www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - scienza - 19-06-08 - n. 233

A 110 anni dalla nascita e a 60 (luglio 1948) dal dibattito aperto nell’Accademia Lenin di Scienze Agricole dell'URSS (VASHNIL) portiamo all’attenzione un documento a cura di Roberto Zanetti.

 

da http://www.ezeta.net/homosapiens/contributi/lysenko/index.htm

 

Il caso Lysenko

I rapporti dialettici della natura e della società

 

Introduzione

Una breve definizione della dialettica marxista

L’evoluzionismo

La situazione negli anni ’20 in U.R.S.S.

Il dibattito sulla biologia e la genetica

Le teorie di Vavilov vengono contestate dai risultati di Lysenko

La polemica diventa uno scontro durissimo

Il tragico epilogo dello scontro

La dialettica subì la medesima deformazione della genetica

Il ruolo globale del materialismo dialettico nella scienza Sovietica

Evoluzione biologica, cultura e genetica

L’eugenetica: ovvero la repressione pseudoscientifica

Il razzismo è un concetto classista

Conclusioni

Bibliografia

 

Introduzione

 

Con la Rivoluzione d'Ottobre il paese più arretrato d'Europa ha dato inizio ad una delle più grandi epoche dinamiche della storia, forse la maggiore degli ultimi secoli. Quest'epoca, così travagliata e travisata, ha dato vita, indubbiamente, a milioni di eroi ed ha dimostrato al mondo intero quanto può fare un popolo libero di costruire il proprio futuro. In ogni tempo, ogni progresso umano è stato pagato a caro prezzo, non solo con il sacrificio degli eroi in battaglia, ma anche con la morte di molti innocenti (la Rivoluzione Francese, levatrice tradita, dell'attuale società capitalista, è stata nel contempo ghigliottina ma anche libertè, fraternitè, egualitè). “La violenza è la levatrice della storia” ha affermato Engels constatando che ogni cambiamento dell’umanità è stato possibile solo contrastando la violenza della vecchia società che si oppone alla nascita della nuova, inducendo così alle condizioni più terribili. Le sofferenze affrontate dal popolo nella costruzione del socialismo sotto la guida di Stalin, fossero esse frutto di necessità, crimine o errore, nulla furono a paragone di quelle inflitte loro dalle potenze occidentali interventiste e dell'invasione hitleriana, e infinitamente minori anche solo delle sofferenze che vennero alla Russia dal ritardo calcolato frapposto dagli Usa all'apertura del promesso "secondo fronte". Nell'imbarbarimento odierno si impone di non ricordare l'Europa del 1940, quando gli eserciti francesi crollarono in dieci giorni davanti ai carri armati di Hitler; e l'infamante alleanza italiana con la Germania; quando l'Europa fu minacciata da una nuova Era Oscura! Ci stiamo dimenticando gli assalti portati a tutta l'umanità da coloro che affermavano i diritti degli ariani sulle razze inferiori, ma ci si potrà dimenticare veramente come questi assalti si infransero contro la resistenza degli uomini e delle donne di Stalingrado? Edificando febbrilmente, disordinatamente anche, questi uomini e donne eressero il pilastro che resistette quando il mondo intero vacillava: di questo l'umanità tutta è oggi loro debitrice.

 

E' nel nome dell'intelligenza, nel rifiuto della semplificazione e nella ribellione alla mistificazione, che oggi, malgrado tutte le ipocrite menzogne che deturpano momenti drammatici e nel contempo esaltanti dello sviluppo umano, che dobbiamo alimentare la speranza che la memoria storica non vada persa e con essa i sacrifici di popolazioni intere.

 

Affrontando le questioni legate al cosiddetto caso Lysenko vogliamo innanzitutto rendere omaggio e giustizia al ricordo di quel momento storico e nel contempo dare un'opportunità di riflessione specialmente ai giovani di oggi, inconsapevoli vittime di un sistema sociale perverso che, nella versione migliore di sé, provoca decerebrazione per ottenere profitti e potere personali sempre più illimitati.

 

Probabilmente a molti il nome di Lysenko non dirà nulla, ad altri farà affiorare lontani e incerti ricordi, ad altri ancora verranno alla mente i contrastanti giudizi, le accuse o le strumentalizzazioni a cui il nome di Lysenko è stato legato. Naturalmente queste pagine non sono rivolte a chi, in mala fede, ha utilizzato il caso Lysenko per insudiciare l'ideale comunista, l'analisi che proponiamo è per tutti gli altri.

 

In quanto comunisti il metodo da noi utilizzato non può essere altro che il Materialismo Dialettico e Storico, strumento scientifico che, in stretta dipendenza con le nostre reali capacità, ci aiuta nell’interpretare in modo oggettivo la realtà che ci circonda. Pur nella sua estrema complessità e quindi con i relativi limiti, la società umana si presta ad una interpretazione di tipo scientifico, e comunque ci facilita a non cadere vittime delle nostre emotività.

 

Le affermazioni di carattere scientifico devono trovare il loro fondamento nell’osservazione dei fatti e nella concatenazione logica che le rende conseguenze di altre affermazioni a loro volta razionalmente fondate. Inoltre, una qualsiasi teoria scientifica deve essere in grado di spiegare i fatti in modo coerente. Il metodo scientifico si basa su ipotesi, verifiche, fatti e dati e non su opinioni soggettive che mutano a seconda dei momenti storici, delle mode, del clima politico e dei direttori di giornali e telegiornali. La scienza è molto di più di un corpo di conoscenze, è un modo di pensare, o meglio, un modo di constatare che ci invita a tener conto dei fatti anche quando non si conciliano con i nostri preconcetti. Diciamo subito che ciò che differenzia la scienza dalle altre attività culturali umane è proprio il superamento dell'opinione. In altre parole, la scienza è la ricerca di affermazioni che non siano credenze individuali, ma possano essere condivise da chiunque, dotato di ragione e intellettualmente onesto. In questa ottica svilupperemo il presente documento.

 

Pur nella brevità delle esposizioni, vengono innanzitutto anticipati alcuni elementi di carattere teorico-tecnico per una migliore comprensione di quanto andiamo ad esporre; segue poi una descrizione della situazione contadina dell'URSS nell'epoca interessata dalla nostra indagine per contestualizzare la situazione. La giornalista nordamericana, Anna Louise Strong, autrice del libro “L’era di Stalin” (di cui invitiamo la lettura), ha vissuto di persona gli avvenimenti che descrive: trasmette la situazione di una società contadina estremamente arretrata, di tipo medioevale e quindi patriarcale, con strumenti di lavoro arcaici. Nel suo libro viene evidenziata la lotta cruenta fra chi tenta di costruire la nuova società e chi vi si oppone, e in essa gli eccessi e gli errori. La guerra contro il Giappone (conclusasi con la Rivoluzione) e i cinque anni di guerra civile foraggiati dalle potenze occidentali ha incrementato, oltre ogni misura accettabile, una situazione di estrema carestia, a cui, per contrapporvisi divenne necessario tentare l'impossibile. La drammaticità della situazione si evidenzia inequivocabilmente nella domanda della giornalista"Perché Stalin non mette un freno a tutto questo?" e nella risposta del contadino comunista "Non possiamo attaccare i nostri dirigenti locali finché il seme collettivizzato non sarà nei granai collettivi, e la semina assicurata, altrimenti potrebbe dilagare la carestia". In questa situazione, che oltretutto contrasta l'iconografia ufficiale di uno Stalin dittatore e sanguinario, si inserisce il caso Lysenko: con la sua drammaticità ma anche con i suoi insegnamenti. Il dibattito e le conseguenze scaturite, che hanno assunto i toni drammatici di cui diamo testimonianza, erano figli delle varie correnti di pensiero che allora si contendevano i primi passi in una scienza ancora inesplorata, ma sopratutto figli dell'ostilità e dell'accerchiamento imposti al giovane Stato Socialista dai paesi occidentali.

 

I fatti esposti nel presente documento rendono ridicola l'accusa rivolta al materialismo dialettico di essere la causa responsabile del caso Lysenko, ma se ciò non bastasse, aggiungiamo in seguito una sintetica esposizione di alcuni traguardi raggiunti dalla scienza nell'Unione Sovietica attraverso l'interpretazione del materialismo dialettico.

 

Nell'ultima parte, invece, riportiamo alcune "perle" di come il capitalismo, nella sua classica disinvoltura, sappia conciliare le strumentali accuse ai suoi avversari, con la strumentalizzazione della scienza per utilizzarla, ancora oggi, a scopi razzisti e oppressivi.

 

Una breve definizione della dialettica marxista

 

Per una più semplice comprensione di quanto espresso più avanti nel presente documento iniziamo con una brevissima ma necessaria definizione della dialettica.

 

Engels la definisce come “la scienza delle leggi generali del moto e dello sviluppo della natura, della società umana e del pensiero”. Nell’Anti-Dühring e ne La dialettica della natura, Engels riassume le leggi della dialettica, partendo dalle tre fondamentali:

 

1) la legge della trasformazione della quantità in qualità e viceversa; per cui i singoli piccoli cambiamenti, insufficienti per determinare un cambiamento qualitativo, ad un certo punto hanno proprio quest’effetto: la quantità si trasforma in qualità, per cui i grandi cambiamenti avvengono per balzi e non gradualmente.

 

2) la legge dell’unità e compenetrazione degli opposti; per la quale nel pensiero dialettico non vi è l’idea di cambiamento e di moto, bensì la concezione di moto e di cambiamento come fenomeni che si fondano sulla contraddizione. Mentre la logica formale tradizionale cerca di bandire la contraddizione, il pensiero dialettico la accoglie. La contraddizione è un aspetto essenziale dell’essere; è insita nel cuore della materia stessa. È la fonte di tutto il moto, il cambiamento, la vita e lo sviluppo.

 

3) la legge della negazione della negazione; esprime la nozione di sviluppo. Invece di un circolo chiuso, in cui i processi continuamente si ripetono, questa legge spiega come il passaggio per contraddizioni consecutive porta in realtà allo sviluppo, dal semplice al complesso, dall’inferiore al superiore. I processi non si ripetono esattamente allo stesso modo (anche se così può sembrare), quando si ripresentano lo fanno ad un livello superiore.

 

Da esse scaturisce tutta una serie di proposizioni aggiuntive, che riguardano il rapporto tra intero e parte, forma e contenuto, finito ed infinito, attrazione e repulsione e così via.

 

Certamente questi concetti teorici non sono assimilabili con estrema semplicità, ma in un primo approccio è sufficiente mantenerne un pur vago ricordo, nell’ambito di queste note, così come in altre precedenti, sul carattere scientifico del materialismo dialettico e storico se ne vedrà affiorare l’applicazione pratica, cominciando proprio dal prossimo paragrafo.

 

L’evoluzionismo

 

La teoria dell’evoluzione gradualista di Darwin traeva origine dalla visione filosofica posta alla base della società vittoriana. Da questa particolare concezione di evoluzione sono eliminati tutti i balzi, i bruschi cambiamenti e le trasformazioni rivoluzionarie; si tratta di una prospettiva antidialettica che ha esercitato la sua negativa influenza sulle scienze fino ai nostri giorni permettendone un uso strumentale.

 

Lo studioso Stephen Jay Gould, paleontologo dell’evoluzionismo moderno, ha espresso nel seguente modo il limite imposto dalla cultura all’avanzamento della scienza, in inconsueta sintonia (per uno studioso occidentale) con il materialismo dialettico:

 

“Un influsso profondamente radicato nel pensiero occidentale ci predispone a ricercare la continuità e il cambiamento graduale.”

 

Quasi un secolo fa, il marxista Georgij Plechanov polemizzava contro la concezione gradualista dell’evoluzione:

 

“La filosofia idealistica tedesca si è opposta energicamente a questa caricatura dell’idea di evoluzione. Hegel l’ha crudelmente derisa, dimostrando inconfutabilmente che, nella società umana, come nella natura, i balzi costituiscono un aspetto dell’evoluzione non meno essenziali delle impercettibili modificazioni quantitative. Le modificazioni dell’essere non consistono soltanto nel passaggio da una quantità a un’altra quantità, ma anche nel passaggio dalla qualità alla quantità e viceversa; ciascun passaggio di quest’ultimo tipo costituisce una rottura della continuità e conferisce al fenomeno un nuovo aspetto, qualitativamente diverso dal precedente.“

 

“Evoluzione” e “rivoluzione” sono due facce dello stesso processo che, abbandonando il gradualismo, permettono lo sviluppo di una spiegazione alternativa dell’evoluzione, in sintonia con il materialismo dialettico.

 

A quell’epoca vi era anche un’altra lunga controversia tra le interpretazioni lamarckiana e darwiniana della teoria dell’evoluzione che stava giungendo al termine con la vittoria della seconda, ma sia in Europa sia in America c’erano ancora molti lamarckiani convinti.

 

Secondo Lamarck, i cambiamenti evolutivi si verificavano attraverso l’esercizio: è la teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti. I figli del fabbro ereditavano i muscoli del padre perché il martellare quotidiano che aveva sviluppato i muscoli al padre alterava la componente ereditabile (oggi diremmo «i geni») che questo passava alla prole. Mezzo secolo dopo, Darwin sostenne l’ereditarietà dei caratteri dovuti a cambiamenti accidentali del materiale genetico; la selezione naturale assolveva la funzione di conservare le varianti rivelatesi più efficaci attraverso una maggiore riproduzione differenziale. Solo gli individui con i geni per una muscolatura possente diventavano buoni fabbri, per cui solo queste varianti presenti nella popolazione generale venivano trasmesse alla generazione successiva, indipendentemente da quanto l’uso del martello irrobustisse i muscoli del fabbro durante la sua vita. Altri cinquant’anni dopo, la nuova scienza della genetica confermò l’ipotesi di Darwin. Secondo quello che è noto oggi come «principio di Weismann» o «dogma centrale», la relazione tra il genotipo (l’insieme dei geni che un individuo eredita dai genitori) e il fenotipo (l’insieme dei caratteri fisici che tale individuo finisce per avere) è un processo esclusivamente a senso unico: i geni influenzano il fenotipo, ma non viceversa.

 

Pur significando un grande balzo in avanti sull’idealismo creazionista, l’evoluzionismo si imponeva attraverso tutta una serie di contraddizioni, alcune delle quali inaccettabili alla luce del materialismo dialettico: Darwin introduceva un consistente supplemento di conservatorismo nelle sue teorie, volendo dimostrare che non si verificano salti in natura, come non si verificherebbero nella storia. La dialettica invece sa molto bene che in natura e anchenel pensiero umano e nella storia i salti sono inevitabili. Ma allo stesso tempo essa non trascura il fatto innegabile che lo stesso processo ininterrotto è all’opera in tutte le fasi del cambiamento; la dialettica cerca solo di chiarire le condizioni determinate in cui un cambiamento graduale deve necessariamente portare a un balzo. Malgrado quest’errore, Darwin aveva ampiamente ragione rispetto all’interpretazione di Lamarck sulla ereditarietà dei caratteri.

 

Naturalmente queste diversità di interpretazione si ritrovavano riflesse e anche amplificate in altri ambiti scientifici collegati, specialmente nell’ambito della biologia e della genetica, dividendo aspramente le varie correnti di pensiero che si confrontavano. E’ anche in queste contraddizioni che si trova inserita la drammatica situazione della giovane Russia rivoluzionaria: la mancanza di grano determinata dalle politiche zariste, gli strumenti arcaici di coltivazione e la frenetica necessità di aumentarne la produzione, nonché l’intervento ostile delle potenze occidentali, hanno imposto agli scienziati sovietici una dura battaglia politica anziché teorica.

 

La situazione negli anni ’20 in U.R.S.S.

 

In Unione Sovietica a cavallo tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta, i dibattiti di carattere scientifico e filosofico che si svolsero, furono condizionati in maniera sensibile, sia nel loro sviluppo, sia negli esiti che ebbero, dai problemi di carattere economico-sociale e politico di fronte ai quali il paese si trovava. Tra questi problemi quelli legati alla necessità di un rapido incremento della produzione agricola acquisirono ben presto un ruolo predominante.

 

La Russia era un paese agricolo che disponeva però di un’agricoltura eccezionalmente arretrata. L’economia contadina, nei primi anni del governo sovietico si trovava in uno stato di grave carenza e sottosviluppo nei confronti dell’agricoltura dei maggiori paesi europei sia dal punto di vista tecnologico, che di quello organizzativo. Anche i metodi di selezione e la produzione di sementi, ad onta del fatto che diverse antiche varietà locali russe e ucraine di frumento autunnale e resistente, di lino e di altre coltivazioni avevano conquistato fama e diffusione mondiali, erano di un livello molto basso.

 

Così descrive quella situazione la giornalista nordamericana Anna Louise Strong:

 

(…) I contadini russi, nel 1928, coltivavano la terra con metodi medioevali che risalivano indietro ai tempi biblici. Vivevano stretti nei loro villaggi e di lì raggiungevano i campi, camminando per molti chilometri. Il podere familiare di due o cinque ettari era spesso frazionato in una dozzina di appezzamenti, a volte dispersi in zone diverse, e per lo più così ridicolmente piccoli da non potervi neanche girare l'erpice. Il venticinque per cento dei contadini non possedeva nemmeno un cavallo; meno del cinquanta per cento disponeva di una pariglia di cavalli o di buoi; così l'aratura avvenivaa grandi intervalli, e il vomere grattava appena il suolo: era ancora in uso il vomere di legno, sbozzato dallo stesso contadino e senza una punta di metallo. La semina si faceva a mano, spargendo sulla terra la semente portata in un grembiule; così molta se la prendevano gli uccelli o la portava via il vento. Le macchine agricole erano quasi ignote: il trattore Fordson che avevo portato con me per una colonia di ragazzi sul Volga, divenne celebre come il solo trattore in un raggio di trecento chilometri.

 

Altrettanto medioevali erano i rapporti sociali. Il vecchio dirigeva la casa. I figli maritati portavano le mogli nella casa patriarcale e lavoravano nellafattoria che il padre continuava a dirigere. Così i metodi di coltivazione rimanevano quelli antichi, né le vedute dei giovani potevano mutarli. Gran parte di questi metodi venivano determinati dalla religione. Le festività religiose indicavano i giorni di semina, le processioni spargevano i campi di acqua santa per assicurarne la fertilità, la pioggia veniva auspicata mediante processioni e preghiere. I più osservanti consideravano i trattori "macchine infernali", e vi furono dei preti che guidavano i contadini a lapidarli. Qualsiasi battaglia per un'agricoltura moderna diveniva così una battaglia "contro la religione. (…)

 

Nel 1928, le fattorie si erano riprese dalle distruzioni belliche; il raccolto globale uguagliava quello dell'anteguerra. Una quantità molto minore di grano, comunque, giungeva nelle città. La Russia zarista esportava il grano anche se i contadini morivano di fame. I contadini sovietici mangiavano meglio di prima, ma commerciavano poco. L'eccedenza spesso finiva nelle mani dei kulak, quei piccoli capitalisti di campagna che avevano il grano non solo dai loro campi ma anche perché possedevano mulini e perché prestavano denaro in cambio dei raccolti. Essi combattevano lo Stato per via del controllo del grano e per via del sostegno che esso dava ai contadini.

 

La destra dei partito comunista sosteneva che bisognava permettere ai kulak di arricchirsi e che il socialismo aveva la possibilità di vincere attraverso la proprietà collettiva statale delle industrie. La sinistra era per una rapida collettivizzazione forzata sotto il controllo dello Stato. Per parecchi anni la politica del Partito ondeggiò sotto la spinta dei diversi gruppi. Infine la linea adottata fu quella di attirare i contadini nelle fattorie collettive offrendo crediti statali e trattori, di bloccare i kulak ai margini di questo processo mediante l'applicazione di alte imposte, e, più tardi, di «distruggerli come classe». L'appartenenza alle fattorie collettive era in teoria volontaria, in pratica talvolta furono esercitate pressioni che giunsero all'eccesso.

 

In America si scrive spesso del sistema delle fattorie collettive come di una costrizione voluta da Stalin, arrivando a dire che egli fece morire di fame deliberatamente milioni di contadini per far sì che tutti entrassero nelle fattorie collettive. Tutto questo è semplicemente falso. Io viaggiai lungamente per le campagne sovietiche in tutto quel periodo, e ho visto coi miei occhi come si svolsero le cose. Certamente, Stalin appoggiò la trasformazione e le fece da guida. Ma la tendenza alla collettivizzazione si sviluppò tanto più rapidamente di quel che Stalin aveva calcolato, che ben presto non ci furono abbastanza macchine per le nuove fattorie, né quadri amministrativi e tecnici in numero sufficiente. Le pie speranze in cui si consolava la vecchia inefficienza contadina, unite all'ondata di panico promossa dai kulak, che determinò un massacro in massa del bestiame, e a due annate successive di siccità, portarono alle gravi difficoltà alimentari del 1932. Due anni dopo le pretese costrizioni di Stalin, Mosca fece superare il passo al paese con un razionamento rigidissimo introdotto su scala nazionale.

 

Ho visto la collettivizzazione piombare come una tempesta sul basso Volga nell'autunno del 1929. Era una rivoluzione che provocava mutamenti più profondi di quelli della rivoluzione del 1917, della quale, del resto, era il frutto ormai maturo. I braccianti e i contadini poveri prendevano l'iniziativa, sperando di migliorare il loro stato con l'aiuto del Governo. I kulak combattevano il movimento aspramente, con tutti i mezzi, che arrivavano fino all'incendio e all'assassinio. I contadini medi, la vera spina dorsale dell'agricoltura, erano combattuti tra la speranza di divenire kulak e il desiderio di ottenere le macchine dello Stato. Ma ormai che il piano quinquennale prometteva i trattori, questa grande massa di contadini cominciava a muoversi, a interi villaggi, a intere circoscrizioni, a intere regioni, per entrare nelle fattorie collettive. (…)

 

Nel mezzo di queste discussioni s'inserivano gli organizzatori del Partito; talvolta esperti di agricoltura che davano dei consigli, altre volte lavoratori digiuni di agricoltura ma ardenti di zelo collettivistico. (…) Ci si accalorava nelle discussioni e si litigava. Più tardi, Mosca doveva denunciare la «malattia dei gigantismo». Ma sulle prime gli entusiasti definivano ogni cautela «controrivoluzione». La questione divideva le famiglie: i giovani seguivano gli entusiasti, desiderosi di attuare finalmente nuovi metodi. I vecchi esitavano: comprendevano che, insieme al piccolo podere personale, se ne andava il vecchio dominio patriarcale della famiglia. Le donne si preoccupavano della sorte dei loro animali che avevano sostentato la famiglia, la vacca, il pollame: quali animali dovevano diventare proprietà collettiva non era ancora del tutto chiaro, e c'erano svariate forme di collettivo.

 

I kulak e i preti offuscavano i nuovi orizzonti mettendo in giro delle voci, giocando sul sesso e sulla paura. Dovunque sentii parlare di «una grande coperta» sotto la quale gli uomini e le donne delle fattorie collettive avrebbero dormito tutti insieme! Dovunque, le voci dicevano che i bambini sarebbero stati «socializzati». In alcuni posti i kulak entravano nelle fattorie collettive per dominarle o rovinarle. Altrove essi venivano espulsi dai collettivi come indesiderabili. Alcune fattorie collettive accettarono i cavalli dei kulak ma non i kulak, secondo quanto era stato fatto nella rivoluzionecon l'attrezzatura dei latifondisti. I kulak rispondevano bruciando i granai collettivi e persino con l'assassinio. Un processo a dodici kulak per l'assassinio di un segretario delPartito si stava chiudendo ad Atkarsk. «Egli è morto per tutti noi» dichiarò il Pubblico Ministero; il pubblico di contadini pianse. La tempesta della collettivizzazione dilagò di più quando le fattorie furono intitolate ai martiri.

 

Quando lasciai la zona. chiesi a un funzionario locale che cosa dicesse Mosca di questo o quello. Egli rispose frettolosamente ma con orgoglio: «Non possiamo aspettare ciò che dice Mosca; Mosca fa i suoi piani secondo quello che facciamo noi».

 

Mosca stava facendo i suoi piani, lo appresi quando vi feci ritorno. Le notizie da tutte le zone granarie fondamentali venivano coordinate nei piani del centro. Il piano quinquennale aveva fissato l'obiettivo della collettivizzazione al venti per cento per il 1933: la grande ondata fece sì che si raggiungesse in alcune zone il sessanta per cento già nel 1930. Né la produzione dei trattori, né quella di altro macchinario era stata pianificata in modo da far fronte a cose di questo genere. Così Mosca ridusse all'osso l'importazione di cotone grezzo condannando la gente ad altri anni di stracci. Mosca annullò un'ordinazione di caffè brasiliano a prezzi d'occasione e si fece nemico il Brasile. Mosca aumentò l'importazione di macchine agricole e in breve si fece amico Henry Ford. (…)

 

L'inverno del 1929-30 fu un periodo di caos considerevole. Non era ancora chiaro quale dovesse essere esattamente la forma delle fattorie collettive. Stalin, che anche lui faceva i suoi piani traendoli dall'azione dei contadini, affermò il 27 dicembre 1929 che era venuto il tempo di «abolire i kulak come classe». Ciò autorizzava semplicemente quello che i contadini poveri stavano già facendo, ma, avuta l'autorizzazione, essi cominciarono a fare di più. Cominciarono a giungere crudeli storie di case di kulak scoperchiate, di deportazioni caotiche. Intanto, gli organizzatori, lanciati sulla via dei records, forzavano i contadini a costituire le fattorie collettive minacciandoli di deportarli come kulak, mettevano in comune le vacche, le oche, i polli, perfino i piatti e la biancheria. I kulak esageravano enormemente questi eccessi e incitavano i contadini a uccidere le scorte vive e a mangiarle, e a entrare nudi nelle fattorie collettive, «dove lo Stato vi mantiene tutti».

 

«Perché Stalin non mette un freno a tutto questo? - chiesi a un amico comunista - un kulak non ha diritti? Questo è il caos!». « In realtà c'è troppa anarchia - egli rispose - deriva dalle divisioni che esistono nel Partito; la colpa è di noi comunisti. Stalin ha stabilito la linea: abolire i kulak come classe. Gli elementi di destra, che controllano l'apparato del Governo, (sapevo che alludeva a Rykov) ritardano la traduzione di questa linea in leggi. Intanto, gli elementi di sinistra fra in nostri dirigenti locali, non avendo nessuna legge a guidarli, fanno ciò che è giusto ai loro occhi e agli occhi dei braccianti e dei contadini poveri. Questa è anarchia. Speriamo che i decreti governativi vengano al più presto: allora ci sarà più ordine».

 

Il primo decreto fu emanato il 5 febbraio 1930: autorizzava la deportazione dei kulak nelle zone dove la collettivizzazione era ormai totale e dove le assemblee dei contadini chiedevano la deportazione di una determinata persona, dopo un'inchiesta. La lista doveva poi essere controllata dalle autorità provinciali, e bisognava organizzare l'insediamento nelle zone dove i kulak erano destinati ad andare. In genere, essi venivano mandati in cantieri o in terre vergini in Siberia. Dopo il decreto l'anarchia diminuì, ma pareva che ci fossero ancora molti errori ed eccessi. Perché Stalin non prese in mano la situazione?

 

«Non possiamo attaccare i nostri dirigenti locali finché il seme collettivizzato non sarà nei granai collettivi, e la semina assicurata - disse il mio amico comunista. - Altrimenti potrebbe dilagare la carestia». Egli voleva dire che i contadini, i quali già avevano mangiato le scorte vive e aspettavano ora che lo Stato li nutrisse, potevano mangiare anche il grano destinato alla semina. «Siamo come uno sciatore su un ripido pendio - aggiunse, - non possiamo fermarci né controllare la velocità o la distanza. Possiamo soltanto dirigere i nostri salti e cercare di arrivare fino in fondo in piedi. Se non ci riusciamo, allora tutto è finito».

 

Sapevo ciò che questo voleva dire, perché quando ero andata a Riga a rinnovare il mio passaporto - a quel tempo Washington non aveva ancora un'ambasciata nell'U.R.S.S. - avevo trovato delle persone nel consolato americano che impiegavano tutto il loro tempo a raccogliere dati sulla collettivizzazione sovietica attraverso le statistiche dei giornali locali sovietici. Poi mandarono al Dipartimento di Stato un rapporto di mille pagine. Gli stranieri predicevano il collasso dell'Unione Sovietica attraverso la carestia, e da più di uno Stato confinante giungeva notizia che gli eserciti venivano preparati per esser pronti a marciare.

 

Il 2 marzo 1930, quando le zone agrarie fondamentali ebbero compiuto la loro raccolta di sementi, Stalin fece la sua famosa dichiarazione sulla «Vertigine dei successo». Disse che la rapidità con la quale i contadini entravano nelle fattorie collettive aveva «dato le vertigini ad alcuni compagni». Ricordò a tutti che la partecipazione ai collettivi era volontaria e che la forma di fattoria collettiva raccomandata per quel periodo prevedeva solo la socializzazione della terra, degli animali da tiro e del macchinario di maggior mole, mentre rimanevano proprietà personale gli animali domestici come le mucche, le pecore, i porci, le galline. La dichiarazione fu riprodotta integralmente in tutti i giornali del paese, e milioni di copie ne circolarono in opuscolo. I contadini andavano in città e pagavano alti prezzi per l'ultima copia rimasta, per poterla sventolare in faccia agli organizzatori locali come la carta della loro libertà. Di colpo, Stalin divenne l'eroe di milioni di contadini, il loro difensore contro gli eccessi compiuti localmente. Stalin frenò rapidamente questa sorta di idolatria pubblicando le "Risposte ai compagni colcosiani", nelle quali si diceva: «Alcuni parlano come se Stalin da solo avesse fatto quella dichiarazione. Il Comitato centrale non permette... azioni simili da parte di un solo individuo. La dichiarazione era… del Comitato Centrale».

 

Fu in quelle condizioni, rese ancora più drammatiche dalla lunga guerra e dalle devastazioni che avevano quasi completamente annullato i pochi successi conseguiti nella coltivazione delle piante negli anni precedenti, che il governo sovietico decise di dare l’avvio a un grandioso programma volto a colmare il ritardo dell’agricoltura allo scopo, anche, di disporre delle risorse indispensabili a un intenso sviluppo industriale.

 

La realizzazione di questo programma fu affidata a Nikolaj Ivanovic Vavilov, fondatore della VASCHNIL (Accademia Pansovietica di Scienze Agrarie Lenin), nonché direttore dell’Istituto di Genetica dell’Accademia delle scienze dell’URSS e del VIRV (Istituto Pansovietico di Coltivazione delle Piante), una istituzione scientifica unica nel suo genere, che acquisì presto una fama mondiale. Vavilov si mise al lavoro sin dall’inizio degli anni venti e propose un ardito piano per la radicale riorganizzazione delle risorse dell’agricoltura sovietica, i cui punti fondamentali erano il miglioramento del livello della selezione e della produzione di sementi e il ricorso a tutte le conquiste della scienza e della pratica mondiale nell’attività di coltivazione delle piante. La base teorica di questo piano era costituita dall’idea, fondata sugli sviluppi della teoria di Mendel, che il patrimonio genetico di un organismo fornisca il meccanismo per la trasmissione di caratteristiche da generazione a generazione per mezzo dei geni.

 

Appellandosi a questa convinzione Vavilov proponeva di utilizzare, nella coltivazione delle specie vegetali, l’ampia varietà di caratteri e di forme delle piante coltivate e modificate dall’uomo e delle loro antenate, cioè sia i risultati del lavoro di innumerevoli generazioni di uomini, sia quelli che costituivano un dono naturale. Ne risultava la necessità di una ampia scelta di materiale di base, allo scopo di dotare lo studioso di coltivazione delle piante della necessaria opportunità di selezione creativa. Proprio in riferimento a questa esigenza Zores A. Medvedev ricorda:

 

Vavilov con un gruppo di collaboratori, si accinse ad attuare il progetto di raccogliere nell’URSS una grande quantità di materiale base per una selezione preparatoria che avrebbe dovuto riflettere la diversità tra le varie piante in tutto il mondo. Egli non mirava unicamente a mettere insieme questo materiale, ma a ordinarlo sistematicamente e a studiarlo in modo ampio dai vari punti di vista della fisiologia, della biochimica, della botanica, della genetica e dell’agronomia, per metterlo poi a disposizione di tutte le stazioni agronomiche e di tutti i coltivatori del nostro paese. Nello stesso tempo egli aveva intenzione di mettere a dimora varietà adatte di foraggi, di ortaggi e frutta tratti da questa ampia raccolta per introdurli e sperimentarli immediatamente, con la prospettiva di vantaggi economici rapidi e immediati. Per realizzare questo intento, venne creato, per iniziativa dello stesso Vavilov, un Istituto chiamato in seguito VIRV, con una rete di stazioni sperimentali distribuite su un’ampia estensione geografica. Fu per portare avanti questo lavoro che Vavilov iniziò verso il 1925 le sue famose spedizioni in tutti i più remoti angoli dell’Unione Sovietica, e poi in tutti i principali centri dell’agricoltura mondiale. In un breve periodo di tempo furono organizzate circa 200 spedizioni: i loro membri studiarono l’agricoltura e le risorse agricole di 65 paesi, portando nell’Unione Sovietica oltre 150.000 varietà, forme e tipi di piante, tutta la ricchezza creata nel campo della coltivazione delle piante dall’umanità nella sua storia secolare. Venne creata così la raccolta di tutte le piante coltivate nel mondo.

 

Lo sforzo che il governo sovietico fece per assecondare questo piano e garantirne la riuscita fu imponente: nel 1932-33 esistevano in URSS circa 1.300 istituzioni scientifiche attinenti alla scienza agricola, dalle piccole stazioni sperimentali sino ai grandi istituti: gli specialisti impiegati raggiungevano il numero di 26.000. Ma, come rileva lo storico David Joravsky del Centro di ricerche sulla Russia dell’università di Harvard in una sua opera intitolata The Lyssenko affair, questo imponente spiegamento di mezzi ebbe un effetto imprevisto «il fossato esistente tra la situazione arretrata dell’agricoltura russa e le raccomandazioni progressiste della scienza, si approfondì ancora di più». In effetti i risultati, sul piano dell’incremento della produzione agricola di questa concentrazione di mezzi e di risorse davvero imponente per un paese che risentiva ancora degli effetti della guerra civile, non potevano che essere considerati deludenti, se misurati con le speranze e le aspettative dei dirigenti politici al momento del varo del programma.

 

E questa discrepanza tra ampiezza dell’impegno teorico e risultanze pratiche non poteva non avere ripercussioni significative in un momento in cui cominciava a prevalere la tendenza a valutare la correttezza delle ipotesi scientifiche sulla base del successo delle applicazioni immediate a cui esse erano in grado di condurre.

 

Il dibattito sulla biologia e la genetica

 

Questa situazione dava fiato agli avversari della teoria genetica raggruppati soprattutto intorno all’Istituto biologico Timirjazev, i quali insistevano sull’indivisibilità dell’organismo, negando in particolare la possibilità di separare con qualsiasi mezzo le influenze ereditarie da quelle ambientali. Da questa posizione scaturiva, ovviamente, la messa in discussione del gene come materiale ereditario: «il conservatorismo della natura degli organismi», cioè il loro patrimonio genetico, secondo i seguaci di questa impostazione, poteva e doveva essere liquidato. Per spiegare il problema dell’eredità e della variazione negli organismi viventi, problema che sta al centro di tutta la biologia, in mancanza di ogni riferimento a eventuali mutazioni di un sistema genetico separato, localizzato nei cromosomi, e trasmissibile da generazione a generazione, ci si appellava a una concezione delle trasformazioni come effetto indiretto delle funzioni di adattamento oppure come risultato dell’azione diretta dei fattori fisici ambientali sugli organismi. Nell’uno e nell’altro caso, comunque per render conto del processo evolutivo veniva sostenuta la cosiddetta trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti, definita lamarckismo dal nome del biologo francese Jean Baptiste de Lamarck (1744-1829) anche se egli non ne fu, in realtà, il primo sostenitore.

 

La disputa tra gli assertori convinti delle conquiste della teoria genetica e i seguaci dell’ipotesi di Lamarck aveva, del resto, in Unione Sovietica origini lontane. Può essere interessante ricordare come lo stesso Stalin, in una sua opera giovanile intitolata Anarchia o socialismo, composta di una serie di articoli pubblicati nel giugno e luglio 1906 nel «Akhali Tskhovreba», avesse fugacemente fatto riferimento a tale controversia, mostrando già una certa propensione per la posizione dei fautori dell’eredità dei caratteri acquisiti. «La tavola periodica di Mendeleev», egli notava infatti in quell’occasione, «dimostra chiaramente la grande importanza dei cambiamenti qualitativi e quantitativi nella storia della natura. Questo è dimostrato anche in biologia dalla teoria del neolamarckismo, che sta soppiantando il neodarwinismo». Da segnalare altresì la posizione di Anatolij V. Lunaéarskij, commissario del popolo per l’istruzione pubblica, il quale era talmente convinto dell’incompatibilità della genetica con il marxismo-leninismo da fare realizzare un film, di cui egli stesso scrisse il commento, sul naturalista austriaco Kammerer, che aveva creduto di dimostrare l’eredità dei caratteri acquisiti.

 

Questi (ed altri) primi tentativi di stabilire una forma di contatto tra la dialettica da una parte, e la biologia e la genetica dall’altra, provocarono subito un’ampia discussione, che si concentrò quasi immediatamente attorno alla questione della «riducibilità» della forma biologica di movimento della materia a quella fisica e chimica: questione particolarmente importante e delicata, dal momento che coinvolgeva il problema della natura e dello statuto del metodo dialettico nelle sue relazioni con i metodi specifici di ricerca. Fu su questo problema, appunto, che divampò con accenti particolarmente accaniti quella disputa tra «meccanicisti» e «dialettici». La serrata polemica che i biologi, aderenti al gruppo di Deborin (A. S. Serebrovskij, N. P. Dubinin, S.G. Levit, I. I. Agol, M. L. Levin) condussero contro le «ristrette posizioni dei meccanicisti in fatto di ereditarietà e variazioni» cominciarono ben presto a indirizzarsi contro quella particolare varietà di meccanicismo, battezzata con il curioso termine di «meccanolamarckismo». In un articolo dal titolo Natura e struttura del gene, pubblicato sul n.1 del 1929 dalla rivista «Estestvoznanie i marksizm» Dubinin, ad esempio, prendeva posizione contro tutte quelle impostazioni che riducono l’evoluzione a «diverse combinazioni di sostanze ereditarie perpetuamente immutabili. Un simile punto di vista costituisce un’autentica negazione dell’evoluzione e rappresenta, nella sostanza, un ritorno alla concezione di Linneo sotto la copertura di una terminologia aggiornata».

 

Sottolineando che l’evoluzione «è, prima di tutto, un processo creativo», l’autore criticava, contemporaneamente, anche quelle idee della variabilità genetica e dell’evoluzione che mettevano in rilievo solo l’aspetto quantitativo, trascurando quello qualitativo. A suo avviso, invece, i due aspetti dovevano venire studiati nella loro reciproca connessione e considerati parte di un’unica totalità sistematica.

 

In un altro articolo, pubblicato nel numero 3 della stessa rivista, ancora Dubinin sottolineava come «tra lamarckismo e morganismo (dal nome di Thomas Hunt Morgan, primo genetista insignito del premio Nobel) non fosse possibile alcuna sintesi, dal momento che le principali concezioni della genetica si contrappongono in modo inequivoco al lamarckismo. Il morganismo e il lamarckismo sono concezioni del mondo tra loro contrapposte, ogni tentativo di combinarle può approdare solo a una forma di eclettismo. Per questo la lotta tra di esse dovrà essere condotta sino alla fine, cioè sino al momento in cui una delle due posizioni riuscirà ad avere ragione dell’altra: e occorre augurarsi che a spuntarla non sia il lamarckismo».

 

Commentando questa prima fase della discussione sulla genetica Ivan T. Frolov, in un’opera del 1968, intitolata Genetica i dialektika (Genetica e dialettica) osserva:

 

“Fra tutto il complesso di problemi che si trovavano in quel momento in primo piano, il significato e l’importanza di gran lunga maggiore lo ebbero non le questioni di carattere propriamente teorico, o filosofico generale, bensì quelle strettamente legate ai compiti pratici che si ponevano di fronte alla società sovietica. Dalla genetica ci si aspettavano direttive per lo sviluppo dell’agricoltura del paese, per il miglioramento del lavoro di selezione e di coltivazione delle sementi. Le crescenti esigenze del paese, che si ponevano in relazione con la necessità di costruire il socialismo, e le possibilità di un loro soddisfacimento, che si aprivano con l’avvio della politica di collettivizzazione, richiedevano con urgenza una revisione dell’attività di molte istituzioni scientifiche, un loro maggiore avvicinamento alla pratica. Questa necessità, di cui si aveva piena coscienza, finì col creare un nuovo tipo di situazione nelle discussione attorno alla genetica. E, se si fa astrazione da tutti gli altri elementi c’è un fattore che può essere sottolineato in modo particolare: non soltanto e non in forza di moventi soggettivi di vario genere, ma bensì anche obiettivamente la genetica nello stadio di sviluppo che aveva allora raggiunto non era pronta in misura completa a porsi come fondamento per la selezione. Ciò spiega il motivo per cui, sia in base a considerazioni di carattere teorico, sia (e soprattutto) in base a esigenze di carattere pratico (necessità di avvicinare la scienza alla pratica dell’agricoltura e dell’allevamento socialisti), fu fornito particolare appoggio all’attività di molti esperti nella selezione, che spesso assumevano spontaneamente posizioni diverse da quelle dominanti nella teoria genetica. Quest’ultima, soprattutto grazie all’attività di Vavilov e Serebrovskij, aveva fatto importanti passi avanti sulla via di un soddisfacimento delle esigenze pratiche sopra ricordate, ma non era tuttavia ancora riuscita a produrre effetti stabili e sensibili proprio in seguito allo stato di elaborazione in cui si trovava.

 

Per questo appariva chiaro che la necessità di porre la genetica a fondamento della selezione era un compito rivolto in gran parte verso il futuro, che richiedeva importanti mutamenti nelle basi sperimentali e teoriche di quella scienza, che per la verità, già attorno alla metà degli anni trenta si era sviluppata in modo intensivo.

 

Il nuovo tipo di discussioni sulla genetica e sulla sua relazione dialettica, che si accese con particolare asprezza nella seconda metà degli anni trenta, non potrebbe essere compreso senza riferirsi alle cause sopra accennate. Così come, senza appellarsi a queste ultime, non potrebbero essere capite le ragioni del successo delle posizioni teoriche di Lysenko e dei suoi sostenitori, che inizialmente si fecero avanti con una critica invero assai moderata della genetica, rivolta soprattutto contro alcune sue effettive insufficienze e debolezze (in particolare, la sottovalutazione del ruolo dei fattori esterni, a cui veniva contrapposta l’esigenza di un approccio di tipo complessivo allo studio dello sviluppo e delle variazioni degli organismi)…

 

I propositi di fondare una nuova “genetica basata sulle idee di Micurin”, che potesse pretendere di esercitare il suo monopolio sul materialismo dialettico, stavano evidentemente soltanto germogliando: quali poi siano stati gli effetti di questo tentativo, una volta che esso prese corpo, è ormai a tutti noto. Esso nella sostanza costituì una distorsione del materialismo dialettico e una sua deformazione in senso meccanicistico (meccanolamarckismo) in seguito alla quale la dialettica venne trasformata in un suo surrogato volgarizzato e banalizzato. “

 

Le teorie di Vavilov vengono contestate dai risultati di Lysenko

 

All’epoca di questa prima fase della discussione (1931‑32) Trofin Desinovic Lysenko era noto soprattutto per la scoperta della cosiddetta vernalizzazione o carovizzazione, una tecnica agronomica per mezzo della quale è possibile ottenere dei raccolti invernali seminando in estate. L’idea di questa tecnica gli era venuta tra il 1926 e il 1928 a Gandza. una stazione sperimentale dell’Azerbajdzan; mentre studiava l’influenza del momento in cui effettuare la semina sulla lunghezza del periodo vegetativo dei cereali. Tali ricerche gli consentirono di appurare che le varietà invernali seminate in primavera invece che in autunno producono le spighe dopo una esposizione preliminare del seme al freddo. La prima serie di questi esperimenti fu da lui pubblicata nel 1928 in una monografia intitolata Influenza della temperatura sulla lunghezza del periodo di sviluppo delle piante. L’anno seguente suo padre, che aveva una fattoria in Ucraina, dopo aver seminato in primavera delle sementi della varietà autunnale Ukrainka e averle fatte svernare sotto la neve, ottenne un raccolto di quasi 11 quintali per ettaro. Attorno a questo successo del padre venne organizzata una cospicua campagna di stampa, favorita anche dalle massicce perdite di raccolti invernali verificatesi in Ucraina nel 1927-28 a causa del gelo, che spingevano a vedere nella vernalizzazione l’unica possibilità di salvezza da ulteriori disastri.

 

Grazie a questi primi successi, Lysenko fu chiamato a prestare la sua opera presso l’Istituto di genetica e di allevamento di Odessa, dove, per decisione dei commissariati dell’agricoltura dell’Ucraina e dell’URSS, era stato creato uno speciale dipartimento per la vernalizzazione.

 

Le sue prime, significative incursioni nel campo della genetica risalgono al 1934-35 e furono in parte dovute all’influenza esercitata su di lui da I. I. Prezent, un filosofo che si occupava della metodologia dell’insegnamento delle scienze naturali nelle scuole secondarie e si considerava uno specialista delle teorie darwiniane. In un articolo del 1935, La selezione e la teoria dello sviluppo a stadi delle piante scritto, appunto, in collaborazione con Prezent, egli imputava alla genetica il fatto di avere

 

“abiologizzato, staccato da un’analisi di tipo biologico e darwinistico i fattori ereditari. La genetica non è assolutamente in grado di individuare le leggi di sviluppo dei caratteri, anzi, nella persona dei suoi rappresentanti ufficiali, non si interessa neppure di questo problema. Essa si limita semplicemente a rintracciare le regolarità della loro presenza o assenza fondandosi sull’astratta probabilità matematica di “imbattersi” in determinati fattori... Questo ci fa capire perché la genetica, abbia finito col descrivere una curva di sviluppo storico che l’allontana sempre più dalla dialettica interna della logica della conoscenza, imposta dal suo oggetto reale. Essa, infatti, non ha seguito un processo caratterizzato dalle seguenti tappe: individuazione delle leggi di sviluppo della base dell’eredità innanzi tutto nelle leggi generali dell’ontogenesi, nei suoi stadi, e solo a partire da questi ultimi negli organi e nei caratteri, non ha ritenuto, cioè di dover arrivare solo alla fine a stabilire le leggi del risultato più complesso dell’evoluzione, vale a dire i caratteri, ma ha cercato di pervenire a una diretta enucleazione delle leggi di correlazione dei caratteri e degli embrioni (i geni). Ovviamente, seguendo un tale processo di sviluppo, essa era destinata a rimanere essenzialmente una scienza formale, incapace di rispondere in misura adeguata alle esigenze della pratica della selezione e di rappresentare ciò che sarebbe stata obbligata a essere, vale a dire la base teorica capace di costituire un’autentica guida per l’azione“.

 

La polemica diventa uno scontro durissimo

 

Tra il 1936 e il 1939 la polemica raggiunse il suo culmine, assumendo aspetti di particolare interesse dal punto di vista del problema che stiamo trattando. Dal 19 al 27 settembre 1936 si svolse la IV sessione dell’Accademia di scienze agrarie Lenin che riunì un gran numero di ricercatori e di esperti in selezione e coltivazione. Le posizioni dei genetisti, in quella occasione, furono difese con particolare vigore da A.S. Serebrovskij e N.P. Dubinin.

 

Il primo, pur non sottovalutando i successi conseguiti da Lysenko nel corso della sua attività e mostrando di apprezzare soprattutto la stretta connessione, da lui sempre tenuta presente, tra teoria e pratica, dichiarò che, tuttavia,

 

“bisogna denunciare il fatto che la pur giusta e necessaria critica, che avrebbe dovuto tendere a istituire una corretta organizzazione delle pratiche di selezione e ad aiutarci a trovare la corretta funzione della genetica nell’ambito di tali attività pratiche, nonché a individuare le condizioni necessarie per il suo ulteriore sviluppo, ha spesso assunto forme del tutto inaccettabili e contrarie a ogni logica. Nella nostra agronomia e allevamento ha di nuovo ripreso quota il lamarckismo, tendenza arcaica, obiettivamente retrograda e per questo dannosa. Sotto la copertura di slogan che pretenderebbero di essere rivoluzionari e di combattere “contro la genetica borghese” “per l’autentica genetica sovietica” e “per il ristabilimento della vera teoria darwiniana” noi assistiamo a un furioso attacco contro i maggiori successi della scienza del XX° secolo e al tentativo di proiettarci indietro di almeno mezzo secolo. Per quanto buone e nobili possano eventualmente essere le intenzioni che hanno guidato la maggior parte dei nostri avversari, dobbiamo dire che la loro crociata, indirizzata lungo una via del tutto scorretta, costituisce sotto molti aspetti una semplice campagna scandalistica che sta già arrecando un notevole danno alla nostra economia, se non altro perché disorienta la parte non sufficientemente ferma e ben determinata della nostra gioventù. “

 

Proseguendo nella sua requisitoria, Serebrovskij osservò ancora che:

 

“le affermazioni secondo le quali la teoria dei cromosomi è una sciocchezza e il mendelismo un’assurdità non rappresentano affatto una “rivoluzione scientifica” ma sono soltanto il risultato di un’insufficiente conoscenza dei fatti e dell’incapacità di trarre le dovute conclusioni dai dati disponibili. A quelle ampie masse, che non hanno ancora avuto la possibilità di prendere conoscenza di tutti i materiali della genetica, occorre in tutti i modi cercare di spiegare tale teoria. Ma a colui che non si dà la pena di studiare a fondo il ricchissimo materiale accumulato dalla scienza, che è lì pronto per essere consultato e utilizzato, e ciò nonostante si arroga il diritto di considerarlo “controverso e discutibile” occorre ricordare quella rispettabile dama che andava ripetendo: “Astronomia, astronomia, che cosa sia l’astronomia, non è dato di sapere!”. Ma dal fatto che tale nobile dama non sapesse che cosa sia l’astronomia, non discende assolutamente che il movimento della Terra attorno al Sole ed altre conquiste di quella scienza siano controverse e discutibili.“

 

Dubinin, per parte sua, rilevò che la discussione a cui si stava assistendo non dava l’impressione di una controversia tra posizioni scientifiche contrapposte, ma ugualmente fondate e argomentate, bensì faceva pensare piuttosto al tentativo di «ficcare un berretto da buffone sulla testa di una scienza seria e rispettabile». Certo, occorreva riconoscere che anche alcuni genetisti avevano commessonon trascurabili errori di carattere scientifico o filosofico, che in particolare non pochi di essi avevano peccato di unilateralità. Ma - egli concludeva - non bisogna trarre da questo fatto conclusioni sbagliate.

 

“La scienza, ovviamente, è fatta dagli uomini, ma essa non si identifica con gli uomini. Il fatto che alcuni eminenti genetisti abbiano commesso e magari continuino a commettere degli errori non significa affatto che i fondamenti della genetica in qualche modo, siano viziosi e da rigettare... Noi dobbiamo certamente depurare la genetica da diverse posizioni erronee... In particolare è necessario condurre una seria lotta per l’affermazione delle concezioni e dei princìpi del materialismo dialettico nella teoria e nella pratica della genetica. Occorre, altresì, lottare per un darwinismo conseguente, di cui l’odierna genetica costituisca una delle parti integranti.“

 

Nel 1939 si ebbero due tappe importanti del dibattito: la seduta dell’ufficio regionale della sezione del lavoro scientifico del VIRV, tenutasi in marzo, e la discussione sui problemi della genetica, organizzata dalla rivista «Pod znameniem marksizma», che si svolse invece dal 7 al 14 ottobre. Nel corso della riunione al VIRV Vavilov tenne un discorso che offre lo spunto per diverse considerazioni:

 

“Un grave difetto specifico della nostra situazione è la discordia che si verifica attualmente nella scienza. Si tratta di una questione complessa. Noi siamo una istituzione molto ampia, che abbraccia l’immensità della scienza, il problema dei prodotti della coltivazione, la loro distribuzione, la loro introduzione nella pratica, la preparazione del terreno alla produzione agronomica, eccetera. La questione non riguarda tutta questa enorme quantità di cose, riguarda solo la genetica; ma questo è ora un argomento d’attualità, dato che i nostri concetti si sono ampliati di molto. Naturalmente, come sempre accade nella scienza, la soluzione ci verrà dalla sperimentazione diretta, dai fatti, ma questa è una operazione a lungo termine, specialmente nel nostro campo della coltivazione delle piante... Occorre dire che questo contrasto è molto serio. Io non posso entrare nei dettagli qui; dirò semplicemente che esistono due posizioni, quella dell’Istituto di Odessa e quella del VIRV. Si deve osservare che la posizione del VIRV è anche quella della scienza contemporanea mondiale, e che indubbiamente è stata sviluppata non dai fascisti, ma da comuni lavoratori progressisti... E se noi avessimo qui un uditorio composto dai più eminenti coltivatori, pratici e teorici, io sono certo che essi avrebbero votato con il vostro obbediente servitore, e non con l’Istituto di Odessa. Questo è un argomento complesso: e non può essere risolto con un decreto, neppure se venisse emanato dal Commissariato per l’agricoltura. Noi andremo al rogo, moriremo bruciati, ma non rinunceremo alle nostre convinzioni. Io vi dico, con tutta franchezza, che credevo, e credo ancora, e insisto sul fatto che quello che credo è giusto, e non solo credo ‑ perché nella scienza fare delle cose un articolo di fede è una sciocchezza ‑ ma dico anche quello che so sulla base di una vasta esperienza. Qui si tratta di un fatto, e ritrarsene semplicemente perché lo desidera qualcuno che occupa posizioni elevate è impossibile... La situazione è tale che, qualunque libro straniero prendiate, esso si pronuncia in senso contrario ai precetti dell’Istituto di Odessa. Ordinerete voi che questi libri vengano bruciati? Noi non lo tollereremo. Con tutte le nostre forze noi seguiremo quello che accade nella scienza progressista mondiale. Noi ci consideriamo sinceri darwinisti, perché il problema di conquistare le ricchezze del mondo, le risorse agrarie mondiali create dall’umanità, può essere risolto soltanto da questo punto di vista, e non ci lasceremo turbare dalle ingiurie di persone irresponsabili.“

 

Si trattava, come si può ben vedere, di un estremo, appassionato tentativodi ripristinare la linea indicata da Lenin. Alla base di esso stava la profonda consapevolezza che nessuna questione scientifica può venir risolta a colpi di «decreti comunisti», per quanto dall’alto essi provengano. Ma l’aspetto più importante della posizione qui espressa da Vavilov sta nella netta coscienza dell’impossibilità di giudicare la bontà delle teorie scientifiche sulla base dei risultati delle loro applicazioni immediate. La scienza è qualcosa di più della tecnologia, é qualcosa di più delle risultanze pratiche a cui conduce, la scienza è conoscenza della natura, «presa sulla realtà», elaborazione teorica capace di fornirci la sola attendibile immagine del mondo in cui viviamo: per questo essa fornisce spiegazioni la cui valutazione è, e non può che essere, un’operazione a lungo termine, un paziente lavoro di vaglio delle informazioni che esse forniscono di parziali rettifiche, di continui aggiustamenti tesi a una sempre maggiore approssimazione allo stato effettivo dei fenomeni indagati. Pretendere di sciogliere d’incanto questi nodi non è un atteggiamento scientifico, è voler fare della magia, innestare una corrente di acritico volontarismo nello studio di fatti che esigono rigore, stretta adesione a metodi ben precisati in tutte le loro componenti. La posta in gioco non è il semplice destino di una teoria, sia pure importante, come la genetica: la posta in gioco è la sorte della ricerca scientifica nel suo complesso. Se si fa della scienza un articolo di fede, se si abbandona quel minimo di «professionalità», di «specialismo» di «conoscenza dei termini di un problema» che, solo, può autorizzare a prendere posizione nell’ambito di essa e a giudicare della correttezza o meno delle sue acquisizioni, si finisce con l’appiattire ogni differenza fra scienza e ideologia, fra scienza e religione, addirittura fra scienza e ciarlataneria. Basta conoscere anche solo un poco le opere di Marx, quelle di Engels e di Lenin, per rendersi conto che non è certo questa la via da loro indicata. Basta pensare alla coscienziosa applicazione, all’intenso studio dei termini di ogni problema su cui si doveva prende posizione, di cui ciascuno di essi ha dato più di una prova, per capire che dilettantismo, i giudizi avventati, la fretta e l’approssimazione non sono mai state le bandiere sotto le quali il marxismo ha scelto di combattere le proprie battaglie. Così come non è dietro l’equiparazione della scienza a una suppellettile o a una macchina da giudicare sulla base della bontà degli usi che consente, che i classici del marxismo si sono trincerati nel momento in cui dovevano discutere di scienza e valutare la correttezza di un’ipotesi scientifica. Questo non vale solo per Lenin o per Engels, come potrebbe far piacere pensare a qualche fautore della «opportunità» di scindere il materialismo storico da quello dialettico, per non far gravare anche sul primo le «colpe» del secondo. Questo vale anche per Marx, il quale si è sempre curato di sottolineare il carattere sottilmente funzionale alla logica del capitalismo della riduzione della scienza ai suoi aspetti applicativi.

 

Lysenko, per tutta risposta, fece riferimento, senza mezzi termini, all’idea di una nuova genetica, edificata sulla base delle idee di Micurin, che doveva permettere di superare le posizioni dei «nipotini» di Mendel:

 

“i mendelisti-morganisti, rappresentanti della genetica “classica” (ma di quale classe si tratti, questo non viene detto), negli ultimi tempi si sono dedicati solo alla speculazione. Essi proclamano che i critici del mendelismo distruggono la genetica: non vogliono riconoscere che la sola, autentica genetica è costituita dalla teoria di Micurin... Bisogna proprio essere in cattiva fede o, perlomeno, non rendersi conto di ciò che si dice, per poter sostenere che Lysenko, Prezent e gli altri, che tengono in così alta considerazione la teoria di Micurin, distruggono la genetica. La verità è che noi, seguaci di Micurin, prendiamo posizione non contro la genetica, ma contro il ciarpame e le falsificazioni nella scienza e rifiutiamo le asserzioni forzate e i princìpi puramente formali del mendelismo-morganismo. La genetica d’indirizzo sovietico, che noi apprezziamo e che decine di migliaia di specialisti e di addetti all’applicazione pratica degli sunti teorici continuano a sviluppare, è la dottrina di Micurin. Quanto magri sono i progressi che questa genetica compie (e per quel che riguarda la scienza io sono un immodesto, e perciò dichiaro con orgoglio, che i successi conseguiti sono tutt’altro che pochi), tanto più difficile diviene per i mendelisti-morganisti mascherarsi sotto la scienza con falsificazioni d’ogni genere.“

 

E per quanto alla fine del suo discorso Lysenko invitasse i «mendelisti» a cessare la contesa, dichiarando che «tanto, per quante discussioni si facciano, io non mi convertirò mai alle vostre opinioni», da tutto il senso del suo intervento appariva chiaro che egli non intendeva affatto associarsi a quei propositi di «coesistenza», che venivano invece enunciati da Vavilov e dai suoi.

 

Il dato più rilevante e interessante di questo intervento di Lysenko è il costante richiamo agli «specialisti» e agli «addetti all’applicazione pratica degli assunti teorici». Questo appello a uno strato sociale assai particolare, quello dei quadri della produzione agricola nelle fattorie statali, nei kolkos modello, nell’apparato della pianificazione, nella burocrazia ministeriale, evidenzia un elemento assai importante per capire le ragioni dell’affermazione del lysenkismo.

 

Dominique Lecourt nell’opera intitolata Lyssenko. Histoire d’une science prolètarienne, pubblicata nel 1976 aggiunge:

 

“È Kislovskij a dichiarare, nel corso della sessione del 1948 della VASHNIL: “In che cosa consiste la forza di Lysenko? La forza di Lysenko sta nel fatto che egli è divenuto il capo ideologico dei lavoratori dell’agricoltura socialista”. E i “nuovi accademici” gli fanno eco precisando: la teoria micuriniana è quella di cui hanno bisogno i nostri migliori esperti, i “kolkosiani d’assalto” (Mihalevic): solo la dottrina di Micurin può “dare la fede nel comunismo” (Dmitriev).

 

Tutte queste formule sono rituali, repliche stereotipate della retorica ufficiale. Senza dubbio. Ma si avrebbe torto a ritenerle insignificanti. Esse sono al contrario di grande interesse perché convertono in termini di propaganda un fatto che è di primaria importanza per l’interpretazione del lysenkismo, il fatto cioè che esso costituiva il cemento ideologico degli elementi “più avanzati” dell’agricoltura socialista. Un termine deve qui attirare la nostra attenzione: quello di “ stacanovisti “ che, nel 1948, è costantemente impiegato per designare i seguaci di Lysenko. Con questo termine venivano originariamente denominati quei lavoratori che, come il minatore Stahanov, appunto, superavano gli standard della produzione e contribuivano al miglioramento della tecnica nella grande industria: ma subito dopo esso venne usato anche per indicare gli operai che avevano il privilegio d’un salario sensibilmente superiore alla media, che possedevano una istruzione tecnica e ricoprivano funzioni d’inquadramento, nell’organizzazione della produzione.

 

Qualificare i seguaci di Lysenko come “stacanovisti dell’agricoltura” ha dunque un senso preciso: equivale a designare uno strato sociale assai particolare, quello dei quadri della produzione agricola nelle fattorie statali, nelle stazioni di selezione e nei kolkos modello. Dire che Lysenko è il loro capo ideologico, significa dire che la sua teoria rappresenta la forma sistematica dell’ideologia di questo strato sociale…

 

Sembra che Lysenko abbia compreso perfettamente il vantaggio che poteva trarre da una situazione del genere e ne abbia approfittato, organizzando delle “inchieste” sull’efficacia delle sue tecniche per mezzo di questionariindirizzati direttamente a quei medesimi quadri della produzione che hanno cercato, in tutti i modi, di dissimulare i fallimenti laddove essi si manifestavano. Questi questionari ricevevano le risposte attese e il cerchio si saldava così su una ideologia che si “verificava” cimentando essa medesima l’accordo dello strato socialeche ne traeva profitto.“

 

Forse il torto maggiore dei genetisti fu quello di non rendersi conto di questo complesso intreccio di motivi anche politici, economici, sociali, e non soltanto teorici, che costituiva la sostanza del «lysenkismo». Essi diedero fino all’ultimo l’impressione di ritenere di trovarsi di fronte a una discussione di natura esclusivamente scientifica, come dimostra il fatto che le loro argomentazioni non fuoriuscirono mai dagli aspetti più propriamente culturali dell’intera vicenda. All’intervento di Lysenko sopra ricordato, a esempio, Dubinin, nel corso dello stesso dibattito del 1939, fornì una risposta chiaramente condizionata dall’illusione che fosse ancora possibile convincere il leader della corrente micuriniana della validità delle posizioni teoriche sostenute dai suoi avversari. Egli infatti dedicò una parte notevole del suo discorso a cercare di dimostrare a Lysenko che «il mendelismo, nella storia della biologia, ha svolto una funzione progressiva».

 

Il tragico epilogo dello scontro

 

Nell’agosto del 1940, Vavilov era stato arrestato: il 9 luglio dell’anno seguente il collegio militare del Tribunale supremo, che lo aveva giudicato, emise nei suoi confronti un verdetto di condanna per «appartenenza a una cospirazione di destra; spionaggio a favore dell’Inghilterra; direzione del partito laburista contadino; sabotaggio nell’agricoltura; rapporti con emigrati bianchi». Per questi reati fu condannato a morte: ma la sentenza, contrariamente alle abitudini, non fu eseguita immediatamente. Morì in carcere, di polmonite, il 26 gennaio del 1943: nel 1955fu riabilitato ufficialmente per accertata insussistenza dei reati attribuitigli. Anche alcuni fra i suoi più stretti collaboratori e amici furono arrestati e perirono poi in prigione. Queste perdite ebbero conseguenze di incalcolabile gravità per lo sviluppo della genetica in URSS: tanto più che ad esse andavano sommati l’ovvio disagio e le difficili condizioni ambientali in cui i genetisti superstiti si trovarono da questo momento in poi ad operare. Nonostante tutto, però, la maggior parte di essi continuò a difendere le proprie posizioni teoriche, a discutere, a partecipare a riunioni, congressi, assemblee di vario tipo per esporre e sostenere i propri punti di vista, malgrado fosse chiaro che ormai non di autentiche discussioni si trattava, ma di messinscene organizzate al solo scopo di celebrare una «verità» che «doveva» trionfare.

 

La prova migliore di questo stato di cose l’abbiamo leggendo lo stenogramma della già ricordata sessione del VASHNIL, tenutasi dal 31 luglio al 7 agosto del 1948. Essa fu inaugurata da un rapporto di Lysenko su La situazione nella scienza biologica e si concluse con una lettera dei partecipanti al dibattito al compagno Stalin, «capo del popolo e corifeo della scienza d’avanguardia». La testimonianza più viva e interessante a proposito dei criteri seguiti dagli organizzatori della riunione e del clima in cui essa si svolse è contenuta nel resoconto dell’intervento di B.M. Zavadovskij:

 

“Compagni, per prima cosa voglio spiegare il motivo per cui prima d’ora non ho ritenuto opportuno prendere la parola in questa sessione. Io penso che le condizioni in cui è stata organizzata questa assise non siano affatto normali, perché a tutti coloro che, a torto o a ragione, sono stati annoverati tra i weismaniani-morganisti non sono state offerte sufficienti possibilità di prepararsi e di essere in condizione di parlare in tutta libertà e secondo le loro capacità.

 

Basti dire che io ho appreso ufficialmente che questa sessione era stata fissata soltanto il 30 luglio, quando sono venuto qui per trasferirmi da una casa di cura all’altra, malgrado all’Accademia e alla sua direzione fosse perfettamente noto che ero ricoverato a Kislovodsk.

 

È vero che la notizia mi era già stata comunicata in via confidenziale dal compagno V., anch’egli in cura a Kislovodsk. Ma ritengo strano che a me, accusato di colpe così gravi, non sia stata data l’opportunità di prendere conoscenza delle tesi contenute nella relazione e non sia stata notificata in anticipo la data di apertura dei lavori.

 

Questa, a quanto sembra, è una sessione importante, in quanto ci si aspetta che ne esca l’indicazione della futura via di sviluppo della scienza biologica e un preciso resoconto del suo stato attuale. È mia profonda convinzione, tenuto conto di ciò, che sarebbe stato assai più normale e razionale concedere a tutti coloro che partecipano all’edificazione della scienza sovietica di poter offrire il loro migliore contributo, anziché creare preventivamente quell’atmosfera di sospetto e di discredito, che si è manifestata in modo particolare sulle pagine della “Literaturnaja gazeta”“.

 

La linea su cui ci si era attestati nel 1939 subì un sostanziale arretramento e il materialismo dialettico venne scopertamente utilizzato come semplice strumento di ratifica e giustificazione ideologica di un verdetto che era già stato pronunciato in altra sede, di una condanna che aveva ben altre motivazioni che la semplice non conformità alla linea indicata dai fondatori del marxismo. Questo ci fa capire quanto poco rispondente alla realtà dei fatti sia il giudizio formulato da Jacques Monod nella sua prefazione all’edizione francese dell’opera di Zores Medvedev L’ascesa e la caduta di T.D. Lysenko. Dopo aver evocato le tappe principali di quello che giudicava «l’episodio più strano e desolante dell’intera storia della scienza», il premio Nobel francese per la medicina e la fisiologia osservava:

 

“L’aspetto più rivelatore, per noi, di questi sorprendenti documenti era che l’autentico dibattito non verteva affatto sulla biologia sperimentale medesima, ma pressoché esclusivamente sull’ideologia o piuttosto sulla dogmatica. L’argomento essenziale (il solo in definitiva) instancabilmente ripreso da Lysenko e dai suoi sostenitori contro la genetica classica era la sua incompatibilità con il materialismo dialettico. Là era il vero dibattito, il fondo del problema, e su questo terreno, scelto da Lysenko ma che essi non potevano evitare, i genetisti russi erano evidentemente battuti in anticipo. Poiché è del tutto vero che la base fondamentale della genetica classica, la teoria del gene, invariante attraverso generazioni e ibridazioni, è incompatibile sia con lo spirito, sia con la lettura della dialettica della natura secondo Engels. Come d’altronde la teoria puramente selettiva dell’evoluzione era già stata formalmente negata da Engels in persona. Era quindi agevole, per converso, dimostrare - e Lysenko vi insisteva ugualmente in modo instancabile - che la biologia micuriniana, dal momento che “provava” l’eredità dei caratteri acquisiti e l’influsso dell’ambiente sul materiale ereditario, andava esattamente nel senso della dialettica materialista, l’illustrava di nuove e favolose scoperte e preparava un’autentica “presenza dell’idea nella realtà” biologica.“

 

Da questo punto di vista, allora, le cause dell’intera vicenda andrebbero fatte risalire a una «questione d’ideologia»: secondo Monod le posizioni di Lysenko sarebbero state conformi a una certa tradizione ideologica ben anteriore allo stalinismo propriamente detto, radicata nell’atteggiamento del marxismo nel suo complesso nei confronti della scienza. Crediamo che da quanto è stato detto finora, sulla base dei documenti prodotti e non limitandosi a enunciare semplici opinioni personali, risulti con una certa chiarezza la sostanziale insostenibilità di questa interpretazione di Monod. Certo, il richiamo alla correttezza ideologica, al rispetto dei princìpi del materialismo dialettico è abbondantemente presente in tutte le fasi principali di questo dramma. Ma da qui a ritenere che esso abbia costituito la causa determinante delle vicende accadute, da qui a pensare che l’origine vera dei mali della genetica sovietica, della morte di Vavilov e del trionfo di Lysenko si trovi nella Dialettica della natura o in Materialismo ed empiriocriticismo passa una certa differenza. L’ideologia che sta alla base di tutti quei fatti, come degli altri che hanno caratterizzato la storia sovietica di quel periodo, non è un’ideologia propriamente teorica, filosofica, è invece un’ideologia politica, ricalcata sulle esigenze pratiche di quel momento storico, elaborata avendo in mente un calcolo tattico, più che un disegno strategico, cioè una considerazione a corto raggio delle opportunità e delle necessità dell’immediato o del futuro prossimo, più che una lungimirante impostazione, quale quella enunciata e difesa più volte da Lenin. E questa ideologia politica, che non esitò a favorire in tutti i modi la costituzione di una «pseudoscienza», parallela a una scienza già pervenuta alla maturità, non era certo tale da prostrarsi di fronte a una filosofia, sì da venerarne i princìpi e sacrificare ad essi la valutazione dei fatti.

 

La dialettica subì la medesima deformazione della genetica

 

Fin dall’inizio il materialismo dialettico aveva cercato di proporsi come lo strumento teorico volto ad assecondare il movimento di contraddizioni e le tensioni che inevitabilmente sorgono all’interno delle diverse pratiche e nei loro rapporti reciproci, allo scopo di trarre da essi tutte le dovute lezioni e prenderne lo spunto per dare il via a nuove analisi. Nato come uno strumento volto a mantenere la tensione fra le pratiche sociali e teoriche esistenti, la loro critica e le prospettive nuove, esso doveva subire l’amara sorte di venire utilizzato come mezzo per spegnere ogni tensione e, con essa, ogni contributo critico, ogni dibattito libero e aperto.

 

Deformazione, come si vede, così radicale e profonda nei confronti del materialismo dialettico, così come la violenza del tutto analoga a quella che subì la genetica e che subirono altre scienze.

 

Solitamente la lotta senza quartiere condotta in Unione Sovietica contro la genetica viene fatta risalire alla sottovalutazione, ch’essa avrebbe operato, dell’influsso dell’ambiente esterno sullo sviluppo degli organismi. Questa sottovalutazione sarebbe da considerare rovinosa per la teoria marxista in quanto, come osserva in proposito Eugène Faucher,

 

“il progetto marxista‑leninista mira a creare un Uomo Nuovo, spontaneamente altruista e disinteressato: ma questo progetto diviene plausibile solo se può basarsi sul postulato dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, perché soltanto in questo caso un ambiente socialista può favorire l’apparizione dell’uomo socialista. Se ci si muove nell’ambito del mendelismo, al contrario, l’uomo di Stato può nutrire soltanto l’ambizione, assai più modesta, di mobilitare determinate riserve genetiche mantenute in letargo dall’ineguaglianza sociale.“

 

Se questa fosse la spiegazione sarebbe poi difficile arrivare a capire i motivi della lotta, ugualmente aspra anche se, indubbiamente, con conseguenze meno tragiche, condotta contro la teoria della relatività, la meccanica quantistica e altre teorie scientifiche lontane da una diretta relazione con il problema del rapporto uomo-ambiente. La verità, come ci mostrano piuttosto chiaramente i passi di Lysenko citati, è invece un’altra: quello che non soddisfa e spaventa, nella genetica, è piuttosto il ruolo che in essa assumono il caso e le leggi statiche. Così si spiega perché una condanna, operata a partire da questa motivazione, doveva poi finire fatalmente per coinvolgere anche le ultime acquisizioni della fisica, contrassegnate dalla medesima linea di sviluppo. Il nemico da battere, l’elemento «estraneo» che bisognava eliminare dalla ricerca scientifica era la casualità.

 

Indubbiamente un’impostazione di questo tipo, come del resto traspare chiaramente dalle stesse parole di Lysenko, era in parte dovuta alle esigenze concrete di disporre di una teoria dagli aspetti applicativi immediati, che orientasse e guidasse la pratica di fronte ai tremendi compiti che i bisogni sociali imponevano. In essa svolgeva quindi un ruolo importante quella concezione prettamente strumentalistica della scienza, su cui si è già avuto modo di attirare l’attenzione.

 

Ma c’era poi anche un’altra ragione, di carattere più squisitamente politico. Come si è detto, in quel periodo, il materialismo dialettico, da strumento volto ad assecondare lo sviluppo delle tensioni e contraddizioni emergenti dalla sfera della pratica, allo scopo di costruire un nuovo equilibrio meglio rispondente ai bisogni del momento, si era gradualmente trasformato in un mezzo di controllo di quelle stesse contraddizioni e tensioni. Ora è chiaro che per svolgere questa funzione in maniera realmente efficace esso doveva riuscire a proporsi come metodo atto a favorire una autentica, cioè rigorosa e «ordinata», programmazione del futuro.

 

Da concetto scientifico, avente una sua precisa validità in un ambito ben determinato e circoscritto, la «programmazione» si veniva così pian piano trasformando in categoria filosofica generale, tesa a postulare la possibilità, anzi, la necessità di una irreggimentazione e di un controllo dei fatti e delle spinte sociali. A partire da qui si può forse cercare di spiegare i motivi dell’accanimento, della violenza con cui si combatteva l’introduzione del concetto di «caso» nella scienza: la paura dell’«imprevisto», del «nuovo», del «diverso» insomma spingeva a combinare insieme, in un intreccio difficilmente risolubile, lotta politica e battaglia contro istanze scientifiche che apparivano eccessivamente «critiche», portatrici di una pericolosa dose di «fluidità».

 

Tutto ciò ci aiuta a capire, nella sua paradossalità, l’amaro destino che la ricerca scientifica ebbe nella società sovietica di quegli anni. Inizialmente, come abbiamo visto a proposito dei dibattiti sulla pianificazione economica, la «scienza» venne criticata in quanto portatrice di esigenze di eccessiva rigidità, di una troppo docile sottomissione ai «fatti», di un troppo marcato rispetto delle norme, di una troppo disciplinata adesione a «leggi» che pretendevano di avere un significato e una validità assoluti. Queste sue presunte caratteristiche mal si conciliavano con la spinta rivoluzionaria, con la tendenza ad assecondare quegli impulsi volontaristici che si riteneva potessero e dovessero essere in grado di piegare la tirannia della cosiddetta forza delle cose.

 

Poi, proprio mentre la scienza, attraverso nuovi processi in corso, ad esempio in genetica e nella fisica delle particelle subatomiche, acquisiva una dimensione più critica, si liberava sempre più di quelle incrostazioni positivistiche che avevano portato a vedere nelle sue leggi qualcosa di intangibile, un prototipo di conoscenza perfetta che avrebbe potuto subire ritocchi solo nel senso dell’estensione quantitativa, ma non in direzione di un approfondimento capace, magari, di ristrutturare i termini delle questioni già affrontate e «risolte», le spinte rivoluzionarie e gli impulsi volontaristici, nella società sovietica, venivano a perdere il loro potere di suggestione. Le esigenze della ricostruzione imponevano di affidarsi a strumenti meno duttili di quelli che tali impulsi potevano consentire e, d’altra parte, la volontà politica di controllare e disciplinare le spinte sociali induceva a orientarsi verso una difesa senza concessioni dell’oggettività e della piena capacità produttiva delle leggi scientifiche.

 

Queste preoccupazioni ed esigenze di controllo dei fenomeni della vita sociale spingevano verso una concezione della scienza e delle sue leggi di certo assai più vicina alle posizioni del materialismo meccanicistico che non a quelle del materialismo dialettico. La circostanza, del resto, era stata giustamente messa in rilievo da B. M. Zavadovskij nel corso della sessione della VASHNIL del 1948:

 

“Nelle opere di Lysenko si possono rilevare diversi passaggi dove egli afferma esplicitamente e in tutta chiarezza di non accettare la categoria di caso come una forma di legge riconosciuta dalla dialettica materialistica... Come bisogna intendere tale fatto? Perché, in fin dei conti, noi desidereremmo venir convinti onestamente che Lysenko non vuole obbligarci a mutare da cima a fondo il nostro modo di concepire la dialettica materialistica. Nei suoi interventi ci imbattiamo in una completa negazione della casualità. Ora noi impariamo l’a b c del marxismo nelle opere dei classici del marxismo‑leninismo, i quali ci insegnano a ragione, a considerare il caso come una forma di manifestazione delle leggi naturali. Tutti questi elementi fanno emergere contraddizioni inconciliabili e provocano un’accentuata confusione nella società sovietica: e tali difficoltà non possono essere risolte ricorrendo a mezzi d’intervento del tipo di quelli che si sono registrati qui. Esse esigono un esame più serio e approfondito e un aiuto fraterno nei confronti di coloro che stanno seguendo una falsa strada.“

 

Sulla legittimità e pertinenza di queste osservazioni di Zavadovskij sarebbe estremamente difficile nutrire dubbi: per farlo bisognerebbe proprio chiudere gli occhi di fronte a diversi passi particolarmente espliciti, del tipo di questo, ad esempio, tratto dalla Dialettica della natura, in cui Engels scrive:

 

“Un’altra opposizione in cui è impigliata la metafisica è quella di casualità e necessità. Che cosa può esser in contraddizione più acuta di queste due determinazioni del pensiero? Com’è possibile che l’una e l’altra si identifichino, che il casuale sia necessario e il necessario a sua volta casuale? Il senso comune, e con esso la grande maggioranza degli scienziati, tratta necessità e casualità come due determinazioni che si escludono l’un l’altra una volta per tutte. Una cosa, un rapporto, un processo, o è casuale o è necessario, ma non l’una e l’altra cosa insieme. Ambedue sussistono quindi l’una accanto all’altra nella natura; essa contiene ogni sorta di oggetti e di processi, dei quali gli uni sono casuali, gli altri necessari; il problema è soltanto quello di non confondere i due tipi tra di loro. E dopo di ciò si dichiara che unicamente il necessario ha interesse scientifico, e che il casuale è indifferente alla scienza... Cioè, tutto ciò che si può ricondurre a leggi generali passa per necessario, e ciò che non sì può, per casuale. Ognuno vede che questa è scienza della stessa specie di quella che spaccia per naturale ciò che riesce a spiegare e si libera di ciò che per essa è inspiegabile attribuendolo a cause soprannaturali; rimane completamente indifferente per la sostanza della cosa il fatto che io chiami caso la causa dell’inspiegabile o che la chiami Dio. Tutt’e due le espressioni sono un modo di dire: io non so, e non appartengono perciò alla scienza. Quest’ultima cessa, là dove viene a mancare il nesso necessario.“

 

Il ruolo globale del materialismo dialettico nella scienza Sovietica

 

Oltre a non avere nessun fondamento la tesi secondo la quale il materialismo dialettico avrebbe soffocato la ricerca scientifica in URSS, essa addirittura stravolge completamente i fatti, perché non vi è alcun dubbio sul progresso senza precedenti nella cultura, nell’istruzione e nella scienza in Unione Sovietica (nonché nella produzione), che divenne punto di riferimento non solo per il movimento operaio internazionale, ma per i migliori intellettuali e scienziati occidentali.

 

Stephen Jay Gould, che ha fornito un importante contributo alla teoria dell’evoluzione corrente, è uno dei pochi scienziati dell’occidente che hanno apertamente riconosciuto il parallelo tra la sua teoria degli “equilibri punteggiati” e il materialismo dialettico.

 

Nel suo libro Il pollice del panda, ha scritto quanto segue:

 

“Se il gradualismo rappresenta un prodotto della cultura occidentale, piuttosto che un fatto di natura, allora dovremo cercare una nuova filosofia del cambiamento per allargare il nostro orizzonte oltre i confini del pregiudizio. In Unione Sovietica, ad esempio, gli scienziati si basano su di una teoria del cambiamento completamente diversa: le cosiddette leggi della dialettica riformulate da Engels sulla filosofia di Hegel. Le leggi della dialettica hanno molto in comune con il concetto di equilibrio per punti. Esse parlano ad esempio della «trasformazione di quantità in qualità». Questo potrebbe apparire confuso, ma suggerisce che i cambiamenti avvengono attraverso grandi salti in seguito ad una lenta accumulazione di sforzi a cui il sistema oppone la sua resistenza fino a che non ha raggiunto il punto di rottura. Scaldate l’acqua e alla fine essa bollirà; opprimete i lavoratori e dai e dai scoppierà una rivoluzione. Eldredge ed io siamo rimasti affascinati dalla scoperta che molti paleontologi sovietici sostengono un modello molto simile ai nostri equilibri punteggiati.”

 

Paleontologia e antropologia sono, dopo tutto, separate solo da una sottile parete dalle scienze storiche e sociali, e questo ha implicazioni politiche potenzialmente pericolose per i difensori dello status quo. Come osservò Engels, più ci si avvicina alle scienze sociali, meno obiettivi e più reazionari essi diventano. È dunque un buon segno che Stephen Gould si sia avvicinato così tanto a un punto di vista dialettico, nonostante la sua ovvia cautela.

 

Il biologo russo Aleksandr Ivanovic Oparin nel 1924 scrisse il saggio scientifico Origine della vita. L’opuscolo fu il primo tentativo di approccio moderno all’argomento, che aprì un nuovo capitolo sulla comprensione della vita. Non fu un caso che, come materialista dialettico, Oparin studiò il problema da una prospettiva originale. Era un inizio coraggioso, all’alba della biochimica e della biologia molecolare.

 

Dello studio di Oparin, Isaac Asimov scrive:

 

(...) in esso il problema dell’origine della vita per la prima volta veniva considerato dettagliatamente da un punto di vista completamente materialista. [Poiché l’Unione Sovietica non è ostacolata dagli scrupoli religiosi ai quali l’Occidente si sente vincolato, questo, forse, non ci deve sorprendere.] (la parte fra parentesi quadre si trova nell’edizione inglese del testo di Asimov, ma non nella versione italiana! Che in un paese cattolico come l’Italia non si possa ammettere che l’ateismo in Unione Sovietica abbia contribuito allo sviluppo della scienza?)

 

Ma vediamo nell’ambito della pedagogia, l’approccio del materialismo dialettico in URSS e poi confrontiamolo con quello sviluppatosi negli USA.

 

Il grande pedagogo sovietico Vygotsky non credeva affatto che l’insegnante dovesse operare un rigido controllo su cosa esattamente i bambini stessero imparando. Come Piaget, egli considerava l’attività svolta dai bambini la parte centrale della loro educazione. Invece di “incatenare” i bambini ai banchi, dove essi meccanicamente cercano di imparare cose che per loro non hanno nessun senso, Vygotsky sottolineava il bisogno di un autentico sviluppo intellettuale. Ma questo non può essere concepito in un vuoto sociale. In una società autenticamente socialista, l’istruzione verrebbe legata all’attività creativa pratica sin dall’inizio, rompendo così le avvilenti barriere tra lavoro intellettuale e manuale. In molti modi, Vygotsky era in anticipo sul proprio tempo. I suoi metodi educativi mostravano una grande immaginazione, per esempio, nel permettere ai bambini di imparare l’uno dall’altro: Vygotsky dichiarava di usare un bambino più avanzato per insegnare a un bambino rimasto indietro. Per molto tempo questo venne usato come base di un’istruzione marxista egalitaria nell’Unione Sovietica. Il principio socialista era che tutti i bambini lavoravano insieme per il bene di tutti, invece di quello capitalista in cui ogni bambino tenta di avere più benefici possibili dalla scuola senza contribuire per nulla. Il bambino più brillante aiuta la società aiutando il bambino meno brillante, dato che quest’ultimo sarà più utile alla società avendo imparato a leggere e scrivere piuttosto che diventando un adulto analfabeta. Vygotsky sosteneva che questo atto non presuppone un sacrificio da parte del bambino più avanzato; spiegando e aiutando altri bambini, anche lui poteva arrivare a una comprensione molto più profonda del suo proprio sapere, su linee metacognitive. E insegnando un argomento, consolidava il proprio sapere.

 

Vygotsky, attraverso l’interpretazione del materialismo dialettico applicato alla pedagogia sosteneva che:

 

“Il processo di crescita non è una progressione lineare dall’incapacità alla capacità; perché un neonato possa sopravvivere, deve essere capace di farlo come neonato, non come versione, ridotta nella taglia, dell’adulto che diventerà. Lo sviluppo non è un processo meramente quantitativo, ma un qualcosa di più complesso in cui si hanno trasformazioni qualitative: dal succhiare al masticare cibi solidi, per esempio, o dal comportamento sensomotorio a quello cognitivo.“

 

Solo gradualmente, dopo un periodo lungo e difficile di correzione e apprendimento, il bambino smette di essere una matassa di sensazioni e di ciechi appetiti, un essere indifeso, acquista coscienza e si emancipa. È proprio questa aspra lotta per passare dall’inconscio al conscio, dalla completa dipendenza dall’ambiente al dominio su di esso, a suggerirci l’idea dell’evidente parallelismo esistente tra lo sviluppo del singolo bambino e quello della razza umana. Sarebbe sbagliato, naturalmente, pensare che il parallelismo individuabile sia strettissimo, dato che ogni analogia è valida solo entro limiti definiti. Ma è difficile negare la conclusione che tali parallelismi nei fatti esistano, almeno riguardo taluni aspetti: dal più basso al più alto, dal semplice al complicato, dall’inconscio al conscio sono infatti movimenti che ricorrono continuamente nello sviluppo della vita.

 

Forse che soltanto pochi di noi sono in grado d’imparare a muoversi oltre i confini del senso comune, e ad agire con successo in tale direzione? Io ne dubito. Mentre può avere un certo senso il supporre che ognuno di noi possieda un certo «potenziale intellettuale» geneticamente determinato (e in tal caso gli individui sarebbero sicuramente diversi sotto questo aspetto come in altre cose), non c’è motivo di credere che la maggior parte di noi - o ognuno di noi, se vogliamo - non riesca ad avvicinarsi all’attuazione di quanto noi siamo capaci di fare. E non è nemmeno certo che abbia molto senso il ragionare nei termini di limiti massimi. Infatti, come fa osservare Jerome Bruner, vi sono strumenti della mente, come strumenti delle mani, e in entrambi i casi lo sviluppo di un nuovo strumento potente comporta la possibilità di liberarsi dalle vecchie limitazioni. Secondo una linea di pensiero simile, David Olson dice: «L’intelligenza non è qualcosa che noi abbiamo, ed è immutabile; è qualcosa che noi coltiviamo agendo per mezzo di una tecnologia, o qualcosa che noi creiamo inventando una nuova tecnologia».

 

E in questa categoria di strumenti oggi vi rientrano anche i prodotti della cosiddetta realtà virtuale, che purtroppo, molto spesso, sono solo sofisticati (e a volte frivoli e dannosi) giocattoli, ma che hanno un potenziale incredibile, non solo per la produzione e la progettazione, ma anche per l’istruzione. Tutto dipende da chi ne detiene la gestione.

 

Dunque, se il socialismo può sbagliare (e ciò è certamente vero e non ne avevamo alcun dubbio), l’errore, per quanto grave, avviene nell’ambito dialettico delle contraddizioni che muovono le cose: esso non è voluto dalla filosofia del materialismo dialettico! E dagli esempi sopra descritti emerge l’innegabile evidenza di questo. Diversa è la situazione che si presenta nella realtà capitalista, retta da una filosofia completamente diversa, dalla quale discendono proprie leggi e regole che travalicano l’eventuale volontà dei suoi operatori: il capitalista che sfrutta il lavoro salariato, vi è “costretto” come tale (indipendentemente dalla sua personale volontà) dalle leggi spietate della concorrenza. Non può effettuare una “libera” scelta al di fuori o al di sopra del contesto in cui opera, altrimenti come capitalista verrebbe sopraffatto e quindi per la propria sopravvivenza (come singolo, come classe, e per il potere economico e politico che la sua società gli promette), si trova costretto-disposto all’accettazione delle imprescindibili regole che arrivano perfino, quando ciò diventa necessario, ad imporgli di perpetrare ogni genere di infamia contro l’umanità e ad organizzare “scientificamente”, pur tra molte contraddizioni, tutta l’impalcatura ideologica, filosofica e pseudoscientifica necessarie per la perpetuazione della sua oppressione di classe al resto dell’umanità.

 

In definitiva, se esiste la possibilità che il materialismo dialettico possa essere utilizzato in modo strumentale e quindi contro gli interessi dell’umanità che dovrebbe tutelare, questo avviene nell’ambito delle possibilità come un errore; il capitalismo invece, attraverso le proprie regole di competitività e individualismo, finalizzate all’accumulo illimitato di potere e ricchezza personali, è di per sé stesso criminogeno, ovvero generatore di criminalità! Ma torneremo su questi aspetti in un altro documento.

 

Evoluzione biologica, cultura e genetica

 

Alla luce di quanto appena accennato e dalla lettura delle pagine seguenti, dovrebbe apparire evidente che le posizioni conservatrici e reazionarie del capitale, pur se intrise di pseudo scientificità non sono il frutto di errori o di casualità avulse dal sistema sociale nel quale avvengono, ma ne sono le colonne portanti necessarie per riprodursi. Sono modelli culturali e comportamentali divulgati con ogni mezzo (naturalmente tutti nelle mani dei più potenti) così come è stato diffuso il razzismo, che non è affatto un sentimento “innato” nell’uomo come si vuol far credere (e molti, infatti, credono), ma è una necessità “culturale” vitale per una società che deve crearsi un consenso fra i propri cittadini per poter effettuare impunemente anche il più bieco sfruttamento (o sterminio, secondo necessità) di altri popoli. Una cosa è certa: nessuno dei crimini che andremo a descrivere nelle prossime pagine può essere attribuito al materialismo dialettico, neppure per errore! Altro che “il caso Lysenko”!

 

Un indubbio esempio di uso reazionario della scienza è dato da chi sostiene che il comportamento degli esseri umani è determinato dai geni posseduti da ogni individuo e che, di conseguenza, l’intera società umana è governata dal risultato della somma dei comportamenti degli individui che la compongono. Questa sorta di guida genetica della vita umana è equivalente alle vecchie idee che si facevano scudo dell’espressione “natura umana”. Ancora una volta gli scienziati possono contestare che questa interpretazione non corrisponde a quello che essi vorrebbero esprimere, ma è un fatto che le loro dichiarazioni pubbliche traboccano di idee deterministiche e di geni “entità fisse inalterabili” tutti concetti ripresi molto volentieri dai peggiori reazionari. Per questi ultimi, infatti, le disuguaglianze sociali non sono belle, certo, ma purtroppo sono innate ed inalterabili; ad esse non si può ovviare con l’intervento sociale, poiché sarebbe quasi come “andare contro natura”! Un’idea del genere è stata perfino sostenuta da parte di Richard Dawkins nel suo libro The Selfish Gene (Ilgene egoista), adottato come testo di studio nelle università nordamericane.

 

In realtà, il meccanismo evolutivo è condizionato dall’interrelazione dialettica tra i geni e l’ambiente, l’evoluzione umana ha sia una propria “natura”, che una propria “storia”, la materia prima, genetica, è posta in relazione dinamica (dialettica) con l’ambiente sociale, economico e culturale, ed è impossibile comprendere il processo evolutivo considerando isolatamente l’aspetto “biologico” o quello “culturale”, poiché esiste una stretta interrelazione tra di essi.

 

È stato dimostrato in modo esauriente che le caratteristiche acquisite (derivate dall’ambiente) non vengono trasmesse per via biologica. La tradizione culturale è trasmessa da una generazione all’altra solo per mezzo dell’esempio e dell’insegnamento. È proprio questa una delle caratteristiche fondamentali che distinguono qualitativamente la società umana dal resto degli animali, anche se alcuni elementi di tale processo sono riscontrabili anche nei primati superiori. Negare il ruolo dei geni nello sviluppo umano è impossibile, e ciò non è affatto in contraddizione con il materialismo. Ne conseguirebbe, dunque, che “tutto è nei geni”? A questo proposito citiamo le parole del noto genetista Theodore Dobzhansky:

 

“La maggior parte degli evoluzionisti contemporanei sono dell’opinione che l’adattamento di una specie al suo ambiente sia l’agente principale che sospinge e dirige l’evoluzione biologica (…). La cultura è tuttavia uno strumento di adattamento molto più efficace dei processi biologici che condussero al suo sorgere e al suo progredire; più efficiente fra l’altro, perché più rapido. I geni mutati si trasmettono solo ai discendenti diretti degli individui in cui apparvero per primi e, per sostituire i geni vecchi, i portatori dei nuovi debbono gradualmente superare per numero e soppiantare gli altri; il cambiamento di cultura, invece, può essere trasmesso a chiunque, indipendentemente dalla parentela biologica, o essere prese tal quale da altri popoli.“

 

I biologi distinguono le caratteristiche dell’organismo in due categorie: il genotipo, cioè il corredo genetico, e il fenotipo, ovvero le caratteristiche quali appaiono. Si tratta di un errore diffuso il considerare la relazione tra tali categorie come una relazione semplice di causa-effetto. Il genotipo, si dice, viene prima del fenotipo, perciò costituisce l’elemento cardine nell’equazione. Nasciamo con un determinato corredo genetico immodificabile e ciò decide il nostro destino in modo tanto certo quanto la posizione dei pianeti in astrologia. In realtà il genotipo, ovvero i geni che si trovano nel nucleo di ogni cellula, è più o meno fisso, se trascuriamo qualche mutazione casuale. Invece il fenotipo, ovvero l’insieme complessivo delle proprietà morfologiche, fisiologiche e comportamentali dell’individuo, non è fisso, bensì cambia costantemente nel corso dell’esistenza a causa dell’interazione tra il genotipo e l’ambiente e del fenotipo stesso con l’ambiente: in altri termini, è il prodotto dell’interazione dialettica tra l’organismo e l’ambiente. Se Albert Einstein fosse nato in un sobborgo povero di New York o in un misero villaggio dell’India, non c’è dubbio che il suo potenziale genetico avrebbe contato molto poco.

 

Gli studi di genetica forniscono la risposta conclusiva all’idealismo. Nessun organismo può esistere senza un genotipo e nessun genotipo può esistere al di fuori di un continuum spazio temporale, ovvero un ambiente. I geni interagiscono con l’ambiente nel dar vita al processo di sviluppo umano. Senza alcun dubbio se l’ereditarietà genetica fosse perfetta, non potrebbe esistere evoluzione, poiché l’ereditarietà è una forza conservatrice, un semplice meccanismo di autoriproduzione dell’esistente. Esiste, però, una contraddizione insita nei geni, nel caso in cui venga prodotta occasionalmente una copia imperfetta, cioè una mutazione. Tali casualità possono essere infinite, e la maggior parte di queste possono essere non solo inutili, ma addirittura dannose per l’organismo.

 

Una singola mutazione non può trasformare una specie in un’altra. Le informazioni contenute in ogni gene non restano lì isolate, ma entrano in contatto con il mondo fisico, nel quale vengono provate, elaborate, articolate e modificate. Se una particolare variante fornisce una proteina migliore di un’altra, in un dato ambiente, essa prospererà soppiantando le altre. Ad un determinato stadio dell’evoluzione, variazioni anche di minima entità raggiungono un livello qualitativamente significativo, così da creare una nuova specie.

 

Il ruolo dei codice genetico è cruciale nello stabilire la “struttura” dell’essere umano, mentre l’ambiente agisce nella formazione del comportamento e della personalità; i processi non sono isolati, ma si completano dialetticamente per produrre l’individuo con le sue caratteristiche peculiari. Non possono esistere due persone identiche.

 

L’eugenetica: ovvero la repressione pseudoscientifica

 

Ma gli interessi economico-politici, a dispetto dei fatti, hanno partorito e alimentato l’eugenetica quale strumento per diffondere teorie reazionarie i cui sostenitori colsero al volo l’opportunità per rafforzare il loro messaggio deterministico utilizzando strumentalmente studi di pedagogia (come quelli realizzati da Binet) su bambini di varie età, concludendo che l’intelligenza sarebbe stata da considerarsi innata e fissata ereditariamente, in stretta corrispondenza con la classe sociale e l’origine razziale. Quando Lewis Terman introdusse i test Stanford-Binet negli Usa, lo fece per dimostrare che l’intelligenza limitata è molto comune tra le famiglie indo-ispaniche, messicane del sudovest, e fra i negri. Le argomentazioni furono le seguenti:

 

“La loro ottusità sembra essere proprio della razza o, almeno, collegata alla stirpe dalla quale provengono... I bambini di questo gruppo dovrebbero essere segregati in classi speciali... Non sono capaci di padroneggiare le astrazioni, ma possono frequentemente diventare degli operai efficienti... Non c’è, al momento, alcuna possibilità di convincere la società che non dovrebbe essere loro permessa la riproduzione, nondimeno da un punto di vista eugenetico essi rappresentano un grave problema, data la loro insolita prolificità.“

 

Di simile avviso, in relazione all’uso dei test, erano anche i funzionari dirigenti dell’istruzione pubblica statunitense; il passo immediatamente successivo fu quello di estenderne l’applicazione, stabilendo uno standard per gli adulti ed individuando un rapporto tra età mentale ed età fisica per mezzo del test del “Quoziente d’Intelligenza” (QI).

 

In Gran Bretagna fu lo psicologo Sir Cyril Lodowic Burt a tradurre e a svolgere la stessa azione di alfiere del test di Binet, con fervore addirittura maggiore rispetto ai suoi colleghi nordamericani, pretendendo di dimostrare, sulla base di millantati studi, che gli uomini sarebbero più intelligenti delle donne. Lo stesso signore proclamò di essere in possesso di prove scientifiche inoppugnabili del fatto che i cristiani sarebbero stati più intelligenti degli ebrei, gli inglesi degli irlandesi, gli inglesi ricchi degli inglesi poveri, e così via. Guarda caso, Burt era ricco, maschio, inglese e cristiano! Così gli oppressori giustificano l’oppressione e i ricchi e i potenti giustificano i loro privilegi: in base alla convinzione che le loro vittime siano da considerarsi “inferiori”. Per oltre 65 anni, fino alla sua morte nel 1971, Burt continuò ad occuparsi di eugenetica e dei test QI, debitamente onorato e riverito per i servigi resi all’umanità. Contribuì, infatti, alla concezione e alla definizione del famigerato sistema educativo “eleven plus” che, in Gran Bretagna, segregava i bambini ripartendoli tra due tipi di scuole medie. Burt sentenziò:

 

“La capacità deve necessariamente limitare il contenuto: come una tazza da una pinta non può contenere più di una pinta di latte, così un bambino non può raggiungere risultati scolastici migliori di quanto permetta la sua capacità di apprendimento.“

 

I test di Binet, dunque, vennero stravolti per inasprire il carattere di classe della società. Essi non erano più volti ad aiutare i bambini, bensì a segregare gli uni dagli altri. C’era chi nasceva per lavorare in miniera e chi nasceva per dominare la società. Comunque vengano modificati, i test QI sono tutti il prodotto di uno stesso principio secondo il quale una preconcetta “intelligenza” costituirebbe il modello di riferimento a cui tutte le altre devono essere comparate. Tali test sono pesantemente influenzati dagli stereotipi culturali e sociali dominanti, in base ai quali viene determinato il risultato, e da criteri puramente finalizzati al rendimento scolastico.

 

L’idea che sia possibile individuare o misurare l’intelligenza in un modo talmente rozzo è assolutamente sbagliata. Che cos’è l’intelligenza, come si può quantificare? Non si tratta di misurare il peso o l’altezza. L’intelligenza non è statica, come sosteneva Burt, ma dinamica; inoltre il potenziale del cervello umano è illimitato. Il compito della società dovrebbe proprio essere quello di permettere che tale potenziale si esprima al meglio. Le situazioni ambientali che l’individuo incontra possono influenzare notevolmente, positivamente o negativamente, lo sviluppo di tale potenziale. Un bambino cresciuto in condizioni sociali disagiate non potrà essere che svantaggiato rispetto ad uno che sia cresciuto avendo a disposizione tutto ciò di cui avesse bisogno.

 

Cambiare l’ambiente sociale nel quale il bambino cresce significa cambiare il bambino: al contrario di quello che pensano i genetisti di scuola determinista, l’intelligenza è priva da predeterminazioni genetiche. L’ossessione di rappresentare statisticamente l’intelligenza per mezzo della curva a forma di campana è un ulteriore tentativo di rafforzare il conformismo sociale. Chi non rientra nella norma è ritenuto “anormale” e quindi bisognoso di “cura”. Si afferma che sono i geni a determinare a quale classe o razza apparteniamo, ovvero determinare la nostra vita. Ma in realtà, mentre è vero il fatto che il nostro genotipo è fisso, il fenotipo cambia continuamente: la perdita di un braccio o di una gamba è irreversibile, ma non geneticamente trasmissibile; il morbo di Wilson è ereditario, ma non irreversibile se curato con i farmaci opportuni.

 

Negli Stati Uniti, la cosiddetta “terra della libertà”, ebbe luogo il trionfo del movimento per l’eugenetica con l’adozione di leggi che costringevano alla sterilizzazione gli individui ritenuti “biologicamente inferiori”. Lo stato dell’Indiana approvò per primo una legge sulla sterilizzazione nel 1907. Su segnalazione di un gruppo di esperti, tutti gli individui considerati pazzi, idioti o ritardati avrebbero subìto la sterilizzazione. Settant’anni fa, John Scopes insegnava l’evoluzione delle specie ricorrendo ad un manuale intitolato A Civic Biology, opera di G. W Hunter, che riportava al suo interno l’infame caso di Jukes e Kallikaks. Nel capitolo Parasitism and Its Cost to Society: the Remedy (Il parassitismo ed il suo costo sociale: la cura) l’autore affermava:

 

“Centinaia di famiglie simili a quelle appena descritte conducono oggi la loro vita e contagiano di malattia, immoralità e crimine ogni parte di questo paese. Il costo che l’intera società paga per la loro esistenza è molto alto. Esattamente allo stesso modo in cui alcuni animali o piante crescono come parassiti a scapito di altri, tali famiglie sono diventate i parassiti della società. Non solo queste famiglie danneggiano gli altri corrompendoli, rubando o diffondendo malattie, ma sono addirittura protette dallo stato con il denaro pubblico: gli ospizi per i poveri e i manicomi esistono in larga misura per loro. Siamo di fronte a veri e propri parassiti.

 

Se tali persone fossero animali inferiori probabilmente li stermineremmo così da evitarne la proliferazione. L’umanità non lo permette, ma dobbiamo comunque provvedere separando i due sessi nei manicomi o in altri posti, evitare con ogni mezzo i matrimoni tra di essi e le occasioni favorevoli alla proliferazione di tale razza inferiore e degenerata.“

 

Nell’infame “processo delle scimmie” del 1925, Scopes fu riconosciuto colpevole di aver insegnato la teoria dell’evoluzione, in contravvenzione alle leggi dello Stato del Tennessee. Il processo addirittura sostenne le leggi antievoluzioniste di quello Stato, le quali non vennero abolite fino al 1968.

 

Non più tardi degli anni Trenta, oltre 30 stati nordamericani avevano adottato leggi sulla sterilizzazione, estendendone l’applicazione a drogati ed alcolizzati e, in alcuni casi, perfino ai ciechi ed ai sordi. Tale campagna raggiunse il proprio apice nel 1927, quando la Corte Suprema, con otto voti contro uno, confermò la validità della legge sulla sterilizzazione della Virginia nel caso Buck contro Bell. Ilcaso riguardava una ragazza bianca di diciotto anni, Carrie Buck, rinchiusa contro la sua volontà nella Colonia statale per epilettici e minorati, la quale fu la prima persona ad essere sterilizzata conformemente alla nuova legge. Secondo la testimonianza di Harry Laughlin, sovrintendente dell’Ufficio del registro per l’eugenetica (il quale avrebbe voluto eliminare “quel decimo della popolazione attuale più inutile”), la ragazza fu scelta perché lei, la madre e la sorella erano tutte mentalmente handicappate per motivi genetici. I dati provenivano in gran parte dal test QI Stanford-Binet che si rivelò poi completamente erroneo. Il giudice, tale 0. W. Holmes, sentenziò che “tre generazioni di idioti sono già sufficienti”. Anche Doris, sorella di Carrie, subì a sua insaputa lo stesso trattamento previsto dalla legge. La figlia di Carrie, Vivian, che mori nel 1932 a causa di una malattia, venne descritta dai suoi insegnanti come una bambina “brillante”.

 

Nel gennaio 1935, circa ventimila sterilizzazioni forzate erano già state eseguite negli Usa per scopi eugenetici. Laughlin avrebbe voluto includere nella rete anche “senzatetto, barboni e mendicanti”, cosa che venne attuata con maggior zelo dalla Germania nazista, dove l’Erbgesundheitsrecht portò alla sterilizzazione di circa 375 mila persone, compresi 4 mila tra ciechi e sordi. Negli Usa si arrivò a 30 mila persone sterilizzate contro la loro volontà.

 

L’eugenetica classica è stata ormai screditata ma ne sono emerse forme nuove, come la psicochirurgia, la quale sostiene l’ipotesi che, con interventi chirurgici sul cervello, possono essere alleviati alcuni problemi sociali, in particolare la violenza. Due psicochirurghi statunitensi, Vernon Mark e Frank Ervin, arrivarono al punto di sostenere che le rivolte urbane erano causate da cittadini con problemi mentali (Amigdala alterata) e avrebbero potuto essere affrontate per mezzo di interventi di chirurgia cerebrale sui leader dei ghetti. Numerose ricerche in questo settore della biologia vengono tuttora finanziate da diversi dipartimenti della giustizia degli Stati Uniti.

 

Una lettera inviata nel 1971 al direttore degli istituti di correzione, Agenzia Relazioni Umane di Sacramento, da parte del direttore delle cliniche e degli ospedali del Centro medico dell’Università della California illustra la mentalità di settori di quella comunità impropriamente denominata “scientifica”. Cercando candidati idonei per la chirurgia mentale, vengono richiesti detenuti che abbiano dimostrato un “carattere violento, distruttivo, sospetto risultato di gravi disturbi neurologici” per compiere “procedimenti diagnostici e chirurgici... al fine di localizzare i centri neuronali, precedentemente danneggiati, dai quali possano essere partiti gli impulsi per episodi di condotta violenta” e rimuoverli chirurgicamente. Nella risposta venne suggerito un candidato internato e trasferito per “crescente combattività, capacità di comando e dichiarato odio per la società dei bianchi (...). È stato identificato come uno dei leader dello sciopero dell’aprile 1971 (...). È inoltre provato il fatto che abbia letto, a quell’epoca, una quantità incredibile di materiale rivoluzionario. “Idiozie ideologiche di questo tipo sono la copertura teorica della più becera reazione politica”.

 

Nel 1980il dottor K. Nelson, neo-direttore dell’ospedale di Lynchburg, quello in cui Carrie Buck fu sterilizzata, scoprì che erano state effettuate oltre 4.000sterilizzazioni, le ultime delle quali risalgono al 1972. I test QI usati nel caso Buck sono stati confutati da lungo tempo, ma, nonostante ciò, le idee reazionarie che sostenevano la sterilizzazione forzata non sono affatto relegate alle “epoche oscure” del remoto passato, ma sono ancora oggi vive, sostenute da teorie pseudo-scientifiche, specialmente negli Usa. Ancora oggi, in questa nazione, leggi a favore della sterilizzazione obbligatoria compaiono nella legislazione di 22 stati.

 

La percentuale di detenuti sulla popolazione, negli Stati Uniti, è più che triplicata dall’inizio degli anni ‘70. In Gran Bretagna tale percentuale è a livelli da record e le prigioni sono talmente piene che alcuni detenuti sono alloggiati presso i commissariati di polizia o rinchiusi in appositi cassoni galleggianti. “La Gran Bretagna ha la percentuale di detenuti più alta di tutti i paesi del Consiglio d’Europa eccetto l’Ungheria”, scrive il Financial Times (10 marzo 1994). Ciononostante il numero di reati gravi rimane alto in entrambi i paesi. Questa crisi ha dato spazio al fiorire di teorie reazionarie che cercano di legare il comportamento criminale a fattori biologici. “A fronte di ogni riduzione dell’1% dei reati la nazione risparmia 1,2 miliardi di dollari”, sostiene lo psicologo americano Adrian Raine. Come conseguenza di ciò il bilancio dell’Istituto Nazionale per la Sanità statunitense ha accresciuto gli stanziamenti, per ricerche sulla violenza, fino alla considerevole cifra di 58 milioni di dollari. Nel dicembre 1994,inoltre, la National Science Foundation ha proposto di dar vita ad un consorzio quinquennale di ricerca su questi temi, proponendo lo stanziamento di altri dodici milioni di dollari. “Con il passo in avanti che contiamo di fare grazie alla ricerca, saremo presto in grado di individuare molte persone che sono biologicamente inclini alla violenza”, sostiene Stuart Yudofsky, presidente del dipartimento di psichiatria presso il Baylor College of Medicine, sulle pagine di Scientific American del marzo 1995.

 

Il problema della detenzione, e soprattutto per quanto riguarda gli Usa, apre un nuovo capitolo: negli Stati Uniti le ditte commerciali che utilizzano interi penitenziari per la produzione sono addirittura quotate in borsa. Quindi: nuova forma di profitto, manodopera a costo zero, nessuna “riabilitazione”, incremento della repressione-detenzione.

 

In determinati circoli di discussione sembra diventato di moda attribuire le più diverse tipologie di fenomeni a disordini genetici o biologici, piuttosto di riconoscere che i problemi sociali sono frutto delle stesse condizioni sociali. La scuola del determinismo genetico ha prodotto ogni sorta di conclusioni reazionarie, riducendo a problema di ordine genetico ogni problema sociale. Non è passato molto tempo da quando sembrava che i ricercatori avessero scoperto in molti criminali violenti un cromosoma Y in più rispetto al normale corredo genetico; studi più recenti dimostrano che la relazione non è pertinente. Ora, all’ordine del giorno della ricerca in materia, c’è una presunta minore attività riscontrata nella parte frontale della corteccia cerebrale degli assassini, subito individuata quale possibile legame fra biologia e violenza. È stata avanzata la proposta di un progetto, denominato Federal Violence Initiative, che consisterebbe nello schedare almeno centomila bambini dei sobborghi urbani “i cui sospetti difetti genetici e biochimici ereditati li predispongono alla violenza nella vita adulta”.

 

Il pericolo di ricerche pilotate, volte a dimostrare collegamenti tra razza e comportamenti antisociali o criminali, è sempre presente. Negli Usa solo il 12,4% della popolazione è costituito da afroamericani, ma questi ultimi rappresentano il 44,8% delle persone arrestate per reati gravi. Queste sono le statistiche, ma da esse è facile ricavare conclusioni ingannevoli. Nello stesso articolo di Scientific American silegge: “C’è motivo di preoccupazione nel fatto che studi biologici, che pretendono di essere obiettivi, ignorando ciecamente le differenze sociali e culturali, possano erroneamente rafforzare gli stereotipi razziali”. A causa di questa minaccia, si sono verificati boicottaggi in opposizione al prelievo di campioni di sangue ed urina dalle minoranze razziali. Perciò, secondo Raine, “tutti gli studi biologici e genetici condotti finora sono stati eseguiti su soggetti bianchi”.

 

Raine continua:

 

“Immaginate di essere il padre di un bambino di otto anni. Il dilemma etico che vi si pone è questo: potrei dirvi: «Abbiamo effettuato un’ampia gamma di esami e possiamo prevedere, con un margine di certezza dell’80%, che vostro figlio diventerà un pericoloso criminale entro i 20 anni. Possiamo offrirvi una serie di programmi di intervento a livello biologico, sociale e di apprendimento, che ridurrebbero parecchio la possibilità che diventi un pericoloso criminale». Cosa fareste? Permettereste che vostro figlio venisse iscritto in quei programmi, rischiando di identificarlo come un criminale pericoloso anche se c’è una reale possibilità che non lo sia affatto? O rifiutereste il trattamento, accettando il fatto che, con una probabilità dell’80%, vostro figlio, diventando adulto, a) distrugga la sua vita; b) distrugga la vostra vita; c) distrugga la vita dei suoi fratelli; d), più importante di tutto, distrugga la vita di chi, vittima innocente, abbia a soffrire per colpa sua?“

 

In primo luogo non è assolutamente possibile prevedere un futuro comportamento criminale in un bambino, per non parlare di una previsione precisa all’80%. In secondo luogo in questo modo si fa ricadere la colpa del comportamento criminale esclusivamente sull’individuo. Una tale impostazione reazionaria non si cura del fatto che criminalità, violenza e tutti gli altri mali sociali sono il prodotto del tipo di società nel quale viviamo, basata sullo sfruttamento dell’uomo e sulla massimizzazione del profitto, che producono disoccupazione di massa, randagismo sociale e povertà diffusa, assoluta indifferenza per la vita. Sono queste condizioni sociali a loro volta che producono crimine, violenza e brutalità. Ciò non ha nulla a che vedere con motivazioni biologiche, bensì dipende interamente dalla barbarie della società capitalistica.

 

I biologi deterministi sono utilizzati per puntellare idee sociali reazionarie. Essi sostengono che la criminalità, la povertà, la disoccupazione, ecc. non sono un prodotto della società, ma dell’individuo che ha geni difettosi o una struttura biologica difettosa. La soluzione, di conseguenza, si trova nella neurochirurgia o nell’ingegneria genetica.

 

Altri, per spiegare la violenza umana, puntano il dito sul livello anomalo del testosterone o sul battito cardiaco rallentato. Alcuni scienziati puntano il dito sul basso livello di serotonina, sostanza chimica che agisce, tra le altre cose, sul funzionamento del cervello. A questo proposito C. R. Jeffery ha affermato sul Journal of Criminal Justice Education che “elevando il livello di serotonina nel cervello, è possibile ridurre il grado d’inclinazione alla violenza”; così fiale di serotonina, come l’antidepressivo Prozac, sono somministrate a pazienti per curarne l’aggressività. La falsità di tale teoria è resa evidente dal fatto che il livello di serotonina può aumentare o diminuire nelle diverse parti del cervello, in momenti diversi, con effetti diversi. Anche l’ambiente può incidere su tali variazioni. Tuttavia, questi fatti non sono ammessi nel ragionamento e non impediscono a questi personaggi di fare proclami offensivi pur di dare sostegno alle loro teorie reazionarie. Jeffery si dichiara convinto che “la scienza deve dirci quali individui diventeranno dei criminali quali diventeranno le vittime, e quali strategie legislative saranno più efficaci”.

 

Yudofsky rincara la dose: “Siamo all’inizio di una rivoluzione nella medicina genetica. In futuro arriveremo a comprendere la genetica dell’aggressività e a identificare coloro che hanno maggiori tendenze a diventare violenti.” È convinto del fatto che i bambini iperattivi vadano sottoposti a controlli e, se necessario, vengano loro somministrati beta-bloccanti, anticonvulsivi o litio. Yudofsky sostiene che tali farmaci sarebbero efficienti dal punto di vista dei costi e rappresenterebbero un’incredibile “opportunità per l’industria farmaceutica”.

 

Non è difficile capire da chi prenda lo stipendio il signor Yudofsky!

 

Il razzismo è un concetto classista

 

La diversità tra gli individui è tale da rendere privo di significato il concetto di razza a livello genetico. Non esiste alcun «fondamento scientifico» per le teorie che attestano la superiorità genetica di un qualsiasi popolo su di un altro. Quelle che noi vediamo come differenze razziali, tra africani ed europei, per esempio, sono soprattutto adattamenti alle diverse condizioni climatiche, avvenuti mano a mano che gli uomini si spostavano da un continente all’altro. Inoltre, il luogo di nascita dell’umanità è l’Africa, che fu il punto di partenza delle prime migrazioni umane, e ciò dimostra che la separazione dal ramo africano è la più antica nell’albero genealogico dell’umanità. L’uso di teorie di provenienza biologica o genetica per dare copertura scientifica a politiche reazionarie non è un fenomeno nuovo, e tuttavia da una decina d’anni questo fenomeno ha avuto un’ampia diffusione, grazie alla tendenza generale dei governi occidentali di smantellare lo stato sociale e tutte le altre conquiste della classe lavoratrice. La legge del mercato - ovvero la legge della giungla - ètornata di moda. Ovviamente ciò vale anche per le università, che abbondano di personaggi sempre disposti a nuotare secondo la direzione prevalente della corrente, il che poi non arreca alcun danno alle loro carriere. Ci sono comunque molti accademici onesti che cercano di accostarsi ai loro studi con atteggiamento distaccato, oggettivo, ma sarebbe sicuramente ingenuo pensare che una persona, solo perché plurilaureata, sia immune dalle pressioni della società nella quale vive, che sia cosciente di questo o no.

 

La ricerca scientifica in tema di genetica ha dato la possibilità di identificare disfunzioni genetiche responsabili, ad esempio, del morbo di Huntington, della distrofia muscolare di Duchenne o di altre malattie determinate da fattori genetici; ciò non giustifica le frequenti dichiarazioni che in qualche misura attribuiscono ai geni la responsabilità di ogni sorta di comportamenti o della criminalità. Il determinismo genetico trova la causa di tutti i problemi sociali a livello della genetica.

 

Nel febbraio del 1995 si tenne a Londra una conferenza sul tema Genetica dei comportamenti criminali e antisociali. Dieci tra i tredici oratori provenivano dagli Stati Uniti dove, tre anni prima, il progetto di una conferenza dello stesso tipo, dai toni spiccatamente razzistici, non si era realizzato per le pressioni dell’opinione pubblica. Se da un lato il presidente del convegno, Sir Michael Rutter del London Institute of Psychiatry, aveva dichiarato che “non può esistere nulla di simile ad un gene della criminalità”, altri partecipanti, come il dott. Gregor Carey dell’Istituto di Genetica del Comportamento dell’Università del Colorado, sostennero pubblicamente l’opinione che fattori genetici, complessivamente, sarebbero responsabili del 40-50% degli atti di violenza criminale. Sebbene questi ammettesse l’impraticabilità di “trattare” la criminalità per mezzo dell’ingegneria genetica, altri si dicevano sicuri dell’esistenza di buone prospettive per lo sviluppo della ricerca su farmaci che potessero controllare l’eccessiva aggressività, una volta individuati i geni responsabili. Carey, ad ogni modo, suggerì che si mettesse in conto la possibilità di ricorrere all’aborto nei casi in cui test prenatali sul feto dimostrino l’attitudine genetica del neonato alla violenza e al comportamento antisociale.

 

È significativo sentire parlare disinvoltamente di comportamenti antisociali in una società che, basando la sua spinta propulsiva sulla ricerca del massimo profitto, pone gli uni contro gli altri in una incessante lotta alla sopravvivenza, incalzando l’aggressività competitiva e l’egoismo all’esasperazione, giustificando che tali attitudini sono parte geneticamente condizionata della “natura umana”! Nel dare una risposta a questa idiozia, ricordiamoci che il capitalismo e i valori che esprime si sono affermati da circa 200 anni, ma la storia dell’uomo documentata dalla scrittura ne abbraccia oltre cinquemila e lo sviluppo umano ha coperto un arco di centomila anni. La società umana, nella quasi totalità della sua esistenza, si è fondata sul principio della collaborazione. Infatti gli esseri umani non avrebbero potuto elevarsi sopra il livello delle bestie senza sviluppare tale capacità. Dunque la competizione, lungi dall’essere una componente essenziale della psiche umana, è un fenomeno relativamente recente nello sviluppo dell’umanità, reso possibile dalla sua suddivisione in classi e sviluppatosi quale riflesso di una società orientata alla produzione di merci, tale da stravolgere e pervertire la natura umana secondo linee di comportamento che nel passato sarebbero state screditate in quanto innaturali.

 

È fin troppo facile addossare la responsabilità della morale egocentrica del mercato ad un qualche fenomeno misterioso, quale i “nostri geni”. Le differenze culturali non sono causate da geni diversi, ma dalla storia sociale.

 

Il problema non è di natura “zoologica”, ma di classe!

 

I capitalisti competono tra loro e non esitano davanti a nulla pur di liquidare un concorrente: mentire, ingannare, speculare, ricorrere allo spionaggio industriale, all’insider trading (compraretitoli disponendo di informazioni riservate di un’azienda) e alle rapaci scalate in borsa, tutte azioni considerate normali nella pratica commerciale. Dal punto di vista della classe operaia le cose sono invece molto diverse; qui non si tratta più di morale individuale, ma di sopravvivenza sociale l’equivalente sociologico della formula della “sopravvivenza del più adatto”, dal momento che l’unica forza che la classe operaia può contrapporre ai padroni è quella dell’unità, cioè la forza della collaborazione.

 

Priva di organizzazione, la classe operaia non è altro che materia grezza da sfruttare. La necessità che i lavoratori hanno di unirsi per difendere i loro interessi è una lezione che deve essere appresa ripetutamente. L’egoismo o l’individualismo nel senso borghese del termine, è per la classe operaia autolesionismo. Ogni crumiro viene presentato dalla stampa borghese come un difensore della “libertà individuale”, proprio perché è preciso interesse dei padroni quello di atomizzare la classe operaia, ridurla alle sue singole unità costitutive e porle alla mercé del capitale. In questo caso, soprattutto, trova applicazione la legge dialettica secondo cui il tutto è superiore alla semplice somma delle parti. In modo consapevole o meno, chi presenta l’egoismo come un ideale o, in ultima analisi, come parte essenziale della “natura umana” ha preso una posizione ben definita nella lotta tra lavoro salariato e capitale, e non può lamentarsi se viene criticato perché porta acqua al mulino delle peggiori correnti conservatrici.

 

Conclusioni

 

Naturalmente, quanto fino qui esposto non può essere inteso come esaustivo di nulla, tantomeno si tratta di misurare con una qualche ipotetica bilancia dove risiedano gli aspetti più negativi: se nel caso Lysenko o nell’uso classista della genetica negli Usa. Il problema non si pone nei termini di verificare la quantità degli errori, o abusi, che da una parte o dall’altra possano essere stati commessi e quindi far cadere la nostra preferenza sul “meno peggio”. Il problema essenziale risiede negli aspetti ideologici delle due società in cui si sono manifestati i fatti esposti che, se non vengono colti, non ne è possibile una valutazione complessiva. Le vicende legate a Lysenko sono accadute quando la genetica era ancora molto giovane e non tutto il mondo accademico aveva una visione precisa e univoca su di essa; oltretutto la difficile situazione della vita dei cittadini sovietici imponeva soluzioni immediate e quelle presentate da Lysenko davano indubbiamente i risultati migliori a breve scadenza; comunque l’aspetto più significativo ai nostri fini, rimane il fatto che ogni parte della contesa si proponeva l’obiettivo della soluzione dei gravi problemi della società, di conseguenza ammesso anche ipoteticamente che Lysenko fosse stato in mala fede e quindi mosso da sentimenti egoistici, ha comunque dovuto nasconderli, camuffandoli dietro la dichiarata volontà di lavorare per il bene della comunità. Quindi, scientificamente, un errore insito nelle contraddizioni dialettiche delle cose, la cui gravità deve anche evidenziare come sia possibile, e dannoso, un uso distorto o strumentale del materialismo dialettico.

 

Quanto esposto invece sull’uso pseudoscientifico della genetica negli Usa evidenzia un accanimento di classe, e conseguentemente razzista, che continua anche ai giorni nostri. Quindi non legato ad un contesto storico di conoscenze non ancora affermatesi definitivamente nell’ambiente accademico, ma portante di una società fondata sulla competizione e quindi sui privilegi dei vincitori e le conseguenti privazioni per i perdenti. Non “errori insiti nelle contraddizioni dialettiche”, ma esigenze vitali della società capitalista per perpetuare il suo dominio colonizzatore, dominatore, occidentale e bianco, proposto come modello di società, come concezione del mondo, scientemente disumanizzata, dove 12 milioni di bambini non dispongono della quantità minima di calorie necessarie e un uomo nero che vive ad Harem ha meno possibilità di raggiungere i 65 anni di un abitante del Bangladesh.

 

Bibliografia

 

A chi volesse approfondire gli argomenti trattati o comunque a tutti quanti fossero interessati ad una ottima lettura raccomandiamo vivamente i libri sottoelencati, dai quali abbiamo tratto la documentazione necessaria alla stesura del presente testo.

 

Non intendiamo comunque coinvolgere nessuno nelle esposizioni, valutazioni e conclusioni riportate nel presente documento che rimangono nostre.

 

- “Storia del pensiero filosofico e scientifico” di Ludovico Geymonat. Garzanti Editore.

- “La rivolta della ragione” di A. Woods & T. Grant. AC Editoriale.

- “Il libro nero del capitalismo” AAVV. Marco Tropea Editore.

- "L'era di Stalin" di Anna Louise Strong. Edizioni Rapporti Sociali.

 

Documento a cura di Roberto Zanetti - www.ezeta.net/homosapiens