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Considerazioni sulla caduta del socialismo in URSS
di Renato Ceccarello
03/03/2012
Ho letto con attenzione il documento del KKE sulla caduta del socialismo in URSS. Lo ritengo valido e di grande interesse. Tocca tutti i punti importanti, anche se talora con limiti analitici (che esso stesso implicitamente ammette quando auspica, nella parte finale, degli approfondimenti di singoli temi).
Non sono in grado per mancanza di adeguata conoscenza di esprimere delle osservazioni organiche. D'altra parte, quando non è del tutto chiaro il complesso dei fatti, è bene mantenere un profilo aperto. Mi sento di dire che il documento del KKE, pur ponendo dei solidi punti di riferimento, non chiude la questione. Mi limito, perciò, ad alcuni punti in cui esprimerò approvazioni e perplessità.
1) La svolta del 20° congresso
Ritengo fondamentale la sottolineatura del XX Congresso del PCUS come congresso di svolta in cui vinse l'opportunismo e si diede inizio ad una grave forma di revisionismo con esiti, nel medio e nel lungo periodo, nefasti. In tale si svolta è riconoscibile:
A) Una revisione dei rapporti internazionali giustificata teoricamente e praticata (teoria della coesistenza pacifica, concessioni all'imperialismo e pratica dei compromessi ed accordi sottobanco con esso, teoria delle vie nazionali al socialismo, ...). Come noto, dopo alcuni anni, quando si vide l'impossibilità di correggere quelli che per un certo tempo erano solamente considerati errori o deviazioni, alcuni partiti, tra cui il PLA (Partito del Lavoro d'Albania) e il PCC si assunsero prima l'onere della denuncia e successivamente si appellarono ai partiti comunisti affinché venissero rovesciate le direzioni revisioniste. Se non è qui il momento di fare un bilancio di questa scissione è il caso di affermare che la responsabilità ricadde politicamente sul gruppo dirigente kruscioviano che, soprattutto col colpo di mano del 1957 rimase padrone del campo in URSS. L'epipeto "opportunista" e l'accusa di nazionalismo, usati dal KKE nel qualificare la posizione cinese, in quanto generici, non aiutano invece a dare un giudizio politico su tale scissione. Non nego che nella posizione del PCC, come sfondo (ma non nelle declarazioni) vi sia stato un aspetto nazionalista: ma esso emerse successivamente, agli inizi degli anni '70. La denuncia del revisioninismo, (i cinesi verso il PCI pubblicarono "le divergenze tra il compagno Togliatti e noi" e "ancora sulle divergenze ...") fu invece un atto internazionalista, quali che siano state in seguito le vicissitudini del PCC e quale sia stato, di converso, il seguito politico ed organizzativo di tale atto.
Certamente, alla luce dei fatti, l'accusa cinese e albanese di socialimperialismo alla politica estera sovietica, non corrisposero alla realtà e non aiutarono la critica al revisionismo. Anch'io sono oggi dell'idea che tale concetto, sviluppato per la prima volta da Lenin verso quella socialdemocrazia che scelse il campo imperialista, non sia applicabile al complesso delle relazioni internazionali dello stato sovietico a direzione kruscioviana, specialmente perché fuori dei canoni tracciati da Lenin nell'analisi dell'imperialismo moderno. Beninteso, qualcuno non d'accordo ci mostri pure il contrario. Ciò detto, va riconosciuto che i rapporti politici tra il PCUS ed alcuni partiti, specie di paesi a democrazia popolare, fu caratterizzato da pesanti diktat che, se da un lato, alcuni di questi si caratterizzarono come necessari di fronte agli atti di sovversione imperialista, altri, misero il "bastone tra le ruote" ai partiti fratelli imponendo, per esempio, dove possibile, allineamento alla svolta revisionista. Così, come fu defenestrato il gruppo "antipartito" (Molotov, ...) vennero defenestrate le direzioni Bierut, Gottwald, Rakosi, Kolarov, Dej (rispettivamente in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania - si veda il libro di E. Hoxha "i kruscioviani"). Come qualificare e/o tacere gli effetti di relazioni incentrati sull'idea che "il partito padre è depositario della verità"?
B) Il prevalere, in economia, di una linea di destra, con l'indebolimento della pianificazione centrale e la messa in primo piano della legge economica del valore, assunta come regolatrice dell'economia. Giustamente essa viene inquadrata dal KKE sul piano economico della società di transizione al comunismo come legge, connessa a più forme di proprietà, il cui agire non può essere ignorato, ma la cui sfera d'azione deve essere progressivamente limitata a favore delle gestione amministrativa dei beni nell'ambito della proprietà sociale. E comunque va escluso che essa, assumendo un carattere regolatore nei movimenti dei beni dello stato in ambito statale, possa armonizzarsi con il progresso sociale e la transizione verso il comunismo. E' merito del KKE anche il suo inquadramento storico, specie nei cruciali anni 50 dell'URSS, mostrando come la fondamentale opera di Stalin "problemi economici del socialismo in URSS" calasse non tanto in un contesto di confusione nel Partito sui tratti caratteristici delle leggi economiche del socialismo, quanto nella lotta tra una tendenza "mercatista" e una "amministrativista" (mi si passino questi termini), in cui proprio la prima, con Kruscev, doveva uscire vincitrice. Giustamente il KKE fa notare che col XX congresso venne adottata una serie di misure che (andando in direzione opposta alle indicazioni di Stalin) indebolirono, e talora compromisero, la pianificazione centrale. Ad esempio: la seppur temporanea (fino alla caduta di Kruscev nel 1964 - ma sette anni non sono pochi) soppressione dei ministeri settoriali in favore di consigli regionali, la soppressione delle SMT (stazioni macchine e trattori) e la vendita delle macchine agricole ai colcos di modo che le campagne vennero private di un importante presidio statale e di classe operaia, la diminuzione del sistema delle forniture centralizzate negli scambi tra colcos e stato e l'aumento degli scambi mercantili, con conseguenze di allargamento della forbice sociale in agricoltura e con un aumento dei problemi nella distribuzione dei prodotti agricoli al dettaglio.
C) l'affermarsi del revisionismo nell'ideologia (il termine "opportunismo" usato dal KKE non coglie appieno la gravità del fenomeno), di cui il punto cardine è la sostituzione della classe operaia con "tutto il popolo" come riferimento del Partito e dello Stato. Tornerò su questo punto. Qui mi interessa rimarcare che la scomparsa delle classi, quindi della classe operaia, rimanda alla costruzione ed alla vittoria del comunismo. L'affermazione dei revisionisti che, realmente, già negli anni '50, l'URSS stesse ultimando la transizione dal socialismo al comunismo, tale da far pensare all'estinzione della classe operaia, stride con la realtà dei fatti, non solo con quelli rivelati dalla storia successiva, ma con quelli sotto gli occhi di tutti già in quel periodo. Ad esempio nel comunismo (si veda Marx "Critica al programma di Gotha") vige la produzione e la distribuzione pianificata dei beni, non già il loro scambio mediato dalla legge del valore. Tantomeno la legge del valore è regolatrice dell'economia. Se in URSS la legge del valore aveva tutta questa importanza, e se si pensava di generalizzarne l'ambito d'azione, i suoi dirigenti, per rimanere sul terreno marxista, avrebbero dovuto dire che, al contrario, si era ancora distanti dal passaggio al comunismo.
Va inoltre considerato che fino a che permane il sistema mondiale dell'imperialismo non esiste alcuna garanzia sulla solidità politica di una eventuale società comunista pienamente realizzata (a prescindere dal fatto che tale realizzo sia mai avvenuto). L'esperienza ha dimostrato che l'imperialismo combatte il suo nemico con tutti i mezzi: come pensare, quindi, che si possa rinunciare ad un riferimento sociale specifico, ad un presidio, della società comunista? Ovvero, non è forse utopistico pensare che questo presidio possa essere costituito, in modo indifferenziato, da "tutto il popolo"?
2) Il necessario collegamento tra società socialista di transizione e dittatura del proletariato.
Della necessità di questo collegamento ho già parlato, ed esso è posto correttamente dal KKE. Di contro non mi convince l'enfasi posta dal KKE sui meccanismi di rappresentanza politica di questa dittatura. Nel documento sono evidenziati i meccanismi di elezione diretta di rappresentanti a partire dalla unità produttive i cui delegati eletti, con una specie di secondo turno, andrebbero ad eleggere l'assemblea nazionale (sistema in vigore nei primi anni del potere sovietico); mentre si esprime contrarietà al sistema elettivo previsto dalla Costituzione del '36 per cui ogni cittadino sovietico non privato di diritti politici è posto sullo stesso piano e i deputati vengono scelti su collegi regionali, quindi per via diretta. Se poi tale modifica costituzionale venne effettivamente giustificata, come rimarcato dal KKE, dalla necessità che i deputati "sudassero" la loro elezione, non mi sembra una argomentazione strumentale che non cogliesse un punto importante.
La questione della dittatura del proletariato - così come della dittatura di qualsiasi classe sul resto della società - è questione non di formalità elettive (che pure hanno la loro importanza), ma del carattere organico, reale, del rapporto tra classe e Partito e tra classe e Stato. Lenin diceva che tale dittatura è un potere non vincolato da alcuna legge. Tale organicità si interseca pure con l'importante concetto gramsciano di egemonia, nel senso che la società intera, a partire dai sui esponenti attivi, coglie l'impronta della classe dominante nei diversi ambiti della vita sociale, dalla produzione, all'arte, alle scienze, alla sovrastruttura in genere. Tantomeno, perciò, "tutto il popolo" si pone in termini egemoni su se stesso. Più che di meccanismi elettivi (a me, comunque, e ben conosco quelli sindacali, i meccanismi indiretti non piacciono), mi concentrerei, astraendo dalla citata costruzione dell'egemonia, sui meccanismi reali, alcuni anche codificabili, del controllo operaio e sindacale, della revoca dei delegati, degli organismi di ispezione, della partecipazione alla gestione delle unità produttive e della cosa pubblica in genere. Per fare un controesempio, nessuno può negare che in questa fase storica la società intera capitalista giaccia sotto una pesante dittatura della classe dominante. Eppure la borghesia, dalla fine dell'800, ha rinunciato definitivamente a meccanismi elettorali selettivi per censo, o per professione. La sua dittatura si esprime, specialmente dopo la caduta del socialismo, anche con una pesante egemonia del suo pensiero che è, purtroppo, entrato nella testa delle classi subalterne, attraverso la scuola, i media, l'intellettualità, l'abbandono di campo di chi avrebbe dovuto porsi da contrappeso, ecc.
Per carattere organico mi riferisco a un'oggettività che viene rivelata da un'infinita serie di segni e segnali, e che si manifesta bene in momenti di crisi. L'esempio che mi viene in mente è quello dei minatori romeni che, non molto dopo la caduta della Romania socialista, in un momento in cui, ancora, non vi era un potere borghese stabile, vennero chiamati dalla valle del Jiu a liberare Bucarest dalla controrivoluzione. Ed essi vennero e fecero piazza pulita... ma purtroppo... non c'era più il loro partito... e Iliescu (il Gorbaciov rumeno) semplicemente si servì di loro! Dopo alcuni giorni la loro presenza fu da questi ritenuta ingombrante e furono ritirati. Il loro leader Manteanu, probabilmente soggiorna ancora nelle segrete della capitale rumena. Un altro esempio: se qualcuno (preferisco non far nomi) non avesse fermato l'Albania del Sud pronta a marciare su Tirana e Durazzo anche nei Balcani la storia sarebbe stata diversa! Se il partito rumeno, e quelli degli altri paesi ex-socialiti, non fossero degenerati e si fosse mantenuto questo rapporto organico con la classe, non codificato da alcunché, con tutta probabilità la controrivoluzione non avrebbe vinto da nessuna parte!
E' invece importante la questione, posta dal KKE, sulla composizione di classe del PCUS, sottolineando come la II guerra mondiale lo abbia indebolito, e come nel dopoguerra sia stato ricostruito in fretta con materiale umano ideologicamente poco preparato.
3) Le riforme degli anni '60 e '70
Giustamente il KKE pone la questione delle riforme economiche degli anni '60 e '70 che della messa in piedistallo del calcolo economico (legge del valore) sono figlie. E' corretto in generale menzionare come:
a) abbiano indebolito la pianificazione centrale;
b) abbiano esaltato interessi di breve periodo nelle unità produttive e nei lavoratori, a discapito degli interessi generali, con l'accentuazione delle differenze salariali tra dirigenti e diretti e tra diretti, e quindi abbiano indebolito il sistema di consenso verso il socialismo;
c) abbiano formato un'economia parallela, fuori del piano e spesso sconfinante nell'illegalità: con tale economia si sarebbero creati capitali d'ombra che avrebbero premuto per la restaurazione del capitalismo.
Non mi convince invece l'analisi storica ed economica della cosiddetta "economia socialista di mercato", in cui vengono confuse (non per colpa del KKE, ma degli stessi autori sovietici di questo concetto) cose, anche collegate tra di loro, ma in origine diverse.
Beninteso, l'avanzata del socialismo ed il passaggio al comunismo presuppone la soppressione del mercato e non il suo sviluppo, anche se in teoria possono essere ammessi dei periodi in cui il rafforzamento di uno stato socialista (cosa diversa dalla sua avanzata!) passa per un rafforzamento dell'economia su basi diverse da quelle socialiste. Ma tali periodi non possono diventare fasi storiche. Men che meno si può pensare una riduzione del socialismo alla proprietà statale di alcuni mezzi di produzione ed al controllo del resto dell'economia su basi capitalistiche. Come può essere socialista una società in cui i lavoratori rimangono oppressi e sfruttati per chissà quanto tempo?
Non sono però convinto che una delle cause per cui è venuta meno l'URSS sia l' "economia socialista di mercato", così come nell'interpretazione cinese e vietnamita, ossia quanto appena delineato, la cui forma, in URSS, si manifestò solo nei primi anni '20, al tempo della NEP.
L' "economia socialista di mercato" (le virgolette sono d'obbligo) ha permesso ad alcuni paesi, Cina, Vietnam, con economie ancora arretrate e vulnerabili, di resistere alle pressioni imperialiste, di rafforzarsi e di consolidarsi con lo sviluppo economico nel consenso della gran parte della società (vedi l'intervento del delegato vietnamita all'incontro internazionale di Atene nel 2011). Ovviamente questi paesi pongono dei bei problemi nella rappresentazione che essi vogliono dare di se stessi come paesi socialisti. Dov'è la dittatura del proletariato? Come agisce nel pubblico? E soprattutto nel privato? Com'è, in questi paesi, la condizione del lavoro nel privato? Ma qui siamo fuori dal tema che mi ero proposto.
Tornando all'URSS non vi è dubbio che Bucharin avrebbe mantenuto la NEP e si sarebbe schierato per un duraturo sistema economico misto. La NEP ha d'altra parte servito gli interessi dello stato sovietico per alcuni anni permettendone il suo rafforzamento. Fu soppressa quando le difficoltà di approvvigionamento agricolo per fenomeni speculativi (aggiotaggio dei cereali) mise in pericolo il decollo del I° piano quinquennale. E' un fatto che allora non esisteva una forte economia statale in grado di controllare ed imbrigliare la NEP, costringendola a servire ancora l'economia e la crescita della società socialista. Sono tuttora convinto che il gruppo dirigente bolscevico che soppresse la NEP non avesse alternativa al raggruppamento dei contadini in grandi unità produttive con le quali lo Stato potesse stipulare dei contratti di forniture e mettere a disposizione, per un impiego razionale, le prime macchine agricole, non appena il piano le avesse prodotte, e che Bucharin fosse nel torto nel non delineare un limite allo sviluppo della NEP e le tappe del passaggio della sua economia di mercato all'economia socialista (anche perché il "passo di tartaruga" come metafora dello sviluppo di questa economia, ritardando l'industrializzazione, avrebbe portato alla sopraffazione dell'URSS per mezzo dell'imperialismo, che di fatto il suo bravo tentativo di distruggerla lo fece, a partire dal '41).
Ma l'economia di mercato della NEP è un qualcosa di diverso da quanto derivato, sulla base delle concezioni revisioniste uscite dal XX congresso e messe in pratica, non solo con le misure immediate intraprese, ma con il successivo processo riformista dell'economia.
Ed è in tale proposito che va osservato che tale "economia socialista di mercato", nell'accezione sovietica degli anni '60 e '70 delle riforme (passaggio dalla gestione amministrativa delle unità produttiva a quella economica, riduzione della pianificazione centrale ad un organismo più vicino al concetto borghese di programmazione, concessione alle unità produttive di gestione di un'economia parallela per quanto prodotto oltre gli obiettivi - peraltro resi elastici - del piano, ... ) non ha sviluppato un settore privato che avrebbe potuto essere controllato, ma, come dicono i compagni greci, ha intaccato l'organizzazione del settore pubblico (la pianificazione centrale), l'efficienza dell'economia statale, con tutti gli effetti sociali negativi per cui, sul piano politico, si accentuava l'opportunismo e la dialettica interna al partito falsamente rappresentata tra inefficienti conservatori centralisti ed efficienti riformisti decentralizzatori.
In altre parole, il processo riformista non si è attuato in concessioni ad altre forme economiche già esistenti, p. es in agricoltura, cosa che non avrebbe compromesso, in un periodo successivo, sterzate verso il comunismo, ma ha intaccato lo stesso carattere sociale ed integrato del settore pubblico, indebolendolo, non solo sul piano economico, ma anche su quello sociale, provocando spinte centrifughe sempre più forti, verso la stessa disarticolazione dell'economia, spinte coinvolgenti gli stessi lavoratori.
Possono essere di una qualche utilità al dibattito le seguenti note aggiuntive su socialismo e mercato. Una variante con impatto economico meno forte - ma questo può essere positivo - è quella di permettere uno sviluppo di tipo cooperativo, senza società di capitali e senza penetrazione di capitale straniero, e quindi senza sfruttamento della forza-lavoro, in settori di piccola produzione e servizi. Questa economia complementare, che ovviamente interagirebbe con quella fondamentale con rapporti di tipo mercantile, potrebbe offrire quell'elasticità dell'offerta dei beni di consumo, della cui carenza il socialismo sovietico ha sofferto, a detrimento del consenso di massa verso il sistema. Questi settori possono essere: piccola produzione agricola con smercio in mercati rionali; riparazioni di beni di consumo durevoli (meccanica, elettronica di consumo, edilizia); edilizia complementare; servizi alla persona; ristorazione; industria leggera chimica ed alimentale; piccolo commercio. Ovviamente questo complemento dovrebbe essere normato per legge per evitare conflitti con il settore pubblico ed adeguatamente tassato in modo da evitare fenomeni di arricchimento e parassitismo, in modo cioè da non sfruttare gratis i sevizi che la società socialista mette a disposizione di tutti i cittadini, a partire da sanità, istruzione e previdenza.
Per (non) concludere
E' evidente il ritardo con cui la riflessione sul crollo dell'URSS viene, dalla parte in causa, affrontata, e va dato atto al KKE, così come ai compagni di Torino, di aver colto l'importanza del tema e di aver proposto al pubblico una prima riflessione che coglie i maggiori punti reali. Ma il dibattito non è chiuso. Ulteriori studi devono essere ancora fatti. Purtroppo mancano opere organiche, di profilo storico-economico sull'URSS del dopoguerra, che non siano le infami falsità di autori prezzolati o di agenti segreti anticomunisti sotto la mentita spoglia del pubblicista. Di questa pretesa "stroriografia", che non ci fa fare alcun passo avanti, facciamo volentieri a meno.
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