Appunti
di Claudia Cernigoi, giornalista e ricercatrice storica, Trieste,
sul documento di Fausto Bertinotti presentato a Venezia il 13 dicembre 2003.
Le recenti dichiarazioni del segretario di Rifondazione Comunista Fausto
Bertinotti in materia di resistenza, violenza politica e “foibe” hanno aperto
un dibattito non solo all’interno del partito di Bertinotti, ma che coinvolge
tutti coloro che si identificano ancora con i valori dell’antifascismo e di
un’ideologia di sinistra.
Prima di esprimere la nostra opinione, riteniamo sia il caso di sintetizzare
quanto detto da Bertinotti a Venezia il 13 dicembre.
SINTESI DELL’INTERVENTO DI BERTINOTTI.
Tra le varie cose Bertinotti ha sostenuto che quando si parla di foibe non ha
senso parlare dei crimini del fascismo né fare la contabilità dei morti perché
non è che noi (sottintendendo il movimento comunista) siamo migliori perché
abbiamo ammazzato meno dei fascisti, ma perché abbiamo un’altra visione del
mondo, che abbiamo sbagliato nell’assumere una posizione negazionista sulle
nostre violenze con l’angelizzazione e la retorica della resistenza. Che oggidì
non è più valido il Brecht di “noi che avremmo voluto apprestare il terreno
alla gentilezza, noi non si poté essere gentili”, ma soltanto il Brecht di
“felice il popolo che non ha bisogno di eroi”. Che il nostro nemico di oggi non
è il fascismo, ma sono la guerra ed il terrorismo.
In merito allo specifico delle “foibe”, le ha definite come un fenomeno che
investe la Venezia Giulia nel passaggio da guerra a pace. Non servono a nulla i
numeri, perché non ci sono dubbi sul fenomeno. Ci sono due tesi manipolatorie
delle cifre: quella che alza i numeri parla di genocidio, quella che li
diminuisce vuole dimostrare che si è trattato soltanto di fascisti puniti
giustamente. Invece Bertinotti assume le tesi di Pupo e Spazzali, che
contestano le due precedenti, dicendo che si è trattato di un tipo di violenza
concentratasi a Trieste nel trapasso cruento del potere. Ma al di là del furore
popolare, si è trattato di una violenza politica organizzata legata alla
storica idea della conquista del potere tramite la distruzione dei nemici.
Se questa interpretazione è giusta non si devono trovare giustificazioni
analizzando gli orrori del fascismo, perché un orrore non ne giustifica un
altro. Il terrorismo non è giustificabile neppure in caso di guerra.
Il movimento deve scegliere la strada della non violenza e non giustificare la
violenza.
Queste dichiarazioni di Bertinotti, che sono già di per se stesse di una certa
gravità (e le analizzeremo in seguito nei particolari), assumono una valenza
diversa se teniamo conto di altri interventi che le hanno precedute. Ma sono
gravi soprattutto perché Bertinotti ha dato per scontati certi fatti che
scontati non sono, fidandosi esclusivamente di quanto scritto da Pupo e
Spazzali e non accettando di considerare altre posizioni e chiarimenti di tipo
storico.
“OFFENSIVA MEDIATICA”.
Su “Liberazione” del 1/11/03, un articolo di Rina Gagliardi risponde
all’“offensiva mediatica” promossa dal “Riformista” e da “Repubblica” riguardo
al problema del terrorismo e della lotta armata. Leggiamo innanzitutto ciò che
Giuseppe D’Avanzo ha scritto sulla Repubblica: “Il nodo della violenza politica
come strumento legittimo di lotta, l’idea della politica come forza, non è
stata ancora né sciolta né rimossa negli ambiti più radicali della sinistra”.
Gagliardi prosegue riferendosi sia a D’Avanzo sia al Riformista “entrambi
chiedono abiura e pentimento, entrambi caricano il tema della violenza sulla
sola sinistra radicale, entrambi, soprattutto, rappresentano la non violenza
come rinuncia, moderatismo, rientro nell’ordine esistente e garantito delle
cose”.
Alcune delle “risposte” di Gagliardi comunque non ci piacciono molto, ad
esempio: “In verità non è mai stato vero che i gruppi armati che insanguinarono
l’Italia negli anni ‘70 e ‘80 fossero una propaggine organica della sinistra, o
una costola del PCI. Nella cultura politica delle BR (…) il cattolicesimo ebbe
per esempio un ruolo assai significativo. Così come lo ebbe l’idea (di radice
anarchica) del gesto esemplare, a partire dal quale il popolo si sarebbe
sollevato contro il potere”. Interpretazione questa che, oltre a non essere
esatta storicamente, è anche di dubbia correttezza politica, in quanto tende a scaricare
certo tipo di responsabilità esclusivamente su forze politiche estranee al
passato dell’autrice dell’articolo.
Che ci sia una “offensiva mediatica” contro la sinistra in generale e contro la
Resistenza in particolare, lo abbiamo visto anche in una recente trasmissione
televisiva, dove, partendo dalla presentazione del recente libro di Pansa, si
passava alla critica della Resistenza in quanto tale e non solo per gli eccessi
che inevitabilmente una guerra porta con sé, fino ad arrivare all’intervista
con uno degli organizzatori della manifestazione in sostegno alla resistenza
irachena del 13 dicembre, inquietante esempio di connubio tra associazioni di
destra e associazioni di sinistra che si schierano contro l’imperialismo.
L’intervento di un esponente di una delle associazioni organizzatrici (di
sinistra, va precisato) si basava sul fatto che loro ritengono sempre validi i
principi ed i valori della Resistenza italiana, e che pure il popolo iracheno,
che si trova sotto un regime di occupazione militare straniera ha diritto alla
propria lotta di liberazione; ma queste (giuste, a parer nostro) affermazioni
sono state poi strumentalizzate dal conduttore e da alcuni degli ospiti in
studio, che sono saltati alla conclusione che quelli che oggi riconoscono
ancora i valori della Resistenza, sono quelli che legittimano i terroristi che
ammazzano i nostri carabinieri in missione all’estero.
In questa “offensiva mediatica” riteniamo di inserire infine un’intervista
rilasciata a “Repubblica” da Pietro Ingrao e ripresa da “Liberazione” il 5
novembre scorso, nella quale parte dalla condanna per le azioni delle Brigate
Rosse e finisce col parlare di lotta armata e Resistenza. Così ha dichiarato
Ingrao:
“Non mi è mai passato per la mente – anche quando agivo nel pieno della
Resistenza italiana – di uccidere Agnelli e, nemmeno nel periodo della
cospirazione, di attentare alla vita di Mussolini”. Ed anche: “Durante decenni
e decenni di militanza comunista non mi è mai passato in mente il progetto di
assassinare Agnelli e nemmeno Mussolini o Hitler. Non era per umanitarismo.
Hitler mi appariva un potere collettivo, l’espressione di una classe. Bisognava
contrapporre a ciò un altro potere collettivo e solo ciò poteva veramente
sconfiggerlo”.
Purtroppo le posizioni di Bertinotti a Venezia ci sembrano quasi un cedimento
di fronte all’offensiva mediatica denunciata da Gagliardi, che, accogliendo le
posizioni di Ingrao, vuole dimostrare l’estraneità del partito da frange
“terroristiche”, come le nuove Brigate Rosse.
NOSTRE VALUTAZIONI.
Abbiamo qui dunque alcuni punti da cui partire per le nostre valutazioni
politiche. Che oggi noi (e parlo come persona ancora legata ad ideali
comunisti) si sia contrari alla violenza come metodo di lotta politica, è
perfettamente condivisibile; che si condannino azioni violente come gli omicidi
Biagi e D’Antona è pure fuori di dubbio; che ci si dichiari distanti dai metodi
delle nuove Brigate Rosse, non ci piove sopra. Però finisce qui: perché noi
abbiamo il diritto di parlare per noi che facciamo politica oggi in questo
paese con questo governo, che non sarà il massimo della democrazia ma non è
ancora diventato dittatura. Mentre non possiamo arrogarci il diritto di
parlare, noi che viviamo tranquilli nelle nostre tiepide case, come avrebbe detto
Primo Levi, di come avrebbero dovuto comportarsi i partigiani nel 1945, o anche
di come dovrebbero comportarsi, oggi, altri popoli che vivono delle pesanti
oppressioni.
Analizziamo ora la questione specifica della Resistenza e delle “foibe”. Nella
vecchia accezione che non si può gettare via il bambino con l’acqua sporca,
diciamo che non possiamo rinnegare la Resistenza ed i suoi valori solo perché
all’interno del movimento partigiano ci sono state persone che hanno commesso
dei crimini o delle azioni comunque riprovevoli.
Per quanto riguarda la questione delle “foibe”, diciamo che un grossissimo
danno lo hanno fatto certi storici (parliamo di Pupo e Spazzali, che pure sono
stati citati da Bertinotti come suoi termini di riferimento) che, avallando la
semplificazione divulgativa di autori come Oliva e Rumici, hanno sancito (non
si sa in base a cosa si siano investiti del ruolo di riformatori della lingua
italiana) che nel concetto di “foibe” si possono comprendere le “violenze di
massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi
nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia
Giulia e che nel loro insieme procurarono alcune migliaia di vittime” (“Foibe”,
edito da Bruno Mondadori).
E che, di conseguenza, sono “negazionisti” e “riduzionisti” tutti coloro che
invece ritengono che si possano definire “infoibati” soltanto coloro che
letteralmente furono uccisi e gettati nelle foibe, in gran parte per vendette
personali o nella jacquerie istriana del settembre ‘43, fenomeni che, per
questo motivo, non possono essere addebitati al movimento partigiano o
comunista nel suo insieme, dato che furono, appunto, iniziative di tipo
individuale e non programmate.
Se non accettiamo il discorso generalizzatore delle “foibe” come un fenomeno
unitario, ma analizziamo i vari modi di morte degli “scomparsi” (la maggior
parte dei triestini e goriziani che furono arrestati e non rientrarono dalla
prigionia erano militari internati nei campi e morti di tifo o di stenti,
oppure processati come criminali di guerra e condannati a morte), cade anche il
discorso di dover fare autocritica su questi fatti. Perché come noi tutti
condanniamo l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, ma non
possiamo fare autocritica su questo, dato che è un episodio che non ci
appartiene (sta a chi ha ucciso Moro fare -se lo credono- autocritica sul loro
operato), così come il partigiano che ha ucciso per vendicare i torti subiti
personalmente, ha operato come singolo, e la responsabilità dei suoi gesti non
può ricadere su tutto il movimento, partigiano o comunista, che non può fare
autocritica su qualcosa che non gli appartiene.
Poi andrebbe anche chiarita la questione dei “martiri” delle foibe. Una morte
ingiusta, per quanto deprecabile, non può in alcun caso riabilitare una persona
che operò in modo criminale in vita. Altrimenti ci troveremmo a dover
considerare “martire” anche Mussolini, poiché la sua esposizione in piazzale
Loreto non rappresenta certo una delle pagine migliori della Resistenza. Ma
questo discorso non può prescindere da un altro fatto che invece Bertinotti ha
dichiarato che non si deve fare: la “contabilità” dei morti. Come possiamo, se
non proprio contabilizzando (orrenda espressione) i morti, comprendere quanto sia
sbagliato parlare di martiri per gente che spesso si macchiò di crimini
orrendi?
Ma l’affermazione più grave tra tutte quelle fatte da Bertinotti a Venezia, è
che oggi il nostro nemico non è più il fascismo, ma guerra e terrorismo. Come
se oggi non esistessero più i fascisti, come se il capitalismo non potesse
ancora servirsi di loro per opprimere le classi inferiori nel momento in cui le
leggi della democrazia non fossero più sufficienti. Un’affermazione che appare
ancora più grave se consideriamo che nello stesso giorno a Roma si svolgeva la
manifestazione filoirachena bipartisan cui abbiamo accennato prima: e perché
mai Rifondazione dovrebbe espellere i propri iscritti che hanno partecipato a
quella manifestazione mista destra/sinistra, se il fascismo non è più nostro
nemico?
E poi, chi è che le scatena, le guerre? Nascono forse da sole, o è piuttosto la
logica imperialista del capitale a scatenare le guerre, oggi come ieri?
Un’analisi corretta e sintetica della situazione c’è venuta invece dall’esponente
dei Comunisti italiani Galante, nel corso di una conferenza tenutasi a Trieste
il 10 dicembre. Sintetizzando, ha detto che, avendo il movimento comunista
perso la guerra fredda, adesso per distruggerlo definitivamente sono necessarie
altre cose. Fondamentali in questo la criminalizzazione della Resistenza e la
distruzione dei valori portati avanti da essa. Da qui le campagne sulle foibe,
sul triangolo rosso; in quest’ottica rientrano i testi di Pansa e di Oliva. Ma
ci sembrerebbe terribilmente grave che in questa campagna s’inseriscano anche
le posizioni del segretario di Rifondazione che, per dimostrare la propria
estraneità alle attività delle nuove Brigate Rosse, vada a compiere
quell’abiura chiesta dal “Riformista” e da “Repubblica”, giungendo al punto da
inserirsi nell’operazione di demonizzazione della Resistenza e del movimento
comunista portato avanti dalle persone indicate prima.
Infine un accenno polemico. Perché la cosiddetta “autocritica” che Bertinotti
intende portare avanti per “disangelizzare” la Resistenza, ripudiando il
“negazionismo” delle violenze commesse dai suoi esponenti, parte dalla condanna
delle “foibe” e non da quella del “triangolo rosso”, delle uccisioni sommarie
di Milano e del Piemonte, eccetera? Forse perché condannando partigiani non
italiani ma jugoslavi è più facile, per motivi etnici, scaricare la
responsabilità dalle proprie spalle?
Dato che Bertinotti si basa sui testi di Pupo e Spazzali e non ne considera
altri, ignora però che proprio nelle nostre regioni, dato che l’esercito
partigiano aveva preso in un certo qual senso il potere ed esercitava, quindi,
un minimo di controllo, le esecuzioni sommarie furono di gran lunga inferiori
che altrove, proprio perché i comandi jugoslavi non permisero quanto accadde
invece in Italia, dove questo controllo da parte delle autorità non ci fu.
Ma perché prima di fare affermazioni di tale valenza politica, un segretario di
partito non si informa meglio?