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Il recupero della memoria nella lotta dei popoli

Miguel Urbano Rodrigues | odiario.info
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

14/11/2015

I tempi in cui viviamo richiedono una lotta intensa, anche sul terreno ideologico. Le condizioni di questa lotta sono altrettanto dure e disuguali che in ogni altro ambito della lotta di classe. E sono aggravate inoltre dal modo in cui la classe dominante non solo cerca di riscrivere la storia, ma anche di eliminare dalla memoria dei lavoratori e dei popoli le tracce della loro faticosa lotta millenaria, il motore della storia.

Da millenni, le classi dominanti si sforzano di plasmare la mentalità dei popoli sulla base dei loro interessi.

Questo tentativo, già individuabile nelle antiche civiltà del Mediterraneo e del Medio Oriente, come di India e Cina, è stata una costante nel corso dei secoli, fino a manifestarsi nelle guerre di religione e nelle monarchie di "diritto divino".

Distruggendo l'ordine tradizionale, la Rivoluzione francese del 1789 impose una nuova struttura di classe. La reazione fu rapida e distruttiva. Il Termidoro segnò, in Francia, la fine della breve fase rivoluzionaria che aveva scosso il mondo.

La borghesia, insediatasi al potere, modernizzò la società, eliminando il feudalesimo. Ma per assumere il ruolo di direzione, in precedenza nelle mani della nobiltà e del clero, represse duramente tutti i tentativi delle masse di dare continuità alla rivoluzione per cui avevano duramente combattuto.

Nonostante lo sviluppo sfrenato del capitalismo, i semi del terremoto politico, sociale ed economico del 1789 sopravvissero. La borghesia non poteva distruggerli e il binomio antinomico rivoluzione-controrivoluzione segnò drammaticamente il corso della storia in Europa e negli altri continenti. Pur facendo ricorso a metodi diversi da paese a paese, il capitalismo si è costantemente sforzato di imporre la sua ideologia alle vittime del sistema, anestetizzandone in tal modo la combattività.

Questa strategia è stata portata avanti con esiti più o meno positivi in molti casi. In altri, essa fallì, minata dalla vittoria in Russia della Rivoluzione d'Ottobre nel 1917.

Nella seconda metà del XX secolo, l'imperialismo, egemonizzato dagli Stati Uniti, ha ampliato il suo progetto di dominio mondiale. Per il grande capitale, il compito di neutralizzare l'impeto rivoluzionario delle masse oppresse è diventata una priorità. Utilizzando con abilità i meccanismi mediatici sotto il suo controllo, ha fatto di tutto per riscrivere la storia. Ha demonizzato chi non è sottomesso alle sue richieste, presentando al contempo le sue distruttive guerre di saccheggio come iniziative umanitarie in difesa della libertà e della democrazia.

Trasformare la grande maggioranza in una massa amorfa e passiva è diventato l'obiettivo. La creazione di un uomo robotizzato e inoffensivo è considerato essenziale per la sopravvivenza del capitalismo.

Il Cile, un laboratorio della strategia imperiale

Sono molti gli esempi delle disastrose conseguenze di questa strategia criminale.
Gli effetti tragici delle guerre imperiali di questo secolo sono ben note.

Un po' dimenticati, ma non per questo meno illuminanti, sono i risultati delle azioni machiavelliche - è il termine giusto - degli Usa nei paesi che Washington scelse come cavie per la trasformazione dell'atteggiamento di una società verso la vita. Il caso del Cile è paradigmatico.

Ho seguito con estremo interesse nell'ultimo mezzo secolo l'evoluzione del paese e del suo popolo. Ero a Santiago il giorno dell'investitura a presidente di Salvador Allende. Ci sono stato nel 1971 e nel 1973, facendo mia la lotta delle forze progressiste in difesa della Unidad Popular, minacciata da una catena ininterrotta di cospirazioni.

Vi ritornai 15 anni dopo, ancora sotto il potere di Pinochet, per partecipare a Chile Crea, una iniziativa internazionale che aveva riunito duecento amici del popolo cileno e che la dittatura non aveva osato proibire. Fu triste il rincontro con il popolo della capitale. L'università era stata distrutta, i sindacati chiusi, la comunicazione sociale faceva l'apologia del regime, i genocidi, ben saldi al potere, erano orgogliosi dei crimini commessi. Rincontrai un popolo che avevano perso la gioia di vivere.

Ci sono tornato nel 1989 per osservare le elezioni presidenziali. Pinochet sperava che il suo candidato, sostenuto dall'apparato ufficiale, sarebbe stato eletto. Ma perse.

A Santiago, accanto a Volodia Teitelboim - un gigante della letteratura che non ha ricevuto il Nobel per essere stato Segretario generale del Partito comunista - vissi la felicità della giornata della sconfitta di una dittatura agonizzante.

Sono tornato altre volte. L'ultima nel 2003, su invito di Gladys Marin, allora Segretario generale del Partito Comunista del Cile, per partecipare al seminario Allende Vive, promosso per una riflessione collettiva tre decenni dopo la morte del grande rivoluzionario.
Ho visitato diverse città, parlato con dirigenti politici e sindacali, con scrittori, operai, accademici, giovani e donne comuniste.

La conclusione che ne ho tratto è che l'avanguardia combattiva ma piccola che è rimasta fedele ai principi e ai valori del socialismo ha avuto un'influenza molto limitata sulla massa della classe operaia.
Si è ripresentata una sensazione di malessere. Ho sentito Volodia - con il quale ho mantenuto un lungo dialogo - prendere atto di un'evidenza molto dolorosa, affermando che il popolo cileno aveva perso la sua memoria e che avrebbe tardato a recuperarla.

La democrazia era stata formalmente ristabilita, ma una democrazia solo di facciata. Il Cile è vissuto sotto un regime che era in pratica un "pinochetismo senza Pinochet".

L'antico Partito Socialista, al governo nel quadro della coalizione Concertación, che comprendeva la Democrazia Cristiana e altri partiti conservatori, ha sostenuto la politica del presidente Ricardo Lagos, un socialista che ha governato come neoliberale.

Sono rimasto impressionato dall'apatia della nuova generazione. Quando richiamavo l'attenzione sulla disuguaglianza sociale e la povertà di milioni di cileni, mi veniva risposto che il tasso di crescita dell'economia era elevato e il Pil pro-capite era il più alto dell'America Latina.

I giovani laureati con cui ho parlato ignoravano la storia recente del paese, senza peraltro mostrare alcun interesse a riguardo. Ho trovato una generazione senza memoria.

L'imperialismo e la dittatura militare da esso tutelata, avevano raggiunto in Cile uno dei loro principali obiettivi.
Michelle Bachelet, l'attuale presidente, dietro la maschera da socialista pratica anche lei una politica neoliberale.
Il recupero della memoria - senza conoscere il passato non si può comprendere il presente - sarà sicuramente lento e difficile.

Il Cile è, ancora una volta, un paradigma degli effetti catastrofici della strategia dell'imperialismo.

Ma la perdita della memoria storica di una o due generazioni non si è verificata solo in Cile.
L'offensiva dal grande capitale indirizzata a creare una gioventù robotizzata, inoffensiva, sottomessa, raggiunge decine di paesi. Nell'Europa comunitaria le eccezioni sono poche.

Lenin ricordava che l'ideologia della classe dominante marchia in modo decisivo il comportamento generale di una società. Quest'affermazione è valida anche per il Portogallo. Le nuove generazioni hanno poco in comune con quella che rese possibile l'Aprile e le sue conquiste rivoluzionarie. L'ideologia del capitalismo ha infettato in modo maggiore o minore, a prescindere dall'età, molti portoghesi che non hanno consapevolezza di questa realtà.

Aiutarli a recuperare la memoria storica è un compito rivoluzionario, perché specialmente alla gioventù tocca la costruzione di un futuro che risponda alle aspirazioni più profonde del nostro popolo, così esemplarmente descritte da Alvaro Cunhal e Vasco Gonçalves.

Vila Nova de Gaia, 12 novembre 2015


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