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Innovazione tecnologica, progresso per chi?

Iván Álvarez e Juan Helios | nuevo-rumbo.es
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

18/05/2024

La cosiddetta quarta rivoluzione industriale ha riportato in auge il dibattito sui possibili effetti indesiderati del rapido sviluppo tecnologico. Sulla stampa e nelle librerie abbondano gli scritti sulle conseguenze etiche e politiche di questo processo, che getta un'ombra sul futuro del lavoro, della privacy e del controllo sociale. Esistono anche, naturalmente, orientamenti opposti: le nuove tecnologie e scienze ci vengono presentate come il veicolo dell'utopia, che ci libera dai lavori più ingrati e ci lascia più tempo libero.

La verità è che entrambi gli approcci hanno antecedenti storici che li giustificano. La rivoluzione industriale ha trasformato radicalmente le società in cui si è svolta; la produzione su larga scala ha portato all'esodo dalle campagne e alla nascita di baraccopoli operaie; ha liquidato la produzione artigianale e corporativa, spiazzando numerosi mestieri; e ha stipato grandi masse di lavoratori in fabbriche progettate non solo per aumentare la produttività, ma anche per controllare meglio la forza lavoro. Nelle fabbriche si instaurò un sistema che addestrava gli esseri umani ad abituarsi ad abitudini di lavoro regolari e disciplinate, con l'aiuto dell'orologio e del corno, che definivano chiaramente i ritmi e gli orari di lavoro. Inutile dire che lo sviluppo tecnologico non si tradusse automaticamente in benessere. Mentre l'industrializzazione britannica è decollata alla fine del XVIII secolo, i redditi reali della maggior parte della popolazione sono aumentati solo nella seconda metà del XIX secolo, quando esisteva già un movimento operaio sviluppato e militante.

Ora, nessuno può negare che l'industrializzazione e la capacità installata in tutto il mondo abbiano permesso di aumentare la produzione di beni di consumo su una scala mai vista prima; cioè, hanno dispiegato una massa di merci che ha permesso di aumentare gli standard di quella che viene comunemente chiamata qualità della vita, anche se principalmente nelle economie più avanzate e tenendo presente che nella società capitalista questa qualità della vita è governata da una capacità di consumo molto diseguale.

La ricerca capitalistica della crescita ha come conseguenza queste due facce dello sviluppo tecnologico: da un lato, la tendenza all'automazione del lavoro e alla creazione di tecnologie per esso; dall'altro, la tendenza al controllo esaustivo del processo produttivo e della distribuzione dei beni. Due aspetti che nel capitalismo sono legati alla capacità di ottenere profitti straordinari per le aziende che portano avanti questi cambiamenti tecnologici; per questo la loro regolamentazione per evitare gli effetti più dannosi è sempre legata a doppio filo. In altri articoli di questa rivista si è discusso di come la trasformazione tecnologica nel capitalismo possa finire per causare un peggioramento delle condizioni di vita relative della classe operaia. Ma come sarebbe questo sviluppo nel socialismo, quali sarebbero le sue caratteristiche?

Mentre il criterio fondamentale per il funzionamento del sistema capitalista è la massimizzazione del profitto e quindi l'aumento della produzione di merci, il socialismo-comunismo, in quanto progetto politico, ha come principale meccanismo di funzionamento economico la pianificazione democratica. In altre parole, i prodotti e le modalità di produzione e consumo passano da una decisione mediata dalla concorrenza tra le imprese a una decisione presa collettivamente nei vari ambiti. Così, lo sviluppo tecnologico cessa di avere una forma compulsiva e diventa necessariamente obbediente a questa pianificazione democratica dell'economia, ma non solo obbedisce, ma diventa parte integrante e attiva di questa stessa democrazia.

Così, la tecnologia, soprattutto quella legata alle scienze informatiche e della comunicazione, attraverso l'interconnessione tra le industrie, i centri di distribuzione e i diversi organi decisionali, permetterebbe l'esercizio della democrazia nel senso più classico del termine: chiunque può far parte del processo decisionale essendo informato in ogni momento dello stato globale del sistema. In questo modo si eviterebbero sia il corporativismo locale caratteristico del capitalismo, dove la condivisione delle informazioni è un rischio per la competitività dell'impresa, sia le decisioni globali di natura reazionaria, caratteristiche dell'imperialismo e incarnate dalla coesistenza dei grandi monopoli con lo Stato, che ignorano le comunità locali, come possiamo vedere nei macroprogetti di energia rinnovabile. Insomma, non si tratta solo di fare di più o lo stesso con meno, di lavorare meno e poter avere più tempo libero, ma l'automazione tecnologica socializzata porterebbe con sé un enorme aumento della conoscenza che abbiamo della nostra società, una questione che va ben oltre l'economia e che significherebbe una vera e propria rivoluzione tecnico-scientifica in cui la complessità e l'interrelazione delle relazioni umane potrebbero essere affrontate in modo totale.

La pianificazione e la percezione democratica della produzione e della distribuzione è anche il punto di partenza per una razionalità economica più sostenibile dal punto di vista ambientale. L'imperativo del profitto a breve termine e la necessità di mantenere il capitale in circolazione favoriscono una produzione di massa di "prodotti spazzatura", beni usa e getta con una durata di vita molto breve, che giustificano e alimentano l'obsolescenza programmata e le mode. Il socialismo, in quanto orientato a soddisfare i bisogni sociali senza mediare il profitto privato, è un impegno per la durata, la robustezza e la qualità della produzione, che implica un ammortamento più efficiente della ricchezza sociale e che genera meno rifiuti, senza richiedere migliaia di pubblicitari lungo il percorso, inducendo cinicamente falsi bisogni di prodotti di ogni tipo che dobbiamo sostituire ogni mese o ogni anno.

Lungi dall'essere finzioni speculative queste proposte di interconnessione, di controllo democratico della produzione e di equilibrio tra esigenze locali e globali, nel corso del XX secolo sono stati realizzati progetti che ci servono da base per non ripartire da zero. I progetti più ambiziosi di interconnessione delle fabbriche e dei centri di consumo, come l'OGAS (Sistema Statale Automatizzato di Gestione Economica) dei primi anni Sessanta in URSS o il progetto Cybersyn nel Cile di Allende, sono solo alcuni esempi dell'esistenza di una ricca esperienza storica in cui la tecnologia, la democrazia proletaria e l'economia erano interconnesse e pensate come parti fondamentali del progetto di socialismo-comunismo. Tutto questo in un'epoca in cui era difficile vedere un computer al di fuori dei centri di ricerca.

Se questi progetti non videro mai la luce fu, da un lato, perché erano in anticipo sui tempi e dall'altro, per la mancanza di una visione totale del rapporto tra tecnologia e lotte di classe. Gli ingegneri e i quadri tecnici impegnati nel progetto democratico del socialismo-comunismo adottarono spesso posizioni molto ingenue e non si integrarono, come intellettuali organici, con gli strati sociali che potevano beneficiare maggiormente delle loro proposte tecniche.

L'esperienza storica indica quindi che lo sviluppo tecnologico nella preparazione della rivoluzione e nel socialismo è troppo importante per essere considerato solo adiacente o una questione solo per tecnici. Dimostra anche che le proposte avanzate dagli uffici delle università non servono a nulla se non trovano un terreno sociale da cui essere promosse. Continuare a riflettere sul rapporto tra tecnologia e programma e strategia comunista, incorporare queste riflessioni nel nostro lavoro quotidiano, è un compito che stiamo prendendo sempre più seriamente. In questo modo, stiamo gettando le basi affinché in futuro la tecnologia non ruoti intorno al capitale, ma all'uomo.


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