopoguerra (General Motors, macelli, acciaierie, elettricità e ferrovie) fu promosso su iniziativa dei dirigenti sindacali; in ciascuno di questi casi, furono gli stessi operai a imporre lo sciopero a una direzione riluttante» [9]. La lotta di classe organizzata dal basso suscitò una risposta da parte dei padroni e del governo, che reagirono alternando il bastone alla carota:

- fu approvata la legge Taft-Hartley sui rapporti tra datori di lavoro e sindacati, che rendeva illegali gli scioperi selvaggi e altre azioni sindacali "irresponsabili", vietava il monopolio sindacale nelle assunzioni ed erigeva consistenti ostacoli giuridici nel modo di organizzare nuovi gruppi di lavoratori;

- venne consolidata l'autorità dei dirigenti sindacali conservatori e liberali tramite una campagna di propaganda anticomunista che divise il movimento e portò all'esclusione degli attivisti;

- il presidente Truman impedì ripetutamente scioperi usando la legislazione del tempo di guerra, assumendo il controllo di miniere, raffinerie e altre industrie;

- vennero applicate severe sanzioni contro sindacati e dirigenti sindacali recalcitranti: in particolare, la United Mine Workers e il suo capo John L. Lewis furono condannati rispettivamente a multe di tre milioni e mezzo e diecimila dollari per aver rifiutato di porre fine a uno sciopero del settore carbonifero;

- una volta calmata l'ondata di scioperi, le aziende automobilistiche e altri grandi industriali concessero aumenti salariali e garantirono la sicurezza del posto di lavoro in cambio di contratti di lavoro pluriennali che garantivano una produzione ininterrotta.

Nel 1950, la classe dirigente degli Stati Uniti era riuscita ad indebolire l'unica forza interna che avrebbe potuto sfidare la sua egemonia: invece di trovarsi di fronte militanti, il capitalismo statunitense poteva ormai contare su «un movimento operaio leale e moderato che negoziava concessioni senza mettere in questione l'economia di mercato, [e che] veniva accettato più o meno come un elemento costruttivo per il sistema in un contesto di guerra fredda e di espansione economica». [10] Michael Yates riassume così questo fattore determinante del lungo periodo di espansione economica:

 Il padronato e la classe politica conclusero un accordo di pace con i "legittimi" capi sindacali. Se i sindacati cedevano ai datori di lavoro il diritto di gestire le fabbriche, fissare i prezzi e installare nuovi macchinari, e se i dirigenti sindacali sorvegliavano l'applicazione di accordi di divieto di sciopero e disciplinavano i loro membri turbolenti, i datori di lavoro garantivano ai lavoratori stabili incrementi dei salari e benefici sociali, riconoscendo i sindacati come rappresentanti legittimi dei lavoratori, e rinunciando a bloccare l'adozione di leggi che miravano alla realizzazione di programmi sociali [11].

(Terza parte)

Note

* Titolo originale: Facing the Anthropocene. Fossil Capitalism and the Crisis of Earth System, Monthly Review Press, New York, 2016, (Trad. it. Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra, Trieste, Asterios Editore, 2020, a cura di Giuseppe Sottile e Alessandro Cocuzza, traduttori: Alessandro Cocuzza, Vincenzo Riccio, Giuseppe Sottile).

[1] Walter J. Oakes, «Toward a Permanent War Economy?», Politics, vol. 1, n. 1, febbraio 1944, pp. 11, 17.

[2] Richard B. du Boff, Accumulation and Power: An Economic History of the United States, Armonk (NY), M. E. Sharpe, 1989, p. 99.

[3] Bruce S. Jansson, The Sixteen-Trillion-Dollar Mistake: How the U.S. Bungled Its National Priorities from the New Deal to the Present, New York, Columbia University Press, 2001, p. 76.

[4] ibid., p. 109.

[5] Art Preis, Labor's Giant Step: Twenty Years of the CIO, New York, Pioneer Publishers, 1964, p. 378.

[6] Lynn Turgeon, Bastard Keynesianism: The Evolution of Economic Thinking and Policymaking since World War II, Westport (Ct), Greenwood Press, 1996, p. 10.

[7] George Lipsitz, Rainbow at Midnight: Labor and Culture in the 1940s, Chicago, University of Illinois Press, 1944, p. 99.

[8] Art Preis, p. 276.

[9] Peter Drucker, «What to Do about Strikes», Collier's Weekly, 18 gennaio 1947, p. 12.

[10] Bert Cochran, Labor and Communism: The Conflict that Shaped AmericanUnions, Princeton, Princeton University Press, 1977, p. 322.

[11] Michael Yates, Naming the System: Inequality and Work in the Global Economy, New York, Monthly Review Press, 2003, p. 220.

Ian Angus

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Guerra, lotta di classe e petrolio a buon mercato (3)

Ian Angus | antropocene.org

20/06/2022



Pubblichiamo la terza e ultima parte del Capitolo IX: Guerra, lotta di classe e petrolio a buon mercato di Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra * di Ian Angus, dove la guerra e le sue conseguenze vengono considerate come una fase di transizione tra due epoche.



Convertire l'Europa al petrolio

Nei due anni successivi alla fine della Seconda Guerra mondiale, gli Stati Uniti applicarono una politica punitiva nei confronti di Germania e Giappone; volevano così eliminare qualsiasi possibilità per questi due paesi di diventare nuovamente grandi potenze economiche. Una buona parte delle fabbriche tedesche e giapponesi risparmiate dai bombardamenti fu smantellata per essere ricostruita altrove, e le altre si videro imposte severe restrizioni riguardo alle dimensioni e alla tipologia di merci che potevano produrre. Ma Washington presto si rese conto che queste misure erano in disaccordo con la sua politica estera, il cui obiettivo consisteva nel forgiare un'alleanza di stati capitalistici allo scopo di "arginare il comunismo".

Nel 1948, il Congresso ratificò l'European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall. nel corso dei tre anni successivi, Washington e le banche statunitensi consentirono così un finanziamento di tredici miliardi di dollari ai paesi dell'Europa occidentale, inclusa la Germania dell'ovest. Questa somma equivaleva a circa centotrenta miliardi di dollari odierni - molto di più come quota del PIl degli Stati Uniti. Il Piano Marshall non era solo il più importante programma di aiuti esteri mai attuato da Washington: il suo valore, da solo, superava quello di tutti i precedenti programmi messi insieme [1].

Molti autori hanno dipinto il Piano Marshall come l'esempio stesso della benevolenza di una grande potenza: in modo disinteressato, gli Stati Uniti si assumevano la responsabilità di riportare l'Europa sulla via della prosperità. Ma si trattava di tutt'altro. L'obiettivo del programma era, infatti, quello di rafforzare le aziende statunitensi (in particolare le compagnie petrolifere) in patria e all'estero, e la maggior parte delle somme concesse dovevano servire per l'acquisto di beni prodotti da esse. Certamente, non bisogna sottostimare il contributo del Piano Marshall alla ricostruzione dell'Europa, ma bisogna ammettere che era finalizzato in primo luogo a stimolare l'economia statunitense, incoraggiando i governi a rifornirsi da imprese americane.
Pubblicata pochi mesi dopo il lancio del Piano, un'analisi del Chicago Tribune illustra come si concretizzava spesso in pratica:

Il Tribune ha esaminato le relazioni ufficiali del Piano Marshall per un periodo di 45 giorni conclusosi il 15 settembre, un ottavo del primo anno del Piano. Queste indicano ad esempio che l'Anglo American Oil Company è stata autorizzata dal governo britannico a procurarsi prodotti petroliferi negli Stati Uniti. Si rileva che l'azienda ha potuto così acquistare prodotti per 7.258.332 dollari dalla Esso Export Corporation e dalla Standard Oil Export Corporation, entrambe con sede a New York. L'azienda britannica ha ottenuto il petrolio di cui aveva bisogno, e senza dubbio ha realizzato un buon profitto vendendolo ai suoi clienti. Le due società statunitensi sono state pagate in dollari a New York per petrolio fornito a società britanniche. La transazione ha questo di particolare, che l'acquirente britannico, l'Anglo American Oil Company, appartiene al 100% alla Standard Oil Company del New Jersey, e che i venditori americani, Esso Export e Standard Oil Export, appartengono anch'essi al 100% alla Standard Oil Company del New Jersey. Quindi, grazie al Piano Marshall, la più importante compagnia petrolifera degli Stati Uniti ha potuto far transitare dei prodotti da una filiale a un'altra ricavando profitto due volte, tutto a spese dei contribuenti americani [2].

L'articolo aggiunge che rappresentanti della famiglia Rockefeller, azionista di maggioranza della Standard Oil Company del New Jersey (in seguito ribattezzata Exxon), figuravano tra i principali lobbisti che avevano sollecitato il Congresso ad approvare il Piano Marshall. I Rockefeller e altri magnati del petrolio furono quindi tra i principali beneficiari del programma.

Dal 1948 al 1951, più della metà del petrolio venduto nell'Europa occidentale dalle società statunitensi fu pagato con i fondi del Piano Marshall [3]. Il petrolio si è accaparrato il 10% di tutte le spese del programma (20% nel 1949), molto più di ogni altra merce. Anche uno storico che esprime un giudizio molto positivo sul Piano Marshall deplora il fatto che «i suoi strateghi trattavano indistintamente gli interessi del paese e quelli dell'industria petrolifera». Gli acquirenti europei pagavano per questo petrolio un prezzo più alto di quello di mercato e dovevano anche comprarlo sotto forma di benzina o diesel, piuttosto del meno costoso petrolio greggio, poiché il programma vietava «il finanziamento di progetti che minacciavano di competere con le aziende statunitensi», come la ricostruzione delle raffinerie danneggiate dalla guerra [4].

Il Congresso degli Stati Uniti aveva, per altro, specificato che il petrolio statunitense doveva essere escluso dal Piano Marshall. Giustificava una tale restrizione con la necessità di proteggere l'approvvigionamento del mercato interno, ma ciò ebbe principalmente l'effetto di sovvenzionare lo sviluppo di nuovi impianti di compagnie petrolifere statunitensi in Arabia Saudita e di ridisegnare le modalità di consumo energetico degli europei. Prima della guerra, solo il 20% delle importazioni europee di petrolio proveniva dal Medio Oriente; si passò al 43% nel 1947 e all'85% nel 1950, e questa tendenza accelerò la transizione a lungo termine dell'Europa da una dipendenza dal carbone a quella dal petrolio. «Nel 1955, il carbone rappresentava il 75% di tutta l'energia consumata nell'Europa occidentale e il petrolio solo il 23%. nel 1972, la quota di carbone si era ridotta al 22% e quella del petrolio era passata al 60%; una quasi totale inversione» [5].

Prima della Seconda Guerra mondiale, il governo federale e quelli dei singoli stati incoraggiavano la produzione di petrolio direttamente sul suolo statunitense, accordando all'industria petrolifera detrazioni fiscali su risorse soggette ad esaurimento (depletion allowances), e lanciando grandi progetti per la costruzione di strade attraverso il paese. Negli anni '40, la geografia delle politiche di sostegno all'industria petrolifera si estese: le sovvenzioni del Piano Marshall alle operazioni petrolifere statunitensi in Medio Oriente avviarono quella politica permanente consistente nel trattare il petrolio del Medio Oriente come centrale per la politica estera degli Stati Uniti.


Petrolio a buon mercato e in abbondanza

Sebbene non se ne conoscesse ancora l'entità, stava per iniziare la produzione in quella che sarebbe stata convenzionalmente considerata come la più importante riserva di petrolio al mondo. Nel corso dei sei decenni successivi, furono estratti non meno di sessanta miliardi di barili dal giacimento di Ghawar in Arabia Saudita. Non solo l'oro nero qui era abbondante, ma non costava quasi nulla. «Una delle ragioni che rese aurea l'età dell'oro fu che il prezzo di un barile di petrolio saudita ammontò in media a meno di due dollari per tutto il periodo che va dal 1950 al 1973, rendendo così ridicolmente basso i costo dell'energia e facendolo calare costantemente» [6].

La Grande accelerazione sarebbe stata impossibile senza il petrolio a buon mercato, come merce in sé, materia prima per la fabbricazione di materiali plastici e di altro tipo prodotti dal settore petrolchimico, come componente essenziale di processi di fabbricazione ad alto consumo di energia e, soprattutto, come carburante per alimentare centinaia di milioni di automobili, camion, navi e aerei. Il consumo totale di energia mondiale è più che triplicato tra il 1949 e il 1972. Eppure questa crescita non era niente in confronto all'aumento della domanda di petrolio, che negli stessi anni si accrebbe di oltre cinque volte e mezzo. Ovunque, si richiedeva più petrolio. Tra il 1948 e il 1972, il consumo triplicò negli Stati Uniti, passando da 5,8 a 16,4 milioni di barili al giorno - una situazione senza precedenti tranne se la si confronta con quanto accadeva altrove. Negli stessi anni, la domanda di petrolio nell'Europa occidentale crebbe di quindici volte, da 970.000 a 14,1 milioni di barili al giorno. In Giappone, il cambiamento fu spettacolare: il consumo crebbe di 137 volte, passando da 32.000 a 4.4 milioni di barili al giorno [7].

Dalla fine della Seconda Guerra mondiale al 1973, l'economia fossile si è consolidata e globalizzata nei paesi del nord:

Dal 1946 al 1973, il mondo ha consumato più energia ad uso commerciale che durante l'intero periodo dal 1800 al 1945. Mentre dal 1800 al 1945 il consumo di energia ammonta a circa 53 miliardi di tonnellate di petrolio, nei 27 anni successivi alla Seconda Guerra mondiale supera gli 84 miliardi… Questo periodo vede l'emergere delle principali industrie di gas naturale e di energia nucleare così come una ripresa della produzione mondiale di carbone. Ma l'industria del settore energetico più dinamica tra tutte è quella del petrolio. Dal 1946 al 1973, la produzione di petrolio si è accresciuta di oltre il 700% [8].


Anticipazioni dalla sinistra

La tesi che un forte cambiamento nei rapporti tra la società umana e l'ambiente si sia prodotto dopo la Seconda Guerra mondiale non è nuova tra i pensatori di sinistra. Anche se nessuno degli innumerevoli articoli scientifici che parlano della Grande accelerazione ne fa menzione, alcune loro conclusioni sono state anticipate decenni fa da tre fondatori dell'ecologismo.
Nel 1962, in Primavera silenziosa, Rachel Carson scriveva:

Per la prima volta nella storia del mondo, oggi ogni essere umano è sottoposto al contatto di pericolose sostanze chimiche, dall'istante del concepimento fino alla morte. Gli antiparassitari sintetici, in meno di vent'anni di impiego, si sono così diffusi nell'intero mondo animato e inanimato, che ormai esistono dappertutto…
Tutto ciò è una conseguenza del sorgere improvviso e del prodigioso sviluppo di un'industria che produce sostanze chimiche sintetiche, cioè fabbricate dall'uomo, dotate di proprietà insetticide. Tale industria è figlia della Seconda Guerra mondiale… [9].

Nello stesso anno, Murray Bookchin pubblicava Our Synthetic Environment:

Dalla seconda Guerra mondiale ... c'è stata una nuova rivoluzione industriale, e i problemi collegati alla vita urbana assumono nuove dimensioni al crescere del numero di sostanze inquinanti, le condizioni ecologiche necessarie per la disponibilità di aria ed acqua pulite sono messe in pericolo [10].

Nel 1971 usciva Il Cerchio da chiudere di Barry Commoner:

… La ragione prima della crisi ambientale in cui sono piombati gli Stati Uniti negli ultimi anni è la trasformazione di vasta portata che ha subito la tecnologia produttiva a partire dalla Seconda Guerra mondiale ... tecnologie produttive, con intensi impatti ambientali, hanno sostituito altre meno distruttive. La crisi ambientale è la conseguenza inevitabile di questo schema di sviluppo antiecologico [11].

Nel 1991, Commoner anticipava la tesi di Crutzen sull'impatto della specie umana sul sistema terra: «la tecnosfera è diventata a tal punto ampia e intensa da alterare i processi naturali che governano l'ecosfera» [12].

Nel 1994, infine, dieci anni prima della pubblicazione della sintesi pionieristica dell'IGBP, John Bellamy Foster aggiornava l'argomentazione di Commoner proponendo un'analisi marxista
delle trasformazioni economiche e sociali che hanno causato ciò che più tardi sarà chiamata Grande accelerazione:

Dal 1945, il mondo è entrato in una nuova fase di crisi planetaria, nella quale l'attività economica ha iniziato a influenzare in modo totalmente inedito le condizioni elementari della vita sulla terra. Questa nuova fase ecologica è collegata all'ascesa, avvenuta ai primi del secolo, del capitalismo monopolistico, un sistema economico dominato da grandi imprese e dalle conseguenti trasformazioni che esso ha apportato alle relazioni tra scienza e industria. Prodotti sintetici non biodegradabili (non decomponibili attraverso cicli naturali) sono diventati elementi basilari della produzione industriale. Inoltre, a causa di una crescita sostenuta, l'ampiezza dei processi economici ha iniziato a competere con i cicli ecologici del pianeta, cosa che aggrava come mai prima il rischio di una catastrofe ecologica di ampiezza planetaria. Al giorno d'oggi, pochi possono dubitare del fatto che il sistema abbia superato le soglie critiche della sostenibilità ecologica, cosa che solleva delle domande riguardo alla vulnerabilità dell'intero pianeta.

«Quello che è emerso nel periodo successivo alla Seconda Guerra mondiale», scrive Foster, è «una trasformazione qualitativa nel livello della distruttività umana» [13].

Note

* Titolo originale: Facing the Anthropocene. Fossil Capitalism and the Crisis of Earth System, Monthly Review Press, New York, 2016, (Trad. it. Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra, Trieste, Asterios Editore, 2020, a cura di Giuseppe Sottile e Alessandro Cocuzza, traduttori: Alessandro Cocuzza, Vincenzo Riccio, Giuseppe Sottile).

[1] Tony Judt, Postwar: A History of Europe Since 1945, Penguin Group Usa, 2006, p. 9, (trad. it. Postwar. Europa 1945-2005, Laterza, 2017).

[2] «Rockefeller Profits from the Marshall Plan», Chicago Tribune, 13 dicembre 1948, p. 16.

[3] Timothy Mitchell, Carbon Democracy: Political Power in the Age of Oil, London, Verso, 2011, p. 42.

[4] Barry F. Maschado, In Search of a Usable Past: The Marshall Plan and Postwar Reconstruction, Vicksburg (Va), George C. Marshall Foundation, 2007, pp. 122, 123.

[5] David S. Painter, «The Marshall Plan and Oil», Cold War History, vol. 9, n. 2, 2009, p. 168.

[6] Eric. J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, 1997, p. 309.

[7] Daniel Yergin, The Prize: The Epic Quest for Oil, Money and Power, New York, Simon & Schuster, 1991, pp. 541, 42, 384 (trad. it. Il premio. L'epica corsa al petrolio, al potere e al denaro, Sperling & Kupfer, 1991).

[8] Bruce Podobnik, Global Energy Shifts, Philadelphia, Temple University Press, 2009, p. 92.

[9] Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, 2019, p. 35.

[10] Murray Bookchin [Lewis Herber], Our Synthetic Environment, New York, Knopf, 1962, p. 53.

[11] Barry Commoner, Il cerchio da chiudere, Garzanti, 1986, pp. 245, 246.

[12] Barry Commoner, Facciamo pace col pianeta, Garzanti, 1990, p. 39.

[13] John Bellamy Foster, The Vulnerable Planet: A Short Economic History of the Environment, New York, Monthly Review Press, 1999, pp. 109.

Ian Angus


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