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Perché la libertà di espressione è una favola

Bruno Guigue | investigaction.net
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

20/09/2017

In una società dove una minoranza di persone detiene gran parte del capitale, è chiaro che alcuni sono "più liberi" di altri. Poiché i ricchi monopolizzano l'esercizio della libertà di espressione, di fatto la negano ai poveri.

La libertà di espressione fa parte dei nobili principi grazie ai quali i regimi affermano di essere "civilizzati" e sostengono di essere "democratici". Per l'ideologia liberale, le cose sono semplici. Dal momento che siamo liberi e uguali, tutti noi godiamo della possibilità di esprimerci come lo desideriamo. Collegata alla nostra natura, questa libertà inalienabile sarebbe alla portata di tutti. In questo mondo ideale in cui le libertà non aspettano che l'iniziativa individuale per compiersi, dove ciascun individuo è un Robinson in attesa di un'isola deserta per costruire un mondo a propria immagine, chiunque sarebbe libero di esprimersi in qualsiasi circostanza.

In realtà, basta formulare chiaramente - come abbiamo appena fatto - ciò che dovrebbe essere la libertà di espressione per rendersi conto che non è solo irreale, ma assolutamente impossibile sotto il nostro regime sociale. È irreale infatti, per la semplice ragione che tutti i cittadini non possono esercitare questa libertà alle stesse condizioni. Quando si esalta la libertà di espressione che regnerebbe nelle democrazie occidentali, ci si accontenta in realtà di una libertà astratta, "formale", come diceva Marx e si ragiona come se fosse sufficiente aprire la bocca per godere di questa meravigliosa libertà di tutti.

Ma questa libertà molto vantata è una vera favola, perché il suo esercizio effettivo - e non la semplice astratta possibilità di questo esercizio - presuppone il possesso di mezzi di cui non siamo ugualmente dotati. Nel fiabesco mondo del liberalismo questa disuguaglianza non pone alcun problema, ma la si trova soltanto quando viviamo nel mondo reale. Se non ho le stesse idee del mio vicino, non è indifferente sapere se possiede un giornale o se non ne possiede nessuno. La sua libertà di espressione non sarà equivalente alla mia. In una società in cui una minoranza detiene gran parte della capitale, è chiaro che alcuni sono "più liberi" di altri. Poiché monopolizzano l'esercizio della libertà di espressione, i ricchi in realtà, la privano ai poveri.

In concreto, la questione della libertà di espressione quindi, si sovrappone alla questione della proprietà dei mezzi di espressione. In Francia, circa dieci miliardari possiedono la quasi totalità delle testate di stampa scritta e audiovisiva, nazionale e regionale. Ma non è stato per amore della "libertà di espressione" che questi detentori di capitali hanno preso il controllo dei media. Se così fosse, la linea redazionale di questi organi di stampa non sarebbe monolitica fino alla caricatura. Non rifletterebbe in modo così crudo le scelte ideologiche di una casta che intende imporre la sua visione del mondo. "La libertà di stampa", diceva Marx, "è la libertà che i capitalisti hanno di acquistare quotidiani e giornalisti al fine di creare un'opinione pubblica favorevole alla borghesia". Il clamore mediatico che ha condotto il giovinastro delle finanze all'Eliseo, è un buon esempio.

Si obietterà che, nonostante questo dominio sui media, ci si può esprimere come si vuole sul Web. Questo è vero e falso allo stesso tempo. Fortunatamente, molti siti web gestiti da volontari diffondono un'informazione alternativa che cerca di fare breccia nel discorso dominante. Ma non è una lotta ad armi pari. I media ufficiali dispongono di enormi risorse che provengono non solo dagli azionisti privati, ma anche dalle sovvenzioni pubbliche. L'organo centrale del partito euro-atlantico, il quotidiano "Le Monde" per esempio, riceve 4.538.000 € dallo Stato (2015). Naturalmente certe sovvenzioni non impediscono a questo giornale di pubblicare frottole. Ci si può anche chiedere se esista una relazione causa-effetto. Tutti ricordano i tanti articoli nei quali il "quotidiano di riferimento" annunciava l'imminente caduta di Bashar Al-Assad, conforme alla dottrina del Quai d'Orsay.

Se i siti di informazione alternativa percepisssero un decimo di ciò che tocca ai nove miliardari per mantenere in vita i loro giornali di poco conto, è difficile immaginare cosa accadrebbe. Ma questa distribuzione equa della spesa pubblica è improbabile che avvenga. Il sistema mediatico delle democrazie liberali, infatti, poggia sia sulla concentrazione capitalista, che sul favore del potere. Un buon giornale è un giornale che dice ciò che occorre dire - dal punto di vista dell'oligarchia - e a chi lo Stato darà i mezzi per eliminare la concorrenza. L'apice è stato raggiunto quando il ministro uscente dell'Educazione nazionale ha ordinato alle scuole di offrire libero accesso a una dozzina di giornali e ha scoraggiato gli studenti ad andare su Internet. Interessandosi a loro nella culla non c'è dubbio che si otterrebbero risultati migliori.

La sfera mediatica viene stretta dall'oligarchia, la libertà di espressione è un diritto formale il cui esercizio effettivo è riservato a coloro che la servono. La libertà di espressione è riassunta in questo universo orwelliano alla dittatura della doxa, il processo di "complottismo", una versione moderna del processo di stregoneria, che rende possibile neutralizzare i recalcitranti. Ma questo non basta. Non solo lo spazio mediatico è saturo dell'ideologia dominante a causa della partecipazione azionaria privata, ma assicura anche che lo spazio pubblico rimanga sotto controllo. Si rifiuta allora, a un intellettuale americano del calibro di Noam Chomsky, l'ingresso nei locali dell'Assemblea nazionale dove doveva fare una comunicazione di natura scientifica. Rimasto "senza fissa dimora", questo eminente linguista colpevole di un oscuro delitto di opinione (ebbe il torto di criticare Israele e gli USA) trovò rifugio nel centro culturale belga.

Per salvare quel che resta di questa libertà di espressione moribonda si sperava che il servizio pubblico d'informazione, fuori dalla portata di affaristi e lobby, potesse agire come contrappeso. Senza contare sull'intervento del potere. Recentemente abbiamo visto un programma notevole nella serie "Un occhio sul pianeta" dedicato alla Siria. Con una rara professionalità, il team di France2 ha svelato gli aspetti contraddittori del dramma siriano, rompendo con la narrazione dominante di questa guerra per procura. Ma la lobby che difende gli interessi della NATO e di Israele ha proceduto alla pulizia. Dopo quindici anni di servizio fedele, il programma "Un oeil sur la planète" è stato appena cancellato dalla programmazione del canale. Nessun motivo è stato avanzato. Come volevasi dimostrare.

Per difendere la libertà di espressione, occorre innanzitutto smettere di prestarle una realtà che non le appartiene. È come se ciascuno fosse libero di usufruirne mentre si tratta di una possibilità la cui realizzazione dipende dai mezzi che il cittadino comune non possiede. Finché questi mezzi sono monopolizzati dalla borghesia aziendale, questa realizzazione è chimerica. Nelle presunte democrazie, la libertà di stampa è il mantello di cui si orna la classe dominante per formattare l'opinione pubblica. "La propaganda sta alla democrazia come il manganello alla dittatura", ha detto Chomsky. Qualsiasi parola che sfugge alla censura della classe dominante è una vittoria, ma è l'albero che nasconde la foresta. L'unico modo per promuovere il pluralismo è l'espropriazione incondizionata dei magnati della stampa.


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