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“Pensare male si fa peccato ma ci si azzecca sempre”


Di Tiziano Tussi

Attorno al libro di Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti,[…]

Già dalla copertina si avverte che le parole in esso contenute non saranno innocue. Dal segno al senso. Un approccio semiologico ci può infatti aiutare. In questo caso, già guardando il libro, ci si può subito domandare: chissà cosa avrà voluto fare Pansa con questa operazione editoriale? Prima ancora di leggerlo si può sospettare che dietro all’operazione “culturale” vi sia una volontà precisa da parte dell’Autore, volontà che lo stesso sempre, in interviste ed interventi vari, nega.

Mire politiche con conseguenze diverse, in altri piani. Il libro ha venduto tantissimo. Siamo oltre le trecentomila copie. È stato presentato innumerevoli volte, in ogni occasione possibile, diverse fra loro. Televisione, radio, presentazioni istituzionali, come quella al Senato ad esempio. Appare in siti di consiglio alla lettura di Forza Italia. In televisione c’erano sempre uno o più rappresentanti della destra a lodarne il coraggio, la forza. Lui, Pansa, non si è mai tirato indietro. Ma del resto non voleva neppure. Sempre con la pretesa di rivestire il ruolo dello scrittore democratico che ha avuto sempre il coraggio della coerenza. Come anni fa, dice Pansa di se stesso, scrissi di partigiani, ora, e non da adesso, scrivo dei vinti.

Qual è la natura del libro

Ed ecco che i vinti, risuscitati da un innesto miliardario di Silvio Berlusconi, che li ha sdoganati, come spesso si dice, e da una accorta politica di abiure del passato fascista, escono dai loro cantucci, in cui erano riparati e da qualche anno rivendicano la loro storia. Non gli pareva vero trovare un giornalista di “sinistra”, diciamo così, dato che anche Pansa ha più volte dichiarato di non saper più, politicamente, cosa essere, che offriva loro una sponda non indecente, quali potevano essere le piccole e semiclandestine case editrici di destra oppure i loro giornali, dichiaratamente di parte, e di parte vinta, un giornalista che con mestiere, intuendo il vento che tira, ha messo assieme una storia della Resistenza che non voleva essere certo storicamente corretta – l’Autore non è uno storico e non dimostra sensibilità storica – secondo i crismi della serietà storica – note, riferimenti certi, citazioni controllabili – ma che, veleggiando tra la “story” ed il racconto, intendeva cogliere un segno dei tempi, di questi tempi.

Infatti ogni volta che gli si fa notare che il libro dal punto di vista storico pecca nell’apparato storiografico il Pansa può sempre rifugiarsi nel rivendicare il carattere di racconto al suo testo, facendo naturalmente il giochetto contrario, quando serve. Se si fa presente che a livello di romanzo il libro è proprio brutto ecco che ci si può salvare dicendo essere il testo uno scritto storico. Si riesce così a sfuggire sia alle critiche letteraria che a quelle scientifiche.
Alcuni storici, che il Nostro ha liquidato sfrontatamente come parziali, dato che erano di parte, in quanto marxisti o che cincischiano con categorie marxiste, quindi troppo vicino al marxismo, hanno infatti provato a criticarlo a livello disciplinare. Pansa ha risposto signorilmente, che se “ne fotte” (Sette, supplemento del Corriere della Sera, 4 dicembre 2003). Qualcuno ha provato a sottolineare altri aspetti, letterari ad esempio, ma sempre la sua posizione è stata quella di rivendicare di avere portato a galla qualcosa di sommerso.

Un analisi preliminare

Con ordine.
Le questioni agitate da Pansa non erano sommerse. Innanzitutto studi sul dopo guerra sono apparsi in forma di libri od articoli nel corso dei decenni successivi al 1945. La parte dei vinti ha da subito affrontato la questione della sconfitta in guerra, con le conseguenze e gli strascichi del dopoguerra, lamentando anche di avere perso. Gli altri, i vincitori, a volte hanno scritto di fatti particolari che sono accaduti e che non sono stati una bella pagina di storia locale. Mancava l’interpretazione che indicava in una strategia politica comunista, quello che accadde immediatamente dopo la fine della guerra. Questa è la novità del libro di Pansa. Peraltro novità non assoluta.

Restando alle questioni dell’epoca ed alle uccisioni di ex fascisti presunti tali, anche chi c’era non poteva non essere a conoscenza, e lo ha raccontato, di episodi di rapida conversione alla causa partigiana di ex fascisti o di indifferenti, all’ultima ora, od all’ultimo minuto. Qui c’entrano poco i comunisti. Ed allora? Scandalo?  Sorpresa? La prima ed unica volta che questo è accaduto? Sciocchezze! Ad esempio è un racconto comune in ogni aula dei scuola italiana quello attorno ai “galantuomini” che all’arrivo di “Garibaldo” si fanno patrioti. Basti l’usuale riferimento al Gattopardo  di Tomasi di Lampedusa. E basti, se non si vuole ricorrere ad un libro il riferimento al film omonimo di Luchino Visconti. Non è una grande scoperta venire a conoscenza di una situazione ricorrente alla fine di un conflitto armato. Vi sono sempre furbi, approfittatori, delinquenti che rivestono maglie di colori sino ad allora odiati o comunque disprezzati. Ma le questioni di fondo che Pansa vuole agitare sono altre. E qui cominciamo a sfogliare il libro. Anche se, a dire il vero, date le premesse, per molti versi, non ce ne sarebbe bisogno.

Vediamo il testo

La lettura non fa che confermare quanto si poteva intravedere “pensando male”, senza leggere il libro. Giorgio Bocca sullo stesso giornale del quale Pansa è vicedirettore, l’Espresso, lo ha già detto in termini precisi. Una considerazione di base diventa significativa e determinante: quale storia l’Italia avrebbe scritto, se avessero vinto gli altri? Ci viene in aiuto un grande della letteratura contemporanea, Philip K. Dick, che scrisse alla fine degli anni ’70 un libro su questa ipotesi, tradotto in italiano come La svastica sul sole. Dick scrive sostanzialmente di fantascienza, ma quella società non è né tanto felice, né libera. E’ una società, mondiale, oppressa. L’ANPI ha emesso un comunicato contro Pansa, sulla stessa linea del libro di Dick. Ma anche questo non ha sortito effetto, anzi. Il Nostro si è ancora di più caricato nel suo convincimento, quello cioè di essere nel giusto. L’ovvia constatazione che ad ogni fine guerra vi sono dei regolamenti di conto che ci guida nella lettura del testo, non pare elemento di discussione proposto, ma dogmatica verità da ripetere. Quindi altre, si sospetta, dovranno essere le sue vere preoccupazioni. E quindi dobbiamo proprio leggere il libro.

Ma mi voglio ancora soffermare sul “caso” acceso dallo scritto e sulla copertina del testo. Con questi strumenti esterni si può capire ancora perché il libro sia diventato un vero “fatto” politico. In fondo quello che l’Autore voleva. Se così non fosse stato non avrebbe potuto incassare i molti dividendi delle copie vendute. Alla presentazione del testo al Senato, il presidente dello stesso Marcello Pera, un docente universitario da poco prestato alla politica, uno dei “professori” che Berlusconi ha traghettato in Parlamento, non ha mancato di affondare il coltello nella piaga dicendo che del “mito della Resistenza” non ve n’è più bisogno. Il resto segue. Sembra che però allo stesso Pera non spiaccia il mito in sé, visto che ha ben usufruito di quello del suo capo politico, Berlusconi, il suo Pigmalione, che lo ha inventato come politico e gli ha dato una visibilità per lui insperata se fosse rimasto a discutere le tesi di Popper e di altri epistemologi, all’università. Una scelta mitologica quindi. Miti che piacciono e che debbono rimanere tali, altri  che debbono sparire. Il libro di Pansa ne indica uno, supposto tale, che deve sparire. Perché questa scelta? Se ciò che da fastidio è il mito, allora spariscano tutti.

Una questione di numeri

Pochi giorni prima, all’inizio di dicembre, apparendo in televisione alla trasmissione Excalibur,  Pansa arriva a proporre la cifra di ventimila morti post 25 aprile 1945. Sposando allegramente la cifra più alta indicata verso la fine dello scritto stesso. Non si fa neppure due conti realistici in tasca, non riesce neppure a domandarsi dove avrebbero messo, i partigiani comunisti indicati come gli unici responsabili della mattanza, tutti quei corpi. Naturalmente solo i partigiani comunisti, rivoluzionari, sono all’origine del Sangue dei vinti. Fra l’altro equipara diverse volte tali supposte azioni a quelle delle Brigate Rosse degli anni ’70. Dando tranquillamente per scontato l’assioma partigiani comunisti=Brigate Rosse.

Uno dei problemi più importanti nell’uccisione di masse di ebrei, comunisti, zingari, omosessuali, handicappati, asociali, che i tedeschi avevano ben presente, era la questione dei corpi: cosa farne dei morti. Un intero sistema era adibito allo “smaltimento rifiuti”, i morti pesano, puzzano, ecc. Anche i fascisti argentini avevano simili preoccupazioni. La cifra che si usa fare, e in quel caso vi sono più possibilità di controllare il numero degli scomparsi, è di 30mila in sette anni, dal 1976 al 1983. Risulta quindi abnorme il paragone con la situazione dei vinti fascisti. Ma, sempre nella stessa trasmissione che stiamo citando, un rappresentante di un’associazione vittime della RSI ha parlato tranquillamente di 40mila morti ammazzati dai partigiani. Cadaveri come noccioline. I problemi annessi non si valutano mai. Pare perciò che basti ammazzare qualcuno e questi sparisce, si volatilizza: 40mila morti in poco più di qualche mese.

Mimmo Franzinelli, nell’introduzione al libro sulle stragi nascoste, L’armadio della vergogna, ad un certo punto dice che le vittime delle stragi dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, da parte dei nazi-fascisti sono state dalle dieci alle quindicimila. I faldoni relativi alle stesse sono poi stati messi in un armadio, poi  chiuso e girato verso il muro, negli anni Cinquanta. Cifre e comportamenti politici precisi, ma per Pansa anche questo retroterra esplicativo di quanto avvenuto nel dopo guerra non serve. Le cifre a pioggia che dà sono rivelatrici di una approssimazione al racconto che smaschera tutta l’operazione.

Un’operazione di anticomunismo viscerale

E prendiamo in mano queste 381 pagine. Già dall’inizio, usando la lente semiologia, risultava chiaro l’intento, come sopra detto, intento confermato dalla lettura del testo. L’operazione appare solo come un lungo lamento anticomunista. Ma si, proprio l’anticomunismo più cieco ed inutile riscontrabile in tanti altri scritti. Pansa poteva risparmiarsi tutta quella fatica. Un bel pamphlet contro il cancro del Novecento, il vero cancro, intendo, così come anche gli anarco-insurrezionalisti lo descrivono nei loro mistici volantini, quello che ha fatto tanto male a tutti. Dopo il successo, e chi lo può negare, del Libro nero del comunismo – cento milioni di morti per mano dei “rossi” – ecco un altro grande successo di vendite. Un altro libro anticomunista.

Il Libro nero del comunismo è stato un successo pagato dal proprietario della Casa editrice che lo ha stampato, regalato ad ogni occasione, come una nuova Bibbia. Questo di Pansa segue a ruota. I partigiani che hanno compiuto il massacro uccidendo e volatilizzando i cadaveri dei “poveri vinti” erano i comunisti rivoluzionari che sognavano di “fare come in Russia”. Coccolati, temuti, controllati dal partito hanno dovuto poi  limitarsi ad uccidere 40mila persone, tutte fiere ed indomite, così almeno le descrive Pansa al momento della morte,  che avevano avuto il solo torto di essere massacratori di genti, uccisori e stupratori, corrotti funzionari di partito, succubi dei nazisti: cosette insomma. Muoiono tutti con sguardo fiero, gridando “viva l’Italia”, “viva il Duce”. Ma di quale Italia i vinti andavano fieri e di quale Duce. Pansa non lo dice. Ma di questi italiani  possiamo ricordare la politica di sudditanza ai massacratori nazisti? Possiamo anche ricordare la posizione di burattino di Mussolini nella RSI? Pansa non lo fa.

Il prossimo libro forse ci spiegherà che la RSI salvò in verità l’Italia dalla furia dei nazisti. I poveri repubblichini si sarebbero così immolati per non lasciare sfogo totale alla furia nazista. Insomma volevano tanto bene agli italiani,  agli altri italiani che non erano come loro così sensibili alle sorti del paese, che li massacrarono, quando poterono, in prima persona, per non farli uccidere dai nazisti, oppure aiutando, in realtà limitandoli, i nazisti nelle loro stragi. Tanti “bravi ragazzi di Salò” insomma. Il vero cancro, del ‘900 è stato quindi il comunismo, senza scuse.  Ed ecco già la copertina ce lo rende chiaro. Uno sguardo inquietante, due occhi che guardano, evidentemente il regista occulto delle stragi. La foto in primo piano riguarda la cattura di un fascista a Milano, il 30 aprile 1945. Milano, luogo dal quale Pansa e Livia, l’unico personaggio inventato del libro, così come Pansa ci avverte subito, in un avvertimento al lettore, l’alter ego, l’atra metà femminina dell’autore, prendono le mosse per descrivere la carneficina dei “poveri ragazzi di Salò”, da parte di comunisti mangia bambini, mangia preti e mangia uomini e donne che non la pensavano come loro.

Il libro inizia mettendo sul conto della carneficina anche due suicidi proprio a Milano. Già dalla partenza si capisce che qualcosa non va. Ed infatti si fa una immensa fatica a leggere tutto il testo senza saltare neppure un nome, un luogo, una storia – in fondo sempre quella – che porta poi alla somma finale di migliaia di morti ammazzati. Un lungo elenco. Il personaggio di Livia , l’altra metà di Pansa, dice cose pesanti a cui lo stesso Autore reagisce con disgusto, ma a volte i ruoli sono invertiti. Quello di Livia, nel seguire ed aiutare l’Autore è stato un atto dovuto. Perché? Lo racconta la stessa Livia nelle pagine finali. Il padre della metà femminina di Pansa era un partigiano comunista, che si è tirato indietro ad un certo punto ma che forse ha partecipato alla mattanza. E Livia, la pseudo Pansa, glielo doveva questo sforzo. Doveva aiutare Pansa uomo a render un poco di onore alle vittime di ogni uccisione di massa che i partigiani hanno compiuto allora. Non si entra mai  in un discorso scientifico. Tutto rimane sul piano umorale.

La spinosa questione della “guerra civile”

Anche la questione della guerra di Liberazione come guerra civile viene data per scontato che era quella e solo quella. Una questione non solo terminologica ma di contenuto, sollevata, con autorevolezza, dal libro di Claudio Pavone, Una guerra civile. Una discussione continua che trova sempre nuovi risvolti. Due esempi: Lettera ai compagni, periodico della FIAP, ha pubblicato un numero monografico alla fine del 2003 proprio su questo tema. Una serie di interventi problematici. Nel Corriere della Sera del 7 gennaio 2004, Bruno Bottai, figlio di Giuseppe Bottai, un esponente di primo piano del ventennio, dice chiaramente “..non credo nemmeno alla tesi della guerra civile; ci fu solo un’occupazione tedesca molto dura”. Non è di poco conto propendere per una accettazione o per il rifiuto di questa definizione. Ma anche su questo Pansa sorvola allegramente, dando per scontato l’equiparazione. In fondo lui non è uno storico, non è un letterato. Ma che cosa è?

Il libro di Pansa come segno dei tempi

Forse le copie vendute lo spingeranno ad altri tentativi  similari. Ma almeno ci risparmi la favoletta dall’apolitico che richiama anche nel libro. Questa suo scritto è stato ed è solo un’operazione politica, che trova riscontro in questi tempi. Tempi di debolezze analitiche e rielaborative. Tempi nei quali la politica viene fatta dalle quarte file di una compagnia di ballo che ripete passi sempre più stanchi; tempi nei quali anche i mediocri trovano largo spazio. Una fase di stanca. E stancamente chiudiamo il libro di Pansa illudendoci che le quattrocentomila copie vendute sino ad ora siano il massimo raggiunto. Ma disperiamo.