www.resistenze.org - segnalazioni resistenti - libri - 13-11-09 - n. 295

L’autunno era caldo: le ragioni dei lavoratori
 
Quest’anno ricorre il 40° anniversario di quell’eccezionale ciclo di lotte che vide protagonisti i lavoratori italiani, lotte che ebbero il loro apice nell’autunno del 1969, ma che iniziarono già verso la fine del 1967 e proseguirono con crescente intensità l’anno successivo in concomitanza con le rivolte studentesche in Italia e nel mondo. In Italia, quel ciclo di lotte durò ancora per buona parte degli anni Settanta e la sua fine fu segnata dalla famosa “marcia dei 40.000” capi e dirigenti organizzata dalla FIAT a Torino nell’autunno 1980 per sconfiggere la resistenza operaia ai licenziamenti annunciati dall’azienda.
 
Quegli eventi dell’autunno del 1969 che furono battezzati dai giornali della borghesia come “autunno caldo” si chiusero con le bombe neo-fasciste del 12 dicembre alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano che provocarono 17 morti in quella che, per l’implicazione di apparati dello Stato e dei servizi segreti, venne definita una “strage di Stato”.
 
Quelle lotte si svilupparono principalmente nelle grandi fabbriche del nord, ma toccarono tutte le località industriali del paese ovunque esistesse una media o grande concentrazione di lavoratori. La FIAT Mirafiori a Torino dove esisteva il più grande concentramento di manodopera fu l’epicentro di quelle lotte. Lotte operaie improvvise, spontanee che ruppero il tran tran di un sindacato torinese ancora annichilito dalla sconfitta del 1955 e dalla repressione in FIAT ad opera di Vittorio Valletta. Un sindacato incapace di percepire le profonde modificazioni in corso nella composizione sociale della classe operaia, e che guardava con distacco a tutti quei “terroni” dequalificati che invadevano le fabbriche del nord richiamati dal miraggio del benessere. Saranno proprio costoro che con la loro rabbia per le precarie condizioni di vita nella fabbrica e fuori da essa a guidare una ribellione sociale di un’ampiezza mai vista sino ad allora in Italia.
 
Le forme di lotta e le rivendicazioni degli scioperanti sconvolsero sia i padroni che i sindacati. Scioperi improvvisi, a scacchiera, con cortei interni che “spazzolavano” e bloccavano tutta la fabbrica, e che per queste inedite caratteristiche furono soprannominati dai giornali padronali “a gatto selvaggio”. Tutti i principali mass-media parlarono di violenze operaie, ma quelle forme di lotta saranno poi adottate anche dal sindacato per tutti gli anni 70. Le rivendicazioni erano anch’esse nuove e “incompatibili”: aumenti uguali per tutti, passaggi di categoria per tutti, riduzione consistente dell’orario di lavoro, parità normativa operai-impiegati. Le richieste toccavano anche aspetti esterni alla fabbrica: affitti meno esosi, a equo canone, case popolari, bollette meno care, libri scolastici e trasporti pubblici gratuiti ecc. Il tappo padronale e sindacale era saltato, e uno slogan dell’epoca recitava: “Che cosa vogliamo? Vogliamo tutto!”, e qualche estremista aggiungeva “e subito!”.
 
Per tutti gli anni 70 le lotte furono ininterrotte. C’erano gli scioperi generali effettuati da tutte le categorie del lavoro subordinato su argomenti di interesse comune, quelli per il contratto nazionale dei metalmeccanici, poi subito appresso quelli per il contratto integrativo FIAT. In mezzo a questi, c’erano poi gli scioperi specifici per problemi di reparto, senza contare quelli per far rispettare le conquiste contrattuali appena ottenute sulla carta e che il padrone cercava di rimangiarsi subito dopo la firma con vari stratagemmi.
 
E’ impossibile elencare tutte le lotte e le conseguenti conquiste che i lavoratori realizzarono durante quel decennio di lotte; quando ci si prova a farlo è molto facile dimenticarne qualcuna anche importante. Conquiste interne alla fabbrica, direttamente connesse all’organizzazione del lavoro, al salario, all’inquadramento professionale. Fra le tante, vale la pena di ricordare le 150 ore retribuite a disposizione di ciascun lavoratore per il suo aggiornamento culturale. Molti lavoratori riuscirono ad ottenere la licenzia media e/o a fare un salto culturale, perché come si diceva allora “per non farsi fregare dal padrone occorre conoscere molte cose più di lui”. Ma le lotte operaie e studentesche del 1968-69 favorirono una grande “rivoluzione culturale” che travalicò i confini dell’università e della fabbrica. Anche in questo caso è difficile ricordare tutte le conquiste civili a cui quelle lotte tirarono la volata: il divorzio, l’aborto, lo statuto dei lavoratori, l’università accessibile a tutti, il sindacato di polizia ecc.
 
Questo ciclo di lotte avvenne verso il termine di quella che Eric Hobsbawm ne “Il secolo breve” ha definito “l’età dell’oro” cioè quel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale a circa la metà degli anni 70 così soprannominato perché un’ondata di relativo benessere investì in varia misura tutte le classi sociali dell’Europa occidentale e dell’America settentrionale. Paradossalmente proprio le lotte del 1968-69, assieme alla saturazione dei mercati occidentali e alla crisi petrolifera conseguente alla guerra del Kippur dell’ottobre 1973 (unica volta in cui i paesi arabi usarono l’arma del petrolio per “ricattare” l’Occidente), contribuirono ad accelerare le fine del ciclo economico che caratterizzò “l’età dell’oro”, obbligando i padroni a modificare radicalmente un’organizzazione produttiva che si era dimostrata estremamente vulnerabile. Si andava preparando una nuova fase economica e politica, quella che si caratterizzerà da una parte con la cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia” cioè il guadagnare danaro senza produrre alcunché, e dall’altra con la riscossa padronale che, grazie alla complicità della “sinistra” e dei sindacati concertativi azzererà tutte le conquiste dei lavoratori, e non solo quelle acquisite nel decennio di lotte degli anni 70.
 
Di quel decennio di lotte molto sommariamente tratteggiato sino a qui non rimane praticamente traccia, se non nella memoria di alcuni dei protagonisti, in qualche volonteroso documentario per circuiti rigorosamente specializzati, o in alcune rare pubblicazioni a cui non viene certo dato lo spazio e l’onore di recensioni illustri. Come scriveva George Orwell, “Chi controlla il passato, controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato” e per il potere, quello di destra come quello di “sinistra”, conviene oscurare una fase in cui i lavoratori volevano avere ed ebbero un effettivo potere decisionale; meglio ricomprendere tutto quel periodo nella convenzionale e lugubre espressione “anni di piombo”.
 
Si preferisce perciò sponsorizzare libri come quello di Giovanni De Luna intitolato “Le ragioni di un decennio” uscito in questi giorni . Per quanti non sapessero chi è l’autore, ricordo che De Luna è un ex lottacontinuista. Sugli ex rivoluzionari più o meno pentiti, qualche anno fa il giornalista Massimo Fini dichiarò che “nel 1968 i leader del movimento non volevano la rivoluzione, ma soltanto entrare in pompa magna nel sistema che criticavano. A parte l’eccezione positiva di Mario Capanna, tutti gli altri erano in malafede fin dall’inizio”. De Luna fa appunto parte di quella “sinistra” che piace tanto ai padroni e per questo motivo è ammessa volentieri nei salotti del politicamente corretto e può usufruire di tanta visibilità sui media. A differenza di altri ex lottatori continui come Liguori o Mughini decisamente posizionati con la destra, De Luna, Lerner, Manconi, Mieli, Sofri svolgono oggi lo stesso compito che il governo dell’entità sionista presente in Medio Oriente affida al trio di scrittori pacifinti Grossman-Oz-Yehoshua: quello di rappresentare una finta opposizione, una finta democrazia, un finto anticonformismo, un finto pacifismo, una finta sinistra.
 
In una recensione intitolata “Anni 70, eravamo illegali oggi vogliamo regole” che occupa un’intera pagina di Liberazione del 31 ottobre scorso a firma Vittorio Bonanni sono riportati alcuni titoli dei capitoli del libro di De Luna: se ne deduce che le lotte operaie più sopra descritte, che portarono a fondamentali conquiste per tutti i lavoratori che la “sinistra” a partire dagli anni 80 ha restituito ai padroni, non compaiono o sono sullo sfondo, e si confondono o sono parte di quella violenza terrorista con cui gli storici di regime sogliono etichettare il periodo che va dal 1968 al 1980. Gli interessi dei lavoratori sono nel migliore dei casi secondari, allora come oggi puro espediente per fare una rivoluzione che doveva servire ai suoi leader ad “entrare in pompa magna nel sistema che criticavano”, e che deve supportare oggi la campagna per riportare la “sinistra” al governo.
 
Il Corriere della Sera celebra il 1969 ricordando la nascita proprio in quell’anno del gruppo di Lotta Continua. Con un articolo pubblicato il 3 novembre scorso che occupa tutta la pagine 23, Aldo Cazzullo intervista Andrea Casalegno, già militante di Lotta Continua e figlio di Carlo, giornalista e vicedirettore de La Stampa ucciso dalle Brigate Rosse a Torino il 29 novembre 1977. Tutto l’articolo è incentrato sul dilemma se il “movimento” contenesse in sé fin dalla nascita il germe della violenza o se invece questo sia stato introiettato in seguito “alla perdita dell’innocenza per una generazione di militanti di sinistra” come risposta alle bombe di piazza Fontana. Ovviamente Casalegno è assolutamente sicuro della prima ipotesi e sull’omicidio del commissario Calabresi e sulle responsabilità di Adriano Sofri e del gruppo dirigente di Lotta Continua afferma: “E’ falso che Marino possa essersi inventato di aver condotto l’auto dell’assassino di Luigi Calabresi. Ma questo gli ex di Lotta Continua lo sanno tutti”.
 
Alle lotte dei lavoratori, Casalegno, bontà sua, dedica giusto questo brevissimo capoverso, fra un morto e l’altro: “Gli operai si ribellavano dopo quindici anni di un controllo oppressivo e oscurantista, e lo facevano nonostante il PCI e i sindacati ‘pompieri’, come allora li definivamo, avvicinandoci molto alla realtà. Certo, so bene che quando il padrone perde il controllo della fabbrica sono guai, non biasimo la marcia dei 40mila e l’operazione coraggiosa con cui la FIAT riprese le redini. Ma ho un ricordo e un giudizio positivo di quelle lotte. Presto però nascono i partitini. Comincia l’irrigidimento ideologico. E comincia la violenza”. Tirato in causa, Sofri risponde il giorno successivo sempre sul Corriere della Sera con una lettera che occupa mezza pagina del quotidiano, ma anche in questo caso si parla solo di violenza e di morti ammazzati, degli operai e delle loro lotte proprio non c’è traccia.
 
Come negli anni 70 questi “sinistri” personaggi contribuirono ad alimentare quel terrorismo che concorse in modo determinante alla restaurazione del controllo padronale nella fabbrica e nella società, così oggi queste stesse persone si prestano volentieri al gioco dei padroni, della “sinistra” e dei sindacati collaborazionisti per oscurare quelle che sono state le più grandi lotte dei lavoratori italiani e le conquiste che ne conseguirono.
 
Il libro “1969-1977 Lotte operaie a Torino – L’esperienza dei Comitati Unitari di Base” fa esattamente l’operazione opposta. Mette in primo piano un fenomeno di massa come furono le lotte e le conquiste dei lavoratori negli anni 70 e relega sullo sfondo un fenomeno élitario come il terrorismo. Perché le rivoluzioni sono tali quando le fa il popolo; se le fanno pochi eletti in nome del popolo si definiscono con altri nomi.
 
Torino, 12 novembre 2009
Cesare Allara
 
1969-1977 LOTTE OPERAIE A TORINO L’esperienza dei CUB, Comitati Unitari di Base  -  Ed. Punto Rosso  euro 13
 
Scritto da Diego Giachetti con la partecipazione di Cesare Allara, Dino Antonioni, Riccardo Barbero, Silvio Biosa, Beppe Bivanti, Franco Calamida, Bruno Canu, Mattia Colavita, Angelo Conte, Nino De Amicis, Vincenzo Elafro, Tina Fronte, Piero Gilardi, Beppe Guiglia, Carmelo Inì, Gianni Naggi, Gino Nicosia, Liberato Norcia, Luciano Pregnolato, Giovanni Ravazzi, Vittorio Rieser, Domenico Staglianò, Gianfranco Zabaldano