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Alberto Burgio: Guerra - Scenari della nuova "grande trasformazione"


Il libro

Che succede nel mondo? Come interpretare le guerre che si susseguono da quindici anni a questa parte senza soluzione di continuità? Si tratta di episodi isolati o di una sequenza unitaria che tende ad autoalimentarsi rischiando di coinvolgere via via altri paesi? E che cosa accade alle democrazie occidentali? Le nuove leggi su immigrazione, ordine pubblico e custodia dei dati personali, il potenziamento di polizie e servizi di intelligence, i rastrellamenti di "extra-comunitari", le riforme istituzionali che rafforzano i poteri governativi e le tendenze plebiscitarie sono misure di lotta contro il "terrorismo internazionale"? O sono tasselli di un processo di regressione autoritaria simile alla grande trasformazione che negli anni Trenta del Novecento sancì la crisi del liberismo e l’avvento dei fascismi mentre già si annunciava il nuovo conflitto mondiale?

Alberto Burgio
insegna Storia della filosofia a Bologna ed è responsabile Giustizia di Rifondazione comunista. Con DeriveApprodi ha pubblicato Modernità del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo (1999) e ha curato La forza e il diritto. Sul conflitto tra politica e giustizia (2003). Nel 2003 è apparso, presso Laterza, il suo Gramsci storico. Una lettura dei "Quaderni del carcere".

Il testo
Da qualche mese i resoconti giornalistici sulla politica internazionale riservano grande attenzione a un nuovo personaggio. Nessuno più ignora che alle spalle di George W. Bush, a dargli man forte nelle sue offensive belliche e mediatiche, opera un’agguerrita cerchia di uomini politici e intellettuali (opinionisti, politologi dei think tanks ultraconservatori, professori di storia militare ed economisti) dai quali il presidente riceve suggerimenti, consigli, indicazioni. I "neo-conservatori" – questo il nuovo attore collettivo entrato di prepotenza tra i protagonisti della scena globale – si sono ormai conquistati una parte di primo piano nelle corrispondenze da Washington e dai fronti della guerra infinita contro il "terrorismo internazionale". Per lunghi decenni sconosciuti ai più (la loro storia comincia già negli anni Settanta, con l’abbandono del partito democratico, giudicato troppo liberal, e l’ingresso nel partito repubblicano), i nomi dei loro leader – i Wolfowitz, i Perle, i Luttwak, per non dire del loro più potente protettore, il vice-presidente Cheney – sono rapidamente divenuti familiari al grande pubblico. Il motivo di questa improvvisa notorietà è semplice: si è capito che la funzione svolta dai neo-cons non è soltanto quella di "consiglieri del principe" (benché questa sia spesso la loro qualifica ufficiale), ma qualcosa di meno disarmato e di ben più influente. Quasi che il suggeritore si fosse rivelato anche autore della trama (e deus ex machina della messinscena), relegando il protagonista ufficiale al frustrante ruolo del portavoce.

La guerra in Iraq è stata l’evento rivelatore. Mentre, nell’estate del 2002, la macchina da guerra degli Stati Uniti scaldava i motori, a "dare la linea" e a tenere i contatti con la stampa di tutto il mondo erano prevalentemente loro – con la conseguenza, un po’ paradossale, di declassare al rango di comparse sia il consigliere per la Sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, sia il segretario di Stato, Colin Powell. Tra i più impazienti di veder decollare i bombardieri a stelle e strisce era senza dubbio l’ex-ministro della Difesa di Reagan Richard Perle, al tempo ancora presidente del Defense Policy Board, la potente commissione politica del Pentagono. "Per quanto tempo – domandava – aspetteremo con le mani in mano, mentre l’Iraq produce armi di sterminio?". Le pretese della comunità internazionale di verificare la fondatezza di queste accuse lo innervosivano: che Saddam possedesse armi proibite era certo, dunque perché perdere tempo con inutili ispezioni? E non era forse vero che, "rifiutando di consegnare le armi di distruzione di massa, Baghdad ha già violato la risoluzione 1441 dell’Onu?".
[…]

Se si dovesse sintetizzare in una battuta la dottrina "neo-conservatrice" sul terreno internazionale, un osservatore spassionato non avrebbe difficoltà a sostenere che tutto il discorso ruota intorno a una tesi molto semplice, per non dire rozza. Ogni Stato fa i suoi interessi (in politica estera la sintassi dei diritti e dei principi morali è una di quelle "balle globali" che possono abbagliare solo gli ingenui) e, siccome gli Stati Uniti sono di gran lunga i più forti, sono i loro interessi a dover prevalere su quelli di tutti gli altri. Piaccia o non piaccia.

Naturalmente non sempre questo duro nocciolo di ragioni ferine può essere mostrato in tutta la sua purezza. Il meccanismo democratico pone qualche problema, poiché mette masse di individui incompetenti e fuorviati da incongrui scrupoli morali in condizione di interferire nelle scelte delle élites politiche. Insomma, quando si tratta di rivolgersi al grande pubblico, è opportuno rivestire di motivazioni etiche la cruda logica degli interessi. Bene: un altro "merito" dei neo-cons sta nel non limitarsi a invocare una politica imperialistica particolarmente aggressiva, ma nel farsi carico anche delle sue possibili giustificazioni ideologiche.



DeriveApprodi

Bologna



Pagine 232

Prezzo di copertina: 13.00 Euro


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