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- segnalazioni resistenti - lettere - 18-10-11 - n. 381
Cari compagni,
leggo da diverse parti, compreso il vostro sito, articoli che giudicano la Cina un paese fondamentalmente socialista e la politica iniziata da Deng Xiaoping come una politica progressista, sia all’interno che nelle relazioni internazionali, in quanto volta alla creazione di un mondo multipolare in opposizione alla politica egemonica dell’imperialismo americano.
Pur senza essere in possesso delle conoscenze di cui sono in possesso molti degli autori dei suddetti articoli, sento il bisogno di esprimervi le mie perplessità in proposito.
Lenin ha individuato e definito i caratteri dell’imperialismo nella concentrazione monopolistica, nella fusione tra capitale finanziario e industriale, nella prevalenza dell’esportazione di capitali sull’esportazione di merci e nella spartizione del mondo in zone di influenza per l’accaparramento di materie prime.
Al contrario, si è sempre argomentato che la politica estera di un paese socialista dovesse essere caratterizzata dai principi della non ingerenza, del commercio su basi di uguaglianza anche con paesi con regime sociale diverso, dell’aiuto internazionalista ai paesi sottosviluppati/in via di sviluppo (mediante l’invio di propri tecnici in quei paesi a titolo gratuito, formazione di studenti stranieri nelle università, doni di capitali e merci, concessioni di prestiti senza interessi, ecc.), dell’equilibrio della bilancia commerciale.
Nel caso della Cina mi pare del tutto presente il ruolo rappresentato dall’esportazione di capitali: cos’è infatti l’imponente credito estero detenuto in bond degli USA (e anche, ultimamente, di paesi dell’Unione europea) o l’acquisizione di imprese estere? Perché viene realizzato un surplus commerciale e, al contrario, le entrate derivanti dalle esportazioni non vengono bilanciate da altrettante importazioni di merci destinate al miglioramento del tenore di vita della popolazione cinese o agli investimenti interni?
Anche riguardo ai rapporti con i paesi sottosviluppati (di cui ammetto di non conoscere i particolari) mi sorprende che tutti gli autori parlino invariabilmente di ‘investimenti’: il che è una categoria ben diversa da quella di ‘aiuti’ con cui è stata sempre denominata la politica dei paesi socialisti.
Il fatto che nei confronti di questi paesi siano applicate condizioni più favorevoli di quelle applicate dagli USA, dall’Europa o dal Giappone non mi pare un argomento di per sé decisivo. Infatti, come Lenin ci insegna, il capitalismo si sviluppa a balzi, con ritmi di sviluppo diversi da paese a paese; e, ancora, l’imperialismo non esclude che, almeno in alcuni periodi, la concorrenza si attui sul piano strettamente economico e passi al piano del confronto militare solo al momento dell’acuirsi insanabile delle contraddizioni interimperialistiche. Non deve quindi sorprendere che paesi con sviluppo più intenso possano avere l’interesse e la possibilità (entro certi limiti) di penetrare mercati esteri sotto l’influenza di altre potenze senza l’utilizzo di mezzi strettamente militari, ma solo praticando condizioni economiche più favorevoli.
Quanto al fatto che il carattere non capitalista della Cina sarebbe rintracciabile nel controllo da parte dello stato di gran parte dell’economia e nel fatto che esisterebbe una pianificazione centralizzata, la proprietà statale non è sufficiente a definire tale società come socialista, anziché come capitalismo di stato (vorrei ricordare che fino a vent’anni fa in Italia le imprese controllate dallo stato incidevano sul PIL per una quota superiore al 50% e che le banche erano quasi interamente pubbliche, senza per questo che l’Italia potesse essere considerata un paese socialista). Anche una certa misura di pianificazione non è incompatibile con il capitalismo (si veda, pur senza voler fare accostamenti con la Cina attuale, la politica economica della Germania nazista). Il modo di produzione capitalista non è qualificabile sulla base della proprietà privata dei mezzi di produzione, ma sulla base dell’esistenza di una forza lavoro che, formalmente libera, si vende come merce. Il criterio di giudizio è dunque dato non dalla forma giuridica della proprietà, ma dall’esistenza di un mercato della forza lavoro e dalla separazione dei lavoratori dal prodotto del proprio lavoro.
Nel caso della Cina mi risulta, dai pochi dati che ho, l’esistenza di fortissime migrazioni di lavoratori dalle campagne alle città alla ricerca di lavoro, in contrasto con la politica maoista di integrazione tra industria e agricoltura all’interno del sistema delle Comuni. E, come ricordavo sopra, l’esistenza di un surplus imponente destinato ad essere esportato sotto forma di capitale anziché rivolto al benessere dei lavoratori o agli investimenti interni mi pare provi a sufficienza la destinazione della produzione verso il profitto e dunque la presenza dello sfruttamento.
Ed, ancora: Marx definiva il socialismo come il sistema in cui 'a ciascuno secondo il suo lavoro': può ragionevolmente sostenersi che il lusso sfrenato di una ristretta elite di cinesi derivi dal frutto del suo lavoro, e non dall’appropriazione del lavoro altrui?
Come ha evidenziato Stalin nel suo scritto 'Problemi del socialismo', nella fase di transizione continua a permanere il mercato; nè credo ad un sistema di perfetta pianificazione, che, immagino, porterebbe ad una gestione della società di tipo burocratico sostanzialmente autoritaria. Credo che il mercato rappresenti, e continui a rappresentare per un intera fase storica, un sintomo della continuazione della lotta di classe nella fase di transizione: che non può quindi essere soppresso manu militari e può, viceversa, anche essere di stimolo a che la dialettica di classe possa esprimersi compiutamente.
Ma ben diverso mi sembra il carattere della cosidetta attuale 'economia socialista di mercato' cinese, in cui l'aggettivo 'socialista' pare piuttosto un velo per nascondere il carattere sostanzialmente capitalista del modo di produzione.
Si dice che la natura non capitalistica della Cina di oggi sarebbe provata dal fatto che questa non è investita dalla crisi attuale dei paesi capitalisti (ma questo non è spiegabile anche con il fatto che il capitalismo si sviluppa a balzi? e con il fatto rappresentato dalla competitività, di tipo capitalistico, con i paesi occidentali dovuta sia ai bassi salari che alla diffusione di massa delle competenze tecnico-scientifiche di cui erano state poste le premesse nel periodo maoista? ), che comunque la Cina sarebbe in uno stadio dello sviluppo delle forze produttive insufficiente per creare una società compiutamente socialista e che lo sviluppo attuale, con la presenza della proprietà privata sarebbe necessario per passare (quando, quale sarebbe il limite?) al benessere necessario per passare ad uno stadio superiore. Ma, allora, sbagliava Stalin quando nel 1936, in un paese con forze produttive molto inferiori a quelle della Cina odierna, definiva l’URSS come socialista? E Cuba non è socialista?
Infine, non sono neanche convinto che la politica seguita dall’attuale dirigenza cinese fosse l’unica possibile. Anche nell’epoca maoista la Cina aveva conosciuto un notevole sviluppo economico, partendo da una condizione, nel 1949, di povertà assoluta (e questo spiegherebbe il culto di Mao che ancora sopravvive, secondo tutte le testimonianze, perlomeno nella generazione più anziana). E il proseguimento di quella politica non avrebbe forse portato ad uno sviluppo meno squilibrato tra città e campagna, tra zone costiere e regioni interne?
Queste sono le perplessità (forse ingenue) che sento di esprimere. Naturalmente il dissentire dall’attuale politica cinese non comporta alcuna adesione alla propaganda occidentale riguardo alla violazione dei diritti umani, la pretesa oppressione del Tibet, ecc. (questioni tutte interne alla Cina), propaganda chiaramente tesa a creare un clima favorevole di sostegno alla politica aggressiva (in prospettiva anche militare?) dell’imperialismo americano.
Saluti comunisti.
L. B.
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