www.resistenze.org - segnalazioni resistenti - libri - 28-01-07
Fabio Minazzi: Filosofia della Shoah
La shoah. Il massacro degli ebrei nei campi di concentramento e di sterminio ha bisogno se si intende analizzarla ancora decentemente di novità nello studio e nelle analisi. La retorica che anche per questo accadimento si è, in qualche misura, imposta sugli avvenimenti di quegli anni della seconda guerra mondiale non fa certo bene alla profonda comprensione storica del “fatto” in sé. Apriamo un libro di riflessione: il fatto in sé, cosa mai può volere dire? Genericamente lo si è già da molte parti definito come l’insorgere del male assoluto contro un popolo perseguitato. I nazisti, il male assoluto, contro il popolo ebraico, popolo eletto. Per sempre.
Altre considerazioni sono state rifiutate da centri di studio, singoli studiosi, storici, politici, uomini di stato. E per tanto tempo si è ripetuta una litania, una nenia. Basterebbe leggere uno scritto di Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. L’autore , ebreo, figlio di ebrei spariti nei campi, non sospetto quindi di accanimento politico avverso o di acrimonia razzista ci illustra con dovizia di fonti il sorgere storico, negli USA, dell’attenzione verso l’olocausto negli anni ’60, periodo nel quale la lobby ebraica, così come alcuni la intendono, è particolarmente forte ed attiva sullo scenario statunitense. Tale attivismo arriva a costruire poi legami profondi tra lo stato di Israele e quello statunitense. Quindi un rapporto nato sull’olocausto, ad un certo momento, anni sessanta, per motivi politici. Prima era inesistente o quasi. Ma leggiamo il testo che vogliamo analizzare: Filosofia della Shoah di Fabio Minazzi.
L’analisi di fondo può essere questa: il fatto, l’annientamento nazista, come Minazzi sottotitola il libro, ed anche l’intitolazione, l’attenzione alla precisione linguistica, serve per la comprendere chiaramente la sua tesi, va continuamente contestualizzato, va storicamente contestualizzato. Nel testo appare spesso il nome di Jean Amery, ebreo, nome de plume di Hans Mayer, scrittore eccelso che ha messo sulla carta i suoi ricordi di internato (Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri, 1987) e che ci dice cose non usuali sull’argomento. Riporta al livello di fisicità la sopravvivenza in quel posto, invita alla ribellione contro l’oppressione bestiale. Amery si risentirà completamente uomo quando darà un pugno ad un ufficiale nazista, pagandone terribilmente le conseguenze. Il campo visto come un luogo umano, dell’uomo e decisamente reale, nel quale il pensiero, l’intelletto e gli intellettuali morivano come mosche. La fisicità del luogo ha la meglio sulla profondità della ragione.
Minazzi richiama spesso Amery, specialmente nel primo intervento e ciò ci mette sull’avviso rispetto a quale sarà la sua linea di analisi. Non si ferma certo al silenzio, che Minazzi aborre, perché di fronte all’indicibile non si può parlare. Il silenzio è castrante e non serve alla bisogna. Non vi è neppure accolta la tesi dell’essenza assoluta del male che si sostanzia verso gli ebrei, il male quale supporto negativo, ma necessario di Dio. Altre sono le ragioni, assieme a quelle culturali, che anche con Amery possiamo cogliere, negativamente: ragioni economiche, storiche, filosofiche. Insomma c’è da fare “filosofia” sulla morte di milioni di persone. Ma vi è da avvicinare l’interpretazione sui campi ad un mezzo formale, vuoto, kantianamente. La vuotezza della forma, porta con se un naturale esito storico. Si applica quindi anche al mondo dei campi, adoperando altre lenti interpretative, plurali: la sociologia, l’economia, la statistica. Mezzi quantitativi e paragonabili fra loro. Un problema ma pure un aiuto, in questo caso, di storia contemporanea, può venire dalle testimonianze dirette però da ben inquadrare. Con questo non si vuole dire che lo studio deve soppiantare la presa diretta, quando c’è, ma soltanto indicarci una direzione. Infatti anche chi è stato nei campi e ne è uscito vivo vive il “suo“ campo, sapendo di altre situazioni come la sua ed anche di altri campi solo esternamente- Una presa anche diretta ma esterna rispetto al suo intimo, che traduce nella sua personale interpretazione. Insomma ognuno può raccontare solo sé, del “suo” campo. E Minazzi qui ci mette sull’avviso dei limiti che ogni forma di storia orale porta con sé.
Sembrerebbe piano e logico immettere il campo nella sua cornice storica. Ma non lo é. Come il titolo del libro di Finkelstein ci ricorda, si è fatto dell’olocausto anche un’industria, e Minazzi definisce lo shoahista l’esperto della materia. Le motivazioni sono tutte politiche e contemporanee, portano con loro motivi di politica internazionale: lo scontro Israele/stati arabi; Israele/palestinesi. Riportano ai conflitti internazionali presenti. Il male assoluto ha avuto l’effetto di destoricizzare l’accadimento, di renderlo unico, e di toglierlo dalla evoluzione della storia umana. Ma così facendo non ci si accorge che si espunge anche il nazismo dalla storia? Non ci si accorge che si mette fuori dalla storicità anche il popolo tedesco in quegli anni? E coloro che combattevano contro i nazisti? Non sono forse anche loro toccati da questa lotta nell’infermo e dall’inferno? E ci si dimentica degli omosessuali morti in un numero che non si sa esattamente quale sia – a riguardo un bel libro di Massimo Consoli, Homocaust (Kaos, 1991) - degli zingari, dei prigionieri politici, soprattutto comunisti, degli handicappati, strage che inizia già alla presa del potere di Hitler, non aspettando certo la guerra. Insomma Minazzi ci spinge a studiare analiticamente storicamente l’argomento. Utile, sarebbe ad esempio, accompagnare questo testo con un altro di Otto Friedrich, Auschwitz (Baldini & Castoldi, 1994). Storia del lager dal 1940 al 1945 che ci racconta, senza fronzoli, riprendendo anche altri scritti sulla questione, come si vivesse giornalmente nell’annientamento nazista. Un’analisi ben costruita, dall’autore, giornalista e saggista americano, che al di là della chiusa, un po’ retorica, mette in fila, quotidianamente, tutti i momenti che Minazzi tratta, ed ai quali aggiunge una chiave di lettura filosofica, interpretativa, a sfondo storico che resta il pregio maggiore del libro del nostro.
Tiziano Tussi
Fabio Minazzi: Filosofia della Shoah, Giuntina, Firenze, 2006, p. 362, € 20.