Il testo di Gianni Vattimo e Massimo Zucchetti Heidegger e la bomba atomica: ovvero la scienza deve pensare. Per un seminario su "Se la scienza non pensa" pone una giusta esigenza, a partire però da uno spunto fallace.
Lo spunto è una frase di Martin Heidegger, filosofo metafisico tedesco che è stato probabilmente il più grande critico del pensiero scientifico e dello sviluppo tecnologico nell'Occidente novecentesco. Va sottolineato l'ambito in cui si espresse quella opposizione: parliamo dell'Occidente, e parliamo del pensiero novecentesco, non di altro; i due contesti, spaziale e temporale, si sono intersecati perfettamente in Heidegger e nella Germania di quell'epoca – l'epoca hitleriana. Il movimento nazionalsocialista fu, da un lato, la massima espressione del rigetto decadente per il pensiero razionale e la modernità e, dall'altro, il tentativo estremo di riconquistare supremazia ed egemonia culturale e valoriale all'Occidente stesso, nel suo cuore storico-culturale europeo, cristiano e germanico.
Heidegger non fu un politico, ma la sua filosofia – raffinato esito delle correnti antimoderne sviluppatesi già da fine ottocento – lo condusse non solo ad aderire al nazionalsocialismo, ma – cosa ancora più straordinaria e significativa ad avviso di chi scrive – a propugnare l' "abbandono al destino", come esito naturale di una concezione dell' "essere al mondo" tutto sommato somigliante a quella dell'antico stoicismo greco o di certe correnti del pensiero orientale, al punto da praticamente non muoversi mai da casa: questo grandissimo filosofo non volle infatti mai allontanarsi dal suo microcosmo svevo, non viaggiò mai, fece una conoscenza tutta libresca del mondo attorno. Questa fu la sua scelta di vita ed il suo peculiare fanatismo.
La profonda conoscenza di Heidegger da parte di Vattimo è cosa arcinota, anche se il filosofo italiano negli ultimi anni ha percorso strade diverse e, dinanzi alle enormi questioni, drammi e conseguenti responsabilità che pone il presente, si è allontanato da quel "pensiero debole", derivazione fin de siècle (sec. XX, s'intende) del nichilismo e dell'ontologia ermeneutica che in Heidegger ebbero un alto rappresentante. Per quanto Vattimo sia parzialmente tornato ad aderire alla "filosofia della prassi" marxista nell'ultima dozzina d'anni, gli rimane evidentemente quella fascinazione su cui noi materialisti dialettici, ci dispiace, non possiamo transigere.
«Heidegger (...) non ha affatto intenzioni denigratorie nei confronti della scienza»
Bontà sua. Però, appunto, Heidegger nega alla scienza addirittura la abilità di "pensare":
«La scienza, invece, dovrebbe pensare, o perlomeno essere aiutata a farlo»
Noi crediamo invece che il vero "pensiero" sia quello scientifico, nel senso che ragionare è formulare teorie e le sole teorie usabili per risolvere i problemi del mondo in cui viviamo sono quelle fondate sul confronto con la realtà, cioè quelle teorie che non derivano solo deduttivamente da qualche assunto, più o meno labile, più o meno argomentativamente lontano, bensì piuttosto che si inducono anche dalla osservazione e che con i fatti sperimentali stanno in continuo rapporto dialettico. Enunciazioni di altra natura, non scientifiche, possono avere il loro valore in ambiti diversi da quello dei risoluzione dei problemi comuni: ad esempio, una poesia o un quadro hanno un valore rappresentativo o auto-rappresentativo, così come una preghiera o una formula superstiziosa hanno una funzione consolatoria, e possono avere anch'esse una valenza (auto)rappresentativa, descrittiva, manipolatoria e quindi estetica, agendo su corde della natura umana che non c'entrano con le abilità risolutorie tecnico-pratiche.
«L'indubbio successo del metodo scientifico, e dello "spingere avanti la frontiera della conoscenza", fraintesa essere quella esclusivamente materiale, ha portato al nascere di una sorta di franchigia, quasi un territorio franco: la ricerca, la scienza, si occupano di acquisire nuove conoscenze, che risulteranno comunque – assommate – in un progresso, contribuiranno in qualche modo al "Progresso"...»
Quante volte abbiamo sentito queste storie negli ultimi 100 o 150 anni? Troppe.
Quale conoscenza esiste se non quella "materiale"? Nessuna. Le enunciazioni che non riguardano fatti materiali – "materiali" in senso lato, cioè nel senso di fenomeni reali, che possono anche accadere in ambito storico, psicologico, statistico, estetico, eccetera – non sono "conoscenza". Che cosa dovremmo conoscere se non ciò che è reale?
E che noia, e che barba questa critica al "Progresso con la P maiuscola"! E che cosa c'entra con la conoscenza, cioè con la scienza, il fatto che al mondo sembra andare tutto a rotoli?
I problemi della "moralità della scienza" sono forse di ben altro carattere, rispetto a quelli esposti da Vattimo e Zucchetti. I problemi non risiedono né nel metodo, né nella presunta amoralità del "fare scienza" in se. Forse che gli artisti sono sempre e comunque "morali"? I filosofi lo sono, mentre esplicano la loro attività professionale? I docenti universitari sono più morali se insegnano Storia, lo sono di meno se insegnano Chimica? I medici – scienziati per eccellenza – sono morali o amorali?
Peccato che il grande Brecht non sia tra noi a discutere di questi problemi e delle posizioni che gli vengono attribuite:
«Brecht ritenne doveroso precisare che non è la scienza in sé ad essere fattore di progresso, bensì l'uso sociale che viene fatto di essa. Gli scienziati, dunque, devono farsi carico di una precisa responsabilità etica circa l'uso delle proprie scoperte»
Perfetto: ma Brecht fu il sommo teorizzatore di una precisa responsabilità etica anche nell'arte, nella sua arte! E invece, la Leni Riefenstahl, o Filippo Tommaso Marinetti, o lo stesso Martin Heidegger (che, va ripetuto, aderì al nazismo), o Giovanni Gentile, o ancora Michelangelo e il Bernini, o il progettista della Piramide di Cheope, erano forse esentati dal farsi carico di una precisa responsabilità etica circa l'uso delle proprie creazioni artistiche o filosofiche? Certo che no; eppure lavorarono per alcuni tra i peggiori tiranni, assassini e corrotti che la storia dell'umanità ricordi.
Com'è questa cosa... solo la scienza ha responsabilità nei disastri del presente?
Sono gli stessi Vattimo e Zucchetti a elencarci una sfilza di scienziati che furono altamente morali nelle loro azioni:
«Einstein, Fermi, Szilard, Bethe, Rasetti, Oppenheimer, Franck, Pontecorvo»
Ecco dunque di nuovo Heidegger, che di nuovo si sbagliava:
«L'ermeneutica ha sempre privilegiato le scienze dello spirito a scapito di quelle naturali: non a caso, per Heidegger, il luogo della verità autentica, cioè delle verità come apertura, può essere l'opera d'arte, la fondazione di uno stato o l'interrogazione del pensiero, ma mai l'indagine scientifica, che è semplicemente "l'elaborazione di un dominio di verità già aperto": la scienza non pensa perché in essa non accade la verità originaria»
A noi sembra essere tutto il contrario. Cos'è la verità originaria se non il fenomeno? E chi altri se ne occupa davvero, cercando di trarne conoscenze universali ovvero intersoggettive, se non lo scienziato? (Scienziato nel senso più ampio, e da che mondo è mondo). Tant'è vero che
«affermare che nella scienza la verità autentica non accade sarebbe come dire che la scienza è solo scienza normale, cioè di approfondimento di un singolo paradigma: ma, come ha finemente mostrato Kuhn, la scienza è non solo normale, è anche straordinaria, ogni tanto apre orizzonti prima del tutto sconosciuti.»
D'altronde, il voler contrapporre i banali fatti, di cui solo si occuperebbe la scienza sciocchina, alla più preziosa loro interpretazione, che sarebbe oggetto di tutte le altre più serie discipline, è un pregiudizio che non regge alla prova della evoluzione stessa della scienza moderna. Seppure non ci fossero fatti, ma solo interpretazioni (Heidegger), la scienza stessa altro non sarebbe che una grande struttura interpretativa in continua evoluzione – la più completa e funzionale di tutte.
«Da dove nasce l'idiosincrasia verso la scienza di una certa parte del pensiero post-moderno? Sicuramente dal timore della portata ontologica dell'impresa scientifica, del suo impatto sullo stesso concetto di fondamento: dal timore cioè che la conoscenza riflessiva, o ciò che di essa rimane, possa essere messa in crisi dagli esiti sconvolgenti della ricerca scientifica; in definitiva, dal timore che quest'ultima con i suoi continui avanzamenti riesca passo dopo passo a rivendicare a sé la spiegazione dell'origine delle cose e degli enti. Ripensiamo a Benedetto Croce, la sua famosa frase "scienziati vili meccanici" coniata dal filosofo napoletano addirittura contro il Premio Nobel per la Fisica Enrico Fermi, maggiore genio scientifico dell'Italia del ventesimo secolo.»
Le accuse, le paure, la diffidenza verso la scienza – vista come ambito separato e settario in cui succedono cose strane gravide di pesanti conseguenze –, che covano ancora in tanti ambienti intellettuali e nell'opinione pubblica, ci sembrano oramai soprattutto ispirate o dal (legittimo) disadattamento nei confronti della società capitalistica contemporanea oppure da una (inaccettabile) forma di gelosia dinanzi all'evidenza del fatto che la conoscenza, nella nostra epoca, ha raggiunto una forza, una capacità, un potere, mai visti prima nella storia umana: la scienza post-galileiana funziona, e idealisti come Benedetto Croce e Martin Heidegger non potevano accettarlo.
«Tutto funziona; e questo è appunto l'inquietante, che tutto funziona e che questo funzionare spinge sempre verso un ulteriore funzionare e la tecnica strappa sempre più l'uomo alla terra. Non' so se Lei si è spaventato - dice Heidegger al suo intervistatore nel 1968 -, in ogni caso io lo sono stato appena ho visto le fotografie della terra scattate dalla luna.»
Sintesi dei due atteggiamenti - disadattamento e gelosia - in ambito culturale è oggi quindi
«il pensiero post-moderno [che] si assume il compito, che una volta era della religione, di difenderci dalla scienza stessa. Non solo, ma fa da sentinella contro ogni possibile ritorno del pensiero "forte", reputandosi concettualmente attrezzato per neutralizzarlo e, al tempo stesso, per dire in sua vece parole definitive in fatto di ecologia, di diritto alla sopravvivenza e di criteri atti a stabilire quale dev'essere il corretto modo di pensare e di agire. Con questi risultati, da un lato contribuisce a radicalizzare le rivalità e le reciproche incomprensioni fra gli studiosi e i ricercatori, sanzionando a livello teoretico - ossia al livello più alto - l'incomunicabilità delle esperienze e dei vissuti, dall'altro accentua l'isolamento disciplinare e la frammentazione del sapere, allargando il fossato che istituzionalmente separa le scienze della vita dalle scienze umane e sociali. Tutto questo finisce per avere un'incidenza negativa tanto sul movimento delle idee quanto sul funzionamento della ricerca scientifica, degli istituti di ricerca e, in qualche misura, sullo stesso ordinamento del nostro sistema scolastico.»
Rieccola dunque: la religione! E infatti
«Ormai solo un dio può salvarci» (Heidegger).
No, grazie. La scienza pensa eccome. La scienza non fa altro che pensare. Duole doverlo scrivere, ma di fronte al richiamo moralista e sostanzialmente religioso di Heidegger, la risposta dei materialisti dialettici può essere una sola: ci avete annoiato. Per noi il reale è materiale, la scienza è conoscenza, i problemi e i pericoli cui va incontro l'umanità si risolvono conoscendo, quindi anche usando la scienza, in tutti i sensi.
La scienza pensa a due livelli. Nel primo, la scienza pensa perché lo richiede il suo metodo; essa cioè è in grado di trovare soluzioni ai problemi posti: che altro chiedere al pensiero, meglio di questo? Nel secondo, eminenti scienziati hanno dimostrato di sapersi interrogare sul loro ruolo e responsabilità nel consesso umano, meglio e più efficacemente di tanti altri intellettuali: si pensi appunto a Einstein o Rasetti, li si confronti proprio con un Heidegger o un Gentile. Certo, gli scienziati dovrebbero essere messi nelle condizioni di dovere occuparsi di politica della ricerca costantemente; ma se vige tuttora una loro sostanziale separatezza, siamo sicuri di doverlo imputare a loro o al loro metodo? Non è che, per caso, è proprio la società a non richiederglielo perché immatura rispetto alle sfide della contemporaneità? Si guardi allo stato in cui versano l'Università e gli Enti di ricerca in un paese come il nostro, o alla funzione fortemente ancillare alla politica che la ricerca scientifica è costretta a svolgere in paesi come gli USA o la Francia. Non c'entra proprio nulla il ricatto occupazionale, il lavoro salariato, in questa nostra discussione?
Né possiamo essere d'accordo sul fatto che ««l'antropocentrismo e, in ultima conseguenza, il peggior razzismo»» derivino sempre e comunque ««da un atteggiamento sviluppista e scientista verso la natura»». Il razzismo, il colonialismo, lo schiavismo, il suprematismo bianco-occidentale hanno preceduto Darwin, e anche se il darwinismo sociale è stato a fondamento di versioni moderne particolarmente brutali del razzismo, è proprio nella pratica scientifica ed empirica che si può ritrovare quella comunione con il mondo naturale e quel sentimento di unitarietà e continuità tra tutte le specie e tutte le razze, che fu umiliato da Platone in poi. E' stato l'idealismo, in Occidente come in Oriente, ad avere occultato «la naturalità dalla storia dell'uomo» e spezzato «il rapporto tra natura e cultura» – non il darwinismo in se, che è viceversa alla base anche della moderna sensibilità ambientalista. Non a caso tale unitarietà e continuità fu mirabilmente codificata da un grandissimo filosofo che anche da Darwin prese ispirazione: Friederich Engels. Per parlare con cognizione di causa di darwinismo si deve conoscere il testo engelsiano Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia (1876), con cui il pensiero evoluzionistico culmina e si traduce in umanissime istanze di riscatto sociale.
Ci chiediamo: come si può ancora oggi affrontare una discussione sul rapporto tra natura e cultura, tra scienza e morale, prescindendo completamente dalla Dialettica della Natura di quello stesso autore? Per noi materialisti dialettici, questo è un atteggiamento tardo-idealistico abominevole. Non perché in Engels si possa ritrovare tutto e solo ciò di cui abbiamo bisogno oggi (ad esempio, al lettore contemporaneo Engels si mostra troppo legato alle concezioni socioeconomiche dell'epoca, che gerarchizzavano tra paesi a capitalismo avanzato e paesi coloniali), ma perché il tentativo di Engels, di sintesi dialettica di quelle dicotomie e di conciliazione tra gli esiti più avanzati del pensiero scientifico e filosofico moderno, rimane insuperato. Con Heidegger si ritornò indietro.
La scienza non è neutrale, la tecnica non è neutrale. Vero. Forse che la filosofia è neutrale? L'arte è neutrale? La letteratura è neutrale? L'informazione è neutrale? L'architettura è neutrale?
La scienza ancillare pretende di essere neutrale; la tecno-scienza, quella del sistema militare-industriale, assurge nel sistema dominante a una funzione sacrale, perciò anti-scientifica suo malgrado. Questo ha a che fare con la funzione sociale, con la posizione sociale degli scienziati, non con altro.
Su questo si era d'altronde già rotto il Comitato Scienziate/i contro la guerra: cioè sulla impostazione di alcuni degli animatori di quel Comitato, paradossalmente antiscientifici, che non riconoscevano non dico alle lobby tecnoscientifiche – che giustamente vanno poste sotto severo controllo sociale – ma proprio nemmeno al metodo, alle acquisizioni, alla cultura scientifica i titoli per potersi occupare dei problemi della contemporaneità e della loro risoluzione.
Vediamo dunque alla giusta esigenza di cui all'incipit, ovvero alla intenzione lodevole degli autori:
«La filosofia della scienza, nel ventunesimo secolo, deve essere una filosofia sociale della scienza»
Su questo non possiamo non essere d'accordo. Ogni ambito di indagine intellettuale deve essere, oramai, un ambito sociale. E' questa la lezione di Marx e di Engels.
Il materialismo dialettico e storico non può concepire alcuna attività umana se non inquadrandola nella sua funzione sociale, quindi storica ed economica. Questo ci serve. Non la religione, non il moralismo.
E siamo d'accordo anche sulla necessità di una riflessione e mobilitazione sul nucleare, come di altre tecnologie; in particolare, una riflessione sullo stato dell'arsenale nucleare mondiale, dopo i suoi primi utilizzi in vivo a Hiroshima e Nagasaki. Chi e perché utilizzò quelle armi? Ricordiamolo: il Giappone era già disposto ad arrendersi. Quegli olocausti furono strategici in funzione antisovietica ed anticoreana, questa è la realtà; e se l'URSS fu costretta, a seguito di ciò, ad investire su analoghi progetti atomici gran parte delle sue risorse, fino a "scoppiarne", la Corea democratica tuttora deve fronteggiare quella minaccia mantenendo nel suo piccolo un adeguato potenziale di deterrenza. Di questo stiamo parlando - e non è tanto fisica delle particelle, quanto politica ed economia.
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