www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 03-06-09 - n. 276

da Calendario del Popolo, luglio 1959
A settantacinque anni dall'attuazione dell'ordinamento corporativo
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Le corporazioni fasciste
 
Fraseologia e realtà
 
Compiendosi nel 1959 il 25. anniversario della creazione del l'ordinamento corporativo fascista, che ebbe la sua più organica attuazione con una legge del 5 febbraio 1934, sembra non privo di interesse, sia in sede storica che politica, ricordarne l'ispirazione ideologica, il contenuto di classe. le tappe di attuazione e considerare quanto di questa esperienza del recente passato, al di là degli aspetti più contingenti e caduchi, rimanga come un fattore congeniale della moderna società borghese fondata sul predominio delle grandi concentrazioni monopolistiche.
 
Nella sua accezione moderna il termine «corporativismo» suole designare in particolare il sistema di organizzazione economica e sociale che fu imposto all'Italia dal fascismo, e più in generale quell'orientamento ideologico e programmatico retrivo che, in polemica con il liberalismo e con il marxismo, propugna la possibilità e necessità di comporre in una «sintesi superiore» i contrasti sociali inerenti agli attuali rapporti di produzione.
 
Portatrice ed interprete autorevole di questa concezione si è fatta fin dagli ultimi decenni del secolo scorso la Chiesa cattolica, la quale, sotto la pressione di vivaci correnti sorte nel suo stesso seno a reclamare un atteggiamento meno ostile verso il movimento operaio in fase di vigorosa ascesa, formulò nella famosa enciclica «Rerum novarum» di papa Leone XIII ed in successivi documenti ufficiali la sua dottrina sociale in termini corporativi. Obbedendo essenzialmente all'esigenza di contendere il passo alle idee o al movimento socialisti che si ponevano sempre più coscientemente sul terreno della lotta di classe, questa dottrina si basa sostanzialmente sull'affermazione che i contrasti di interesse tra «capitale» e «lavoro» devono dare luogo, nel nome della cristiana fratellanza, rapporti di reciproca comprensione e collaborazione
 
Il fascismo, quindi, non ha scoperto il a «corporativismo», ma lo ha ereditato dalla sociologia cattolica e dal pensiero ufficiale della Chiesa, per farne, dopo averlo spogliato della sua originaria veste confessionale, la sostanza sociale dello Stato totalitario fascista, che appunto perciò si autodefiniva «corporativo». Non a torto la «Civiltà cattolica» dell'8 febbraio 1934, in un articolo dovuto al padre gesuita A. Brucculeri «Dal corporativismo dei cristiano-sociali al corporativismo integrale fascista», rivendicava ai cattolici il merito di essere stati i precursori della politica corporativa fascista (1).
 
La dottrina corporativa del fascismo, attraverso una faticosa e caotica elaborazione teorica, approdò, come quella cattolica, al concetto della «collaborazione» delle classi, da perseguirsi però non tanto in nome della fratellanza cristiana, ma piuttosto in quello degli «interessi superiori della produzione» e sotto il rigido controllo dello Stato «al di sopra delle classi» e per sua natura «supremo moderatore della vita economica e politica della nazione». In tal modo il fascismo, non molto diversamente dalla dottrina sociale cattolica, pretendeva di superare nello stesso tempo la concezione liberale che considerava lo Stato come mero organo atto a garantire lo svolgimento della libera iniziativa degli individui, e la concezione marxista che ravvisa nella lotta delle classi il motore della storia, vede nello Stato l'espressione diretta o indiretta della prevalenza di una classe e pone alla classe lavoratrice il compito della conquista del potere per distruggere i vigenti rapporti di sfruttamento.
 
Il documento fondamentale in cui questi principi trovano la loro formulazione e sono precisate le funzioni delle corporazioni è la «Carta del Lavoro» approvata dal Gran Consiglio del fascismo il 21 aprile 1927, la quale nella prima parte - che reca il titolo «Dello Stato corporativo e della sua organizzazione»- dice: «Le corporazioni costituiscono l'organizzazione unitaria delle forze della produzione e ne rappresentano gli interessi. Quali rappresentanti degli interessi unitari della produzione, le corporazioni possono dettare norme obbligatorie sulla disciplina dei rapporti di lavoro e anche sul coordinamento della produzione». Successivamente, con la citata legge del 5 febbraio 1934, vennero istituite 22 corporazioni in base al criterio del ciclo produttivo: 8 a ciclo produttivo agricolo-industriale-commerciale, 8 a ciclo produttivo industriale-commerciale. 6 per le attività produttrici di servizi.
 
A differenza dei sindacati, che organizzavano in associazioni distinte i «datori di lavoro» ed i lavoratori, le corporazioni furono concepite ed attuate come organi centrali superiori di collegamento che riunivano in associazioni miste gli imprenditori e i prestatori d'opera. Nel quadro dell'ordinamento corporativo le organizzazioni sindacali persero ogni residua parvenza di autonomia: una legge del 1934. infatti, sanzionando e perfezionando una situazione di fatto esistente da anni, attribuiva allo Stato il diritto di approvarne lo statuto e i bilanci, di ratificare la nomina dei dirigenti o di revocarli e di esercitare la propria tutela e vigilanza su tutta la loro attività.
 
Ogni corporazione aveva una struttura organizzativa rigidamente centralizzata, con un consiglio direttivo presieduto dal Ministro delle corporazioni e composto di tre rappresentanti del partito nazionale fascista e da una rappresentanza paritetica dei «datori di lavoro» e dei lavoratori del rispettivo ramo di produzione. Nel 1937 fu istituito il Consiglio nazionale delle corporazioni, composto di ministri e gerarchi fascisti e di persone «particolarmente competenti» designate dal Ministro delle corporazioni, il quale aveva il compito di legiferare su tutta la politica economica della nazione. Infine nel 1939, allo scadere della XXIX Legislatura. fu creata, in luogo della vecchia Camera dei Deputati (2), la «Camera dei fasci e delle Corporazioni »,composta da gerarchi fascisti e da dirigenti delle corporazioni, non eletti ma designati dall'alto, i quali erano espressione diretta dei grandi trust dell'industria, della banca e della finanza.
 
Non è difficile scoprire, dietro la facciata demagogica della conclamata «uguaglianza giuridica tra i datori di lavoro e i lavoratori» la reale natura di classe di questa complessa costruzione che altro non fu che uno strumento perfezionato per attuare il proposito che ispirava il fascismo nel campo economico di «accentrare nelle mani del capitalismo il controllo di tutte le ricchezze del Paese», per usare una frase di Gramsci. Tutte le misure adottate dal fascismo in materia economica tesero in definitiva a scaricare sulle spalle delle masse lavoratrici, private di ogni libertà politica e sindacale, le conseguenze della crisi particolarmente acuta che travagliava l'economia italiana, assicurando nel tempo stesso ai monopoli, con la più ampia e incontrastata libertà d'azione le condizioni ideali per consolidare ed estendere il proprio dominio sull'economia italiana e per incrementare al massimo i loro profitti.
 
La «disciplina dei rapporti di lavoro» instaurata dalle corporazioni significò di fatto la sottrazione ai sindacati del diritto elementare di stipulare contratti collettivi di lavoro e l'attribuzione di questo diritto alle Corporazioni che lo esercitarono a vantaggio del padronato, come è provato dal fatto che dal 1923 al 1940 il reddito procapite discese in Italia da 100 a 96, la retribuzione media dei dipendenti dell'industria da 100 a 92,4, e il consumo giornaliero di ogni italiano misurato in calorie da 100 a 90,6. La stessa composizione delle controversie collettive di lavoro era sottratta alla libera azione dei lavoratori, che fin dal 1925 erano stati privati del diritto di sciopero, e demandato alla cosidetta «Magistratura del lavoro», la quale per la sua stessa composizione (magistrati e cittadini scelti da un apposito Albo speciale compilato in base al criterio della più assoluta fedeltà al regime) non offriva garanzia di imparzialità.
 
D'altra parte l'ordinamento corporativo, mentre operava per irregimentare i lavoratori e metterli alla mercè dei monopoli, attuò una serie di misure di aperto appoggio ai gruppi del grande capitale: dai molteplici salvataggi che costarono ai contribuenti italiani centinaia di miliardi, ai «consorzi obbligatori» che accelerarono enormemente il processo di concentrazione monopolistica, alle norme sulla «disciplina degli impianti», intese ad impedire che sorgessero nuove iniziative industriali capaci di dare ombra ai monopoli, alle varie disposizioni per la «difesa de: prodotto nazionale», volte a mettere questi ultimi al riparo di ogni concorrenza straniera alla istituzione degli «Albi degli esportatori» e dei premi di esportazione, alla «battaglia del grano» alla politica autarchica che mirò in sostanza a creare più ampi margini di iniziativa alle grandi imprese e ad assicurare loro l'incontrastato dominio del mercato interno, ai grandi lavori pubblici di prestigio e infine alle commesse belliche fecero dello Stato il maggiore e più sicuro cliente dei monopoli.
 
Significativo il seguente giudizio sulla macchina corporativa espresso dall'inglese «Economist» del 27 luglio 1935; «Fin qui il nuovo Stato corporativo consiste soltanto nella formazione di una nuova e costosa burocrazia, dalla quale quegli industriali che possono spendere la somma necessaria riescono ad ottenere quasi tutto quello che vogliono, ed a mettere in atto le peggiori pratiche monopolistiche a spese dei piccoli produttori... ».
 
Sempre più chiaramente le corporazioni fasciste vennero assumendo il carattere e la funzione di uno strumento di preparazione alla guerra: nel 1934 infatti venne ad esse attribuito il compito di provvedere al contingentamento ed alla assegnazione delle materie prime alle varie imprese in base al criterio della preferenza assoluta per quelle che venivano definite di interesse pubblico ai fini della difesa nazionale; nel febbraio del 1935 furono creati dei comitati a base corporativa preposti ai contingenti e alle licenze di importazione, con analogo criterio; nell'ottobre del 1937 infine il Comitato corporativo centrale si trasformò in Commissione suprema per l'autarchia.
 
Queste a grandi linee la genesi, le funzioni e la struttura dell'ordinamento corporativo fascista, il quale, se per molti dei suoi aspetti giuridici ed organizzativi ha subito la sorte del fascismo, è rimasto però a causa del:a originaria matrice cattolica, nella sostanza degli orientamenti e della pratica nel campo economico dei governi clericali che si sono succeduti dopo la Liberazione. Ancora oggi, infatti, una selva di enti corporativi vecchi e nuovi serra la nostra economia nella morsa soffocante dei monopoli. Questo permanere e rifiorire di strutture e di indirizzi economici corporativi, riverniciati con le tinte demagogiche della «socialità» è uno dei segni dalla costante vocazione para-fascistica della Democrazia Cristiana e della sua congenita tendenza, come strumento politico dei monopoli, a difendere gli attuali rapporti di produzione.
 
Giorgio Albertoni
 
1) Cfr. Ernesto Rossi: «I padroni del vapore ». Ed. Laterza. 1955. specialmente il capitolo VIII: «Il bluff corporativo».
 
2) Essa aveva già, comunque, perduta ogni carattere di effettiva elettività. Con una legge del 1928. varata alla vigilia dello scioglimento della Camera eletta con «maggioranza rinforzata» nel 1924. il sistema elettorale aveva subito una decisiva involuzione in senso totalitario. Il compito di proporre i candidati fu affidato alle Confederazioni nazionali dei sindacati, e nella lista così formata, il GranConsiglio del Fascismo designava i quattrocento nomi di deputati che avrebbero dovuto formare la «Camera», salvo rimettere la propria decisione alla approvazione del corpo elettorale: approvazione che - inutile dirlo - era già scontata in anticipo.