www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 31-01-11 - n. 349

Pubblichiamo, su gentile concessione dell'autore:
Vincenzo De Robertis, A. Gramsci e l’Unità d’Italia
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Vincenzo De Robertis
 
A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
Indice
 
Capitolo 1
 
Il dibattito sul Risorgimento si è sviluppato durante tutto il periodo di formazione dello Stato Unitario ed è continuato durante il fascismo e dopo. Fino ad un certo periodo e per certi aspetti esso può essere considerato una sorta di processo di “autocoscienza” della borghesia italiana circa le ragioni e le condizioni che le hanno consentito la presa del potere e la creazione dello Stato Unitario.
 
All’epoca in cui Gramsci si trova in carcere, il dibattito fra gli storici, ravvivato dalla pubblicazione di una serie di opere, fra cui La Storia d’Italia di B.Croce, pubblicata nel ’28, L’Età del Risorgimento di A. Omodeo del 1925, L’Italia in cammino di G. Volpe, pubblicata nel 1927, e varie altre di M. Missiroli, pubblicate pure nello stesso periodo, pone al centro principalmente la questione del fascismo, come continuazione o rottura rispetto allo Stato liberale, nato dal Risorgimento [1].
 
Nel carcere Gramsci, che pur non si sottrae alla riflessione sul tema, fa, però, a mio avviso, dell’analisi del Risorgimento un capitolo a se stante del più ampio libro sull’analisi della società italiana, che già aveva iniziato a “scrivere”, da libero, come dirigente comunista.
 
Per cui la riflessione sul processo rivoluzionario borghese, sui limiti di direzione politica mostrati dalle forze politiche democratiche in campo, segnatamente il Partito d’Azione, sulla base sociale limitata dello Stato unitario e la conseguente crisi permanente di consensi, sullo stesso fascismo, inteso e valutato, sia come reazione “cesaristica” ad una situazione critica di equilibrio di forze contrapposte, che, dopo il suo consolidamento, come sistema di potere incapace di attuare quelle riforme economiche necessarie all’Italia per superare la sfida alla modernizzazione economica, tutto ciò, e molto altro, diventa un patrimonio di spunti ed idee nella prospettiva di una attività politica futura, che potrà utilizzare lui stesso e l’intero Partito Comunista.
 
In altri termini, alla base di questo immane lavoro condotto in carcere vi era, a mio avviso, la convinzione che la storia, e soprattutto la storia del proprio paese, fosse un ammaestramento ineludibile per chiunque si accingesse a “fare come in Russia”.
 
Una delle questioni affrontata in varie note da Gramsci è quella della datazione del Risorgimento: da quale data, da quale periodo storico, cioè, deve prendere le mosse un’analisi del Risorgimento?
 
Strettamente legata a questa domanda ve ne è, poi, un’altra: è il Risorgimento un fenomeno prettamente italiano o si inserisce in un più ampio processo europeo?
 
Naturalmente la questione della datazione del Risorgimento non è problema di mera cronologia, quanto di valutazione storico-politica dell’epoca in cui si iscrivono determinati avvenimenti.
 
“ […] le origini del moto del Risorgimento, cioè del processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione e alle forze interne nazionali di svilupparsi ed espandersi, non sono da ricercare in questo o quell’evento concreto registrato sotto una o un’altra data, ma appunto nello stesso processo storico per cui l’insieme del sistema europeo si trasforma. Questo processo intanto non è indipendente dagli eventi interni della penisola e dalle forze che in essa hanno la sede.”[2]
 
Analogamente il problema dell’ottica di osservazione e valutazione del fenomeno, se prettamente nazionale oppure inserito in un contesto internazionale, altro non è che il problema del rapporto fra avvenimenti internazionali e nazionali e dell’influenza degli uni sugli altri.
 
“ […] Dal punto di vista europeo l’età è quella della Rivoluzione francese e non del Risorgimento italiano, del liberalismo come concezione generale della vita e come nuova forma di civiltà statale e di cultura, e non solo dell’aspetto “nazionale” del liberalismo. E’ certo possibile parlare di un’età del Risorgimento, ma allora occorre restringere la prospettiva e mettere a fuoco l’Italia e non l’Europa, svolgendo della storia europea e mondiale quei nessi che modificano la struttura generale dei rapporti di forza internazionali che si opponevano alla formazione di un grande Stato unitario nella penisola, mortificando ogni iniziativa in questo senso e soffocandola in sul nascere e svolgendo la trattazione di quelle correnti che invece dal mondo internazionale influivano in Italia, incoraggiandone le forze autonome e locali della stessa natura e rendendole più valide. Esiste cioè un’Età del Risorgimento nella storia svoltasi nella penisola italiana, non esiste nella storia d’Europa come tale: in questa corrisponde l’Età della Rivoluzione francese e del liberalismo.”[3]
 
E’ chiaro che per Gramsci la Rivoluzione francese segna uno spartiacque fondamentale per classificare tutta l’epoca in cui si iscrivono gli avvenimenti che si svolgono nella penisola italiana durante il XIX secolo.
 
A differenza di quanto aveva tendenziosamente sostenuto B. Croce nell’opera Storia d’Europa, che, prendendo avvio nella narrazione dal 1815, aveva di fatto contrapposto le trasformazioni avviate dopo quella data (il riformismo liberale moderato), alle trasformazioni violente e cruente del periodo giacobino e napoleonico, Gramsci considera in maniera unitaria tutto il periodo delle trasformazioni che prendono il via dagli avvenimenti francesi del 1789.
 
Rivoluzione attiva e rivoluzione passiva, guerra manovrata e guerra di posizione sono momenti diversi di un unico processo storico che porta la borghesia al potere prima in Francia e poi nei vari Stati che si formano in Europa.
 
“[…] Si può dire pertanto che il libro sulla Storia d’Europa [di B.Croce] non è altro che un frammento di storia, l’aspetto “passivo” della grande Rivoluzione che iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d’Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi, e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione “riformistica” che durò fino al 1870. [...] Nell’Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movimento (politica) nella rivoluzione francese ed una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870” [4]
 
E non pare proprio che questa visione unitaria dei processi rivoluzionari, dove si alternano periodi rapidi di attacchi frontali a periodi lunghi di assedio, si fermi al limite delle rivoluzioni borghesi. Una visione altrettanto unitaria ed internazionale dell’epoca storica apertasi con la Rivoluzione di Ottobre in Russia è alla base dei giudizi gramsciani, ricavabili dagli scritti politici degli ultimi anni prima dell’arresto e più velatamente dagli scritti nel carcere, riguardanti le questioni di strategia del movimento operaio, le differenze Oriente-Occidente, i problemi di costruzione del socialismo.
 
Ritornando ai temi di questo libro, tutto il dibattito sul Risorgimento, sul ruolo dei fattori internazionali, sul carattere autoctono del fenomeno, sulle idee unitarie già nel periodo dei Comuni o del Rinascimento nasconde al fondo la debolezza del capitalismo italiano:
 
“…Tutte le questioni sulle origini [del Risorgimento] hanno le loro ragioni per il fatto che l’economia italiana era molto debole, e il capitalismo incipiente: non esisteva una forte e diffusa classe di borghesia economica, ma invece molti intellettuali e piccolo borghesi, ecc. Il problema non era tanto di liberare forze economiche già sviluppate da pastoie giuridiche e politiche antiquate, quanto di creare le condizioni generali perché queste forze economiche potessero nascere e svilupparsi sul modello di altri paesi.”[5]
 
Per quanto riguarda l’Italia è a partire dal ‘700 che, con l’indebolimento delle due grandi potenze Francia-Austria, la comparsa della Prussia, si rende più instabile l’equilibrio politico sul continente e questo favorisce la possibilità di creazione di uno Stato unitario in Italia.
 
“[…] nel ‘700 l’equilibrio europeo, Austria-Francia entra in una fase nuova rispetto all’Italia: c’è un indebolimento reciproco delle due grandi potenze e sorge una terza grande potenza, la Prussia.“[6]
 
“…[L’]esistenza di un certo equilibrio delle forze internazionali che fosse la premessa dell’unità italiana…si verificò dopo il 1748, dopo cioè la caduta dell’egemonia francese e l’esclusione assoluta dell’egemonia spagnola ed austriaca, ma sparì nuovamente dopo il 1815: tuttavia il periodo dal 1748 al 1815 ebbe una grande importanza nella preparazione dell’unità, o meglio per lo sviluppo degli elementi che dovevano condurre all’unità.”[7]
 
Inoltre, l’indebolimento del papato, principale potenza politica italiana e culturale europea, la sua perdita di consensi fra le masse popolari a seguito della politica della Controriforma, la politica regalistica delle monarchie occidentali, avevano tolto al Vaticano tutte le possibilità di proporsi come soggetto unificatore della realtà politica peninsulare e gli avevano parimenti ridotto enormemente presso le corti europee il credito necessario ad ostacolare il processo di formazione di una nuova entità politica unitaria nella penisola.
 
“…Nel corso del ‘700 l’indebolimento della posizione del Papato come potenza europea è addirittura catastrofico. Con la Controriforma il Papato aveva modificato essenzialmente la struttura della sua potenza: si era alienato le masse popolari, si era fatto fautore di guerre sterminatrici, si era confuso con le classi dominanti in modo irrimediabile. Aveva così perduto la capacità di influire sia direttamente sia indirettamente sui governi attraverso la pressione delle masse popolari fanatiche e fanatizzate… La politica regalistica delle monarchie illuminate è la manifestazione di questo esautoramento della Chiesa come potenza europea e quindi italiana, e inizia anch’essa il Risorgimento, se è vero, come è vero, che il Risorgimento era possibile solo in funzione di un indebolimento del Papato sia come potenza europea che come potenza italiana, cioè come possibile forza che riorganizzasse gli stati della penisola sotto la sua egemonia…”[8]
 
Inoltre, sotto il profilo ideologico-culturale,
 
“…muta anche l’importanza ed il significato della tradizione letterario retorica esaltante il passato romano, la gloria dei Comuni e del Rinascimento, la funzione universale del Papato italiano”[9]
 
Il cosmopolitismo culturale mutuato dall’impero romano, perpetuatosi nel medio evo e nel Rinascimento, era stato il carburante con cui il Vaticano aveva fatto camminare la macchina politico-amministrativa del suo Stato e la struttura ecclesiastica con cui esercitava l’influenza politico-culturale in Europa.
 
“…Nel ‘700 si inizia un processo di distinzione di questa corrente tradizionale: una parte … si connette con l’istituto del Papato come espressione di una funzione intellettuale (etico-politica di egemonia intellettuale e civile) dell’Italia nel mondo e finirà con esprimere il Primato giobertiano…e si sviluppa una parte “laica”, anzi in opposizione al Papato, che cerca di rivendicare una funzione di primato italiano e di missione italiana nel mondo indipendentemente dal Papato.”[10]
 
“…Ciò che è importante storicamente è che nel ‘700 questa tradizione cominci a disgregarsi, per meglio concretarsi, ed a muoversi con un intima dialettica: significa che tale tradizione letterario-retorica sta diventando un fenomeno politico, il suscitatore e l’organizzatore del terreno ideologico in cui le forze politiche effettive riusciranno a determinare lo schieramento, sia pure tumultuario, delle più grandi masse popolari necessarie per raggiungere determinati fini, riusciranno a mettere in iscacco e lo stesso Vaticano e le altre forze di reazione esistenti nella penisola accanto al Papato.”[11]
 
In questo contesto la Rivoluzione francese e gli eserciti napoleonici dettero un contributo notevole alla creazione di una coscienza patriottica:
 
…Se nel corso del Settecento cominciano ad apparire ed a consolidarsi le condizioni obbiettive, internazionali e nazionali, che fanno dell’unificazione nazionale un compito storicamente concreto (cioè non solo possibile, ma necessario), è certo che solo dopo l’89 questo compito diventa consapevole in gruppi di cittadini disposti alla lotta ed al sacrificio. La Rivoluzione francese, cioè, è uno degli eventi che maggiormente operano per approfondire un movimento già iniziato nelle “cose”, rafforzando le condizioni positive (oggettive e soggettive) del movimento stesso e funzionando come elemento di aggregazione e centralizzazione delle forze umane disperse in tutta la penisola e che altrimenti avrebbero tardato di più ad “incentrarsi” e comprendersi fra loro” [12].
 
“… Le forze tendenti all’unità erano scarsissime, disperse, senza nesso tra loro e senza capacità di suscitare legami reciproci e ciò non solo nel secolo XVIII, ma si può dire fino al 1848. Le forze contrastanti a quelle unitarie (o meglio tendenzialmente unitarie) erano invece potentissime, coalizzate, e, specialmente come Chiesa, assorbivano la maggior parte delle capacità ed energie individuali che avrebbero potuto costituire un nuovo personale dirigente nazionale, dando loro invece un indirizzo e un’educazione cosmopolitico-clericale. I fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese, stremando queste forze reazionarie e logorandole, potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti. E’ questo il contributo più importante della Rivoluzione francese, molto difficile da valutare e definire, ma si intuisce di peso decisivo nel dare l’avviata al moto del Risorgimento”[13]
 
Così il contributo storicamente contingente della Rivoluzione francese alla distruzione del vecchio mondo ed alla formazione dei nuovi Stati Nazionali, secondo Gramsci va individuato sicuramente nel fatto di aver distrutto l’equilibrio politico europeo, su cui si basava l’Ancièn Regime, e nell’aver risvegliato per tale via la coscienza patriottica in vari Paesi.
 
Tuttavia, il contributo più notevole e duraturo della Rivoluzione è forse quello di aver offerto alla Storia l’esempio ineguagliabile di risoluzione della contraddizione città-campagna, di guisa che la partecipazione popolare, e segnatamente contadina, agli avvenimenti che si svolsero dal 1789 al 1815, non solo impedì alla Repubblica di essere soffocata sul nascere dalla reazione combinata di potenze straniere e controrivoluzione interna, ma, soprattutto, garantì allo Stato francese, nato dall’abbattimento della monarchia, il consenso attivo di una base sociale estesa.
 
Questi temi ci mettono di fronte ad alcuni concetti basilari della visione politica gramsciana: i concetti, cioè, di blocco storico-sociale e di egemonia. Questi concetti non sono solo categorie, attraverso cui andare ad interpretare la storia passata.
 
L’analisi comparata del modo in cui la borghesia francese ed italiana hanno affrontato e risolto la contraddizione città-campagna, la politica con cui hanno costruito l’alleanza con ceti e strati sociali del mondo agricolo, l’esito in termini statuali di questa alleanza, sono tutti elementi che forniscono ancora una volta materiale alla riflessione sul modo in cui il proletariato industriale dovrà costruire la sua alleanza con i contadini e dovrà concretizzare l’egemonia sul blocco storico-sociale per la transizione al socialismo.
 


[1] Vedi De Bernardi-Guarracino, L’operazione storica, Ed. Bruno Mondadori, vol.3, p. .487
[2] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 Q.19 pag.1963
[3] A.Gramsci , op.cit., pagg.1961-2
[4] A.Gramsci , op.cit., Q10 pagg.1227 e 1229
[5] A.Gramsci “Il Risorgimento” Antologia di scritti nel carcere Editori Riuniti 1975 pag.65
[6] A.Gramsci , op.cit., pag.1963
[7] A.Gramsci “Il Risorgimento”op. cit. pagg.63-4
[8] A.Gramsci , op.cit., pag.1963
[9] A.Gramsci , op.cit., pag.1966
[10] A.Gramsci , op.cit., pag.1966
[11] A.Gramsci , op.cit., pag.1967
[12] A.Gramsci , op.cit., pagg.1968-9
[13] A.Gramsci , op.cit., pag.1972
 

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