www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - antifascismo - 21-10-22 - n. 845

La morale rigorosa e scomoda di un grande eretico italiano: Piero Martinetti

Eros Barone

Ottobre 2022

Del filosofo piemontese Piero Martinetti (1872 - 1943) cade quest'anno il 150° anniversario della nascita. Ma chi era Martinetti? Si può rispondere che fu una singolare figura di intellettuale eretico, estraneo alla tradizione cattolica così come ai contrasti politici che caratterizzarono la sua epoca (ad esempio, non aderì né al "Manifesto degli intellettuali fascisti" di Gentile né al "Manifesto degli intellettuali antifascisti" di Croce). Memorabile fu, tuttavia, nel 1931 la sua decisione, originata da motivazioni essenzialmente etiche, di rinunciare alla cattedra per non prestare il giuramento di fedeltà al fascismo (è da notare che soltanto diciotto furono i professori che fecero questa scelta su un corpo accademico che ne contava allora 1225). Da vero moralista aveva il dono dell'indignazione morale. Lui stesso aveva scritto: «Disgraziato l'essere che non sa trovare in sé, in dati momenti della vita, una santa collera! Chi è senz'ira non pensa».

Aveva ragione. La passione morale, come le altre passioni, non può essere fredda. Non la sente davvero chi, quando essa è contrariata, non prova una perturbazione anche fisica. E Martinetti si arrabbiava. Gli studenti fascisti usavano invadere l'aula dei professori dissidenti. Martinetti diceva nella lezione che teneva la mattina presto affinché non diventasse uno spettacolo mondano, come accadeva allora coi professori più famosi: «Avvertite i vostri camerati che ho qui nel cassetto una rivoltella carica e sono deciso a sparare. Dopo mi ammazzeranno, ma intanto tocca a chi tocca». Vi era in lui la consapevolezza che l'eticità non significa armonia ma conflitto, lotta per il bene contro il male.

Il congresso nazionale di filosofia del 1926 fu presieduto da lui. Lo aprì un filosofo anziano, De Sarlo, con un discorso, che nessuno si aspettava, contro il regime. Questo discorso, sicuramente concertato con Martinetti, conteneva la famosa frase: «Gli immortali princìpi dell'Ottantanove», che Mussolini citava spesso con sarcasmo. Un altro professore replicò saltando sul palco, proclamando fedeltà al fascismo e terminando la sua testimonianza col saluto romano. Allora si vide veramente in azione la "santa collera". Martinetti gridava, scuotendo il campanello: «Le tolgo la parola! Le tolgo la parola!». Purtroppo la tolsero a lui, perché poco dopo i carabinieri occuparono la sala e il congresso fu sospeso 'sine die'.

Questa capacità di "santa collera" era resa possibile in Martinetti da un motivo filosofico ben preciso: egli credeva nell'esistenza del male, anzi era uno dei pochissimi pensatori moderni che continuavano a credervi in quella forma. Il bene e il male, nei pensatori moderni, sono entità relative e cangianti; ricevono un significato mutevole dagli sviluppi della storia e della vita psichica; rientrano in un processo dialettico che ne confonde i connotati e fa scaturire l'uno dall'altro. Per Martinetti il male era invece una realtà vivente, ben definita, separata, incompatibile col bene e tale da non generare altro se non la propria abiezione. Nella sua idea della vita morale l'ambiguità moderna non aveva il minimo posto. Il male era per lui anche intellettuale: un misto di cattiveria e di idiozia: una realtà che non si conciliava con il suo Dio filosofico, e tuttavia esisteva, di un'esistenza piena e vera.

Martinetti sentiva fortemente la presenza del male come quella di un nemico perpetuo con cui non si viene a patti e contro cui la collera è la reazione naturale. Insomma, Martinetti inclinava verso un manicheismo metafisico, un dualismo inconciliabile tra il bene e il male, che forse nei suoi libri è velato da una sorta di reticenza filosofica, ma che appare chiarissimo nel suo comportamento pratico.

A questo tempo, in apparenza così culturalmente remoto, appartiene il potente messaggio etico del "Breviario spirituale" che Martinetti scrisse prima che il fascismo arrivasse al potere. Si tratta di una guida di comportamento intellettuale e morale, che deriva la sua ispirazione da quei filoni protestanti e giansenisti che hanno tanta importanza nella cultura piemontese. Il suo intento, chiaramente documentato nelle parti del "Breviario" in cui sono trattati i temi civili e politici, era quello di combattere il disfacimento della società italiana con tutta la fermezza che egli aveva sempre insegnato. Orbene, Martinetti è un moralista, il quale del moralista classico possiede l'acume psicologico e anche l'inevitabile pessimismo di fondo.

Un rapido scorcio di alcuni passi del "Breviario" ci restituisce il profilo di questo "filosofo popolare" capace di parlare di filosofia in un linguaggio chiaro e comprensibile anche ai non addetti ai lavori. La tradizione filosofica del nostro paese, accademica e spesso inutilmente esoterica nelle sue espressioni, conosce pochi scritti di questo genere: in tal senso, il "Breviario spirituale" di Martinetti merita di essere accostato ai "Frammenti di etica" di Benedetto Croce, due guide morali apparse entrambe nel 1922. Ma vediamo alcuni passi del "Breviario", a cominciare da quello in cui compare un'esortazione mirabile nel suo programmatico minimalismo: "Non essere schiavi della vanità, del lusso e della moda". E leggiamo, non senza emozione, un altro passo che, per citare il sommo poeta, "a molti fia sapor di forte agrume": un passo in cui Martinetti asserisce che è lecito usare in qualche caso, per opporsi alla violenza iniqua, anche la violenza armata (si pensi alla rivoltella quale 'extrema ratio' contro gli studenti fascisti); o il passo in cui sottolinea che lo Stato è l'organizzazione violenta di una minoranza, ruolo da cui può essere riscattato soltanto ad opera di un'aristocrazia di 'spiriti eletti', intellettualmente e moralmente superiori. Del resto, egli non accetta il liberalismo, perché esso è conservatore e difende un ordine ingiusto, dà ai più forti la libertà di opprimere i più deboli ed è privo di slancio religioso; disapprova il parlamentarismo perché esso è demagogico, così come il socialismo che rivendica una direzione dal basso. Era severo coi filosofi, specialmente quando servivano il potere, come Gentile, e perfino quando scrivevano, come Croce, con uno stile raffinato in cui il giansenista piemontese fiutava una strategia della seduzione illecita.

Ma, di là dalle opinioni e dai precetti particolari, su tutto spicca il rigore del suo orientamento morale, scevro di qualsiasi condiscendenza. La libertà, su cui scrisse un libro stupendo per impeto espressivo e per passione razionale (1928), aveva nel pensiero di Martinetti una parte di primo piano. La sua però non era la libertà di fare quello che ci piace, ma una sottomissione al comando divino, di cui il precetto morale è la cogente espressione: un comando divino diventato natura e necessità, giacché l'opposizione non è tra libertà e necessità, ma tra libertà e contingenza. Da una siffatta impostazione e soluzione del problema morale discendono sia il culto stoico del dovere (Marco Aurelio, non a caso, è l'autore maggiormente citato nel "Breviario") sia la netta dicotomia tra i 'no' e i 'sì'. No alle speculazioni negli affari, al vitto abbondante, all'ozio nei caffè, al gioco e alla danza. No a quasi tutto il teatro ed ai romanzi di consumo; la prodigalità è peggiore dell'avarizia, che almeno esige disciplina; non bisogna accettare doni, che possono asservire; niente libertà sessuale, in quanto l'attività sessuale è inferiore di fronte a quelle dello spirito, e i migliori tendono a disprezzarla; la donna non è pari all'uomo e deve sottoporsi alla sua tutela. No alla falsa pietà per il delitto e i delinquenti. Da evitare una certa sincerità viziosa: il "mettere l'animo a nudo", il mostrare le proprie debolezze e sconfitte, il confessarsi agli altri: «Il mondo - nota Martinetti - è degli uomini freddi».

Eppure, pur situandosi agli antipodi della sensibilità etico-sociale corrente, niente di questo ci urta, tanto è sincero, mai ostentato. In questo insegnamento si esprimeva infatti un'idea o un sentimento comune ad uomini diversissimi: quello secondo cui la vita morale non può mai essere né comoda né corriva; così pure quella intellettuale, che perciò diventava una morale anch'essa, magari a detrimento di altri settori della vita. Né gli studi né l'arte "dovevano" essere facili, e una dose di rigorismo si trovava perfino nelle rivolte libertarie. La domanda che sorge spontanea a proposito del "Breviario" è allora questa: «Chi oserebbe oggi scriverlo?». E la risposta è: assolutamente nessuno.

Sennonché è difficile non ammirare Martinetti, un uomo senza paragone nella vita morale dell'Italia moderna e, secondo Ludovico Geymonat, che fu suo allievo, "uno dei massimi pensatori italiani della prima metà del Novecento". Aveva la tempra di quelli che sanno farsi uccidere per le loro idee: diceva quello che pensava e faceva quello che diceva. Tuttavia, se alcune parti del "Breviario" possono apparire caduche, è presente e dominante in esso un insegnamento di valore pratico che è essenziale, più essenziale delle idee sulla donna, sull'autorità familiare e sulla castità. È l'idea di difficoltà. La difficoltà può mutare aspetto e assumere varie forme, ma è necessaria. Una morale rigorosa e scomoda come quella professata e testimoniata con l'esempio personale da Martinetti è più difficile da vivere di una morale permissiva che scambia la libertà con l'indifferenza e la scelta con l'acquiescenza. La morale insegnata da questo filosofo, lo si è detto, non si basa sull'armonia ma sul conflitto, richiede esplicitamente la lotta per il bene contro il male… A meno di non compiere un'altra scelta: il lasciarsi andare, il farsi inghiottire passivamente dai gorghi della vita.


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