www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - linguaggio e comunicazione - 13-05-19 - n. 712

Tre parole da mandare in pensione

Greg Godels | zzs-blg.blogspot.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

04/05/2019

Le parole possono essere simili a tiranni. Possono imporre il tenore, la direzione e i limiti della narrazione e perfino dell'azione politica.

Contrariamente a quanto vorrebbe una concezione semplicisticamente positivista, le parole sono elastiche - assumono cioè significati diversi a seconda del contesto, della comunità, delle motivazioni e delle epoche. Chi le utilizza può manipolare, distorcere o plasmare il loro uso in funzione di scopi o effetti specifici. La creazione di nuove parole - come la creazione dei marchi - è in grado di esercitare persuasione o influenza. Di fatto, le parole possono trasformarsi in un'arma politica, talvolta senza che le loro vittime se ne rendano conto.

A suo modo, Marx ci ha messi in guardia dalla tirannia delle parole. Di rado illustrava le sue teorie su un terreno puramente linguistico, preferendo in linea di massima scrivere direttamente riguardo ai referenti delle parole stesse, come era uso comune prima della svolta linguistica in campo filosofico.

Nondimeno, può essere utile riprendere alcuni aspetti del suo pensiero nell'ambito di un'analisi del ruolo che le parole svolgono. Questo metodo è particolarmente valido per spiegare il suo concetto straordinariamente ricco e affascinante di feticismo delle merci, esposto nella Sezione Quarta al termine del primo capitolo del Libro primo del Capitale.

Marx ritenne necessario dedicare un'intera sezione a questo concetto spesso equivocato dopo la pubblicazione della prima edizione e in quelle successive. Molto si potrebbe dire riguardo al tema, ma in questa sede sarà sufficiente ricordare che, nella narrazione convenzionale, il termine «merce» e i termini che denotano le varie merci esercitano un effetto quasi ipnotico sul nostro pensiero, offuscando quel complesso di relazioni storicamente e materialmente determinate che è al centro dell'analisi più particolareggiata delle merci offerta dal primo capitolo del Capitale. Ma esistono anche altri feticismi...

Terrorismo

Il termine «terrorismo» e i termini correlati vanno mandati in pensione. Alla maggior parte di noi fanno venire in mente un'aggressione brutale e malvagia ai danni di vittime indifese e innocenti. Gli atti di terrorismo vengono considerati insensati e crudeli, frutto di un ottuso disprezzo per le vite delle vittime. In questo senso, la parola «terrorismo» è una descrizione calzante della strage dei popoli colonizzati dell'Africa, dell'Asia, dell'Australia e delle Americhe. È una parola che illustra alla perfezione le sofferenze dei popoli indigeni di queste regioni e le esperienze da essi vissute per mano dei colonizzatori europei.

Il genocidio coloniale dei popoli indigeni potrebbe anzi servire da definizione esemplare del termine «terrorismo». A rendere queste azioni così moralmente riprovevoli è la palese sproporzione tra la potenza dei colonizzatori e l'impotenza dei loro avversari.

A partire dalla seconda guerra mondiale, tuttavia, il significato del termine «terrorismo» è stato completamente ribaltato dalla schiera di inventori di idee al servizio del capitale. I governi e i media occidentali hanno trasformato i resistenti in «terroristi». Le rivolte dei Mau Mau in Kenya, la resistenza dell'Hukbalahap nelle Filippine, il FLN in Algeria, l'ANC in Sud Africa, l'OLP in Palestina e praticamente tutti gli altri movimenti di liberazione nazionale sono stati bollati come terroristi dai colonizzatori, dagli occupanti, dagli aggressori e dai loro alleati. Malgrado la palese sproporzione in termini di potere e risorse, le vittime di questo potere vengono etichettate come «terroristi» ogni qual volta mettono in atto deboli e spesso disperati tentativi di resistenza.

Nel brillante film La battaglia di Algeri vi è un momento cruciale in cui il leader del FLN, Ben M'Hidi, viene catturato. Durante una conferenza stampa, un reporter francese indignato chiede a Ben M'Hidi come può giustificare gli atti di «terrorismo» contro i colonialisti. Lui replica: «E a lei, non sembra più vile lanciare sui villaggi indifesi le bombe al napalm? ...Mi dia i suoi bombardieri e noi le lasciamo i nostri cestini [in cui il FLN piazza le bombe]».

La presa di posizione del regista Gillo Pontecorvo è cruciale. In una guerra di liberazione, la resistenza deve combattere con le armi che ha a disposizione, oppure soccombere all'oppressione dei suoi aggressori. Anche in circostanze ottimali, i rapporti di forza sono comunque fortemente favorevoli all'oppressore. Gli oppressi non hanno che la propria determinazione.

Analogamente, i nativi americani che combattevano contro il genocidio perpetrato ai loro danni dai ladri di terre statunitensi e dall'esercito USA venivano definiti «selvaggi» dal governo e dalla stampa dell'epoca. Oggi li chiamerebbero «terroristi».

Il governo degli Stati Uniti ha ulteriormente abusato di questo termine servendosi in modo indistinto dell'espressione «sostegno al terrorismo» come accusa da lanciare a capriccio allo scopo di giustificare sanzioni, blocchi economici e aggressioni - un'accusa che viene lanciata o ritirata a seconda che i suoi destinatari godano o meno del favore degli Stati Uniti in un dato momento.

Un motivo in più per mandare in pensione il termine «terrorismo».

Globalizzazione

Quando la parola «globalizzazione» è divenuta di moda, il significato che le persone le attribuivano non era affatto chiaro. Per alcuni, la globalizzazione era una nuova fase del capitalismo: una fase post-imperialista, post-Stato nazione, o indirizzata verso il ritorno a una sorta di neo-mercantilismo. Tutte queste interpretazioni appaiono oggi ridicole, di fronte a un imperialismo impegnato in continue guerre, a una nuova esplosione di nazionalismo populista e a un commercio globale che fatica a recuperare i livelli raggiunti prima della cosiddetta «globalizzazione».
Perfino le élite capitaliste ammettono che è giunto il momento di mandare in pensione questa parola.

Altri, tra cui diversi leader sindacali, consideravano la globalizzazione come un'aberrazione del capitalismo, prodotta da una cattiva gestione politica e dallo strapotere delle multinazionali, che falcidiava i posti di lavoro. Privi di una prospettiva di lotta di classe, costoro non sono stati in grado di capire che ciò che chiamavano «globalizzazione» era in realtà la prosecuzione di un processo risalente all'antichità: la divisione del lavoro - in questo caso, una divisione del lavoro perversamente globale.

A caccia di profitti e favorito da progressi rivoluzionari nell'ambito delle forze produttive, il capitale è riuscito a reperire fonti più economiche di quella merce che si chiama forza lavoro. E si dà il caso che le abbia reperite al difuori del vecchio nucleo imperialista, il che ha limitato la crescita dei posti di lavoro nei Paesi capitalisti avanzati ai settori della finanza, delle libere professioni e dei servizi a bassi salari, mentre la produzione si è trasferita nei Paesi a basso reddito.

Coniando o adottando il termine fuorviante «globalizzazione», gli spacciatori di favole in ambito sindacale e politico sono riusciti a distrarre i lavoratori dalla vera causa della perdita di posti di lavoro: il sistema capitalista. Anche soltanto per questa ragione, la parola «globalizzazione» andrebbe mandata in pensione.

Classe media

Tutti i tentativi di fissare in modo obiettivo e concreto il concetto di classe sociale sono falliti, a eccezione di quello dei marxisti. Per i marxisti, le classi traggono origine da una divisione basata su rapporti sociali dettati dalla produzione materiale della ricchezza della società. Nel modo di produzione capitalista, queste relazioni sociali producono una netta divisione tra coloro che comprano la forza lavoro e coloro che la vendono. Tale divisione permette di identificare due classi, opportunamente denominate «classe capitalista» e «classe operaia».

Esistono ovviamente delle zone grigie - strati - ai margini delle due classi, che sono caratterizzate da dimensioni e livelli di rilevanza diversi a seconda del periodo, del luogo e delle condizioni. Tra la classe operaia e la classe capitalista, Marx identificò uno strato da lui definito «piccola borghesia». Questo strato sociale è composto da individui che esprimono alcuni rapporti sociali propri di entrambe le classi, ma che a livello soggettivo si identificano con la borghesia, benché la loro presa su questo status intermedio sia limitata.

Esempi di questi strati nel mondo odierno, caratterizzato da un capitalismo monopolistico maturo, sono costituiti da alcuni medici, avvocati e piccoli imprenditori, nonché dalla schiera di cortigiani, parassiti e intrattenitori della borghesia.

Nei Paesi più ricchi del Nord America e dell'Europa la piccola borghesia è vasta, e sta perfino crescendo in dimensioni e ricchezza. Costituisce un cuscinetto e una base politica per la borghesia, molto più ridotta.

Storicamente, molti studiosi di scienze sociali si sono serviti per comodità del termine «classe media» per designare la piccola borghesia, senza distorcere significativamente le distinzioni marxiste.

Oggi, però, i ciarlatani dei vertici sindacali USA, dei media capitalisti e dei partiti politici usano questo termine in un senso assai diverso. Definiscono infatti «classe media» tutti coloro che occupano l'enorme spazio tra i super-ricchi (il cosiddetto 1%) e i poveri.

L'uso del concetto di classe per denotare un gruppo così vasto e variegato è un affronto al rigore e alla chiarezza. Cancella infatti tutte quelle distinzioni che rivelano il carattere sociale, politico ed economico del sistema capitalista. Unifica in modo artificioso e irrealistico gli interessi di classe della classe operaia e quelli degli apologeti, dei fautori e dei beneficiari del sistema capitalista. E nasconde i processi che stanno impoverendo la classe operaia e arricchendo la classe capitalista e buona parte della sua appendice piccolo-borghese.

Nell'ambito di questa definizione, il commesso di negozio e il bracciante vengono collocati nella stessa classe sociale del piccolo imprenditore e del manager salariato di medio e perfino di alto livello, e vengono loro attribuiti i medesimi interessi.

Ascrivendo quasi tutti gli individui a una nebulosa classe media, i politici, i leader sindacali falliti e i cagnolini da salotto dei media tracciano un quadro fatto di interessi comuni e armoniosi condivisi da tutti, a eccezione dei ricchissimi e dei poverissimi. Non esiste attrito tra le classi, se non forse ai due estremi. Tutti condividono i benefici e una visione del mondo comune, e tutti lottano per i medesimi obiettivi - benché alcuni abbiano più «successo» di altri. Gli esclusi da questa armoniosa «classe media» e dal gruppo degli individui «di straordinario successo» - in altre parole, i poveri - vengono presentati sostanzialmente come degli incapaci, gravati da una scarsa motivazione e da disfunzioni sociali, bisognosi dell'elemosina della società.

Il panglossiano «migliore dei mondi possibili» serve alla perfezione il capitalismo, oscurando le vere differenze e conflitti di classe e mettendo in ombra la necessità della lotta della classe operaia.

È giunto il momento di mandare in pensione questo uso fuorviante dell'espressione «classe media».

La tirannide delle parole è insidiosa, specie quando buona parte della «comunicazione» più popolare è limitata a 140 caratteri. I social media incoraggiano la brevità, lasciando ben poco spazio alla decifrazione e alle sfumature. Di conseguenza, milioni di persone si bevono parole che sembrano argute, di moda o ingegnose. Ma l'arguzia, la moda e l'ingegnosità non sono mai state indice di chiarezza o veridicità.

Nei prossimi post ci occuperemo di altre parole «sovversive» o «fuorvianti»!


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