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Pubblichiamo, su gentile concessione dell'autore:
Vincenzo De Robertis, A. Gramsci e l’Unità d’Italia
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Vincenzo De Robertis
 
A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
Indice
 
Capitolo VI
 
Con la spedizione dei Mille si perviene allo Stato Unitario, che con la “breccia di Porta Pia” ingloba il territorio residuo dello Stato Pontificio, spostando a Roma la capitale (1871).
 
I termini di “rivoluzione passiva”, “rivoluzione-restaurazione”, che Gramsci usa per il Risorgimento italiano, prendendoli a prestito dal Cuoco, servono a descrivere un percorso che, sebbene inserito nel più complessivo processo avviato dalla Rivoluzione francese del 1789 che porta le borghesie nazionali dei vari paesi europei a conquistare il potere politico, spazzando via i regimi assolutistici e sostituendoli con governi costituzionali più o meno liberali, in Italia è, però, caratterizzato dalla passività delle grandi masse popolari (prevalentemente contadine), che nel corso del Risorgimento non vengono coinvolte.
 
[…] Ogni formazione di volontà collettiva nazionale-popolare è impossibile se le grandi masse dei contadini coltivatori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese, in questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe (più o meno fecondo) della sua concezione della rivoluzione nazionale. Tutta la storia dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva di questo genere, per mantenere il potere «economico-corporativo» in un sistema internazionale di equilibrio passivo.[1]
 
In Francia l’affermazione dei diritti dell’individuo, cittadino di uno stato di tipo nuovo, avviene in modo radicale, con la Rivoluzione, distruggendo l’Ancien Regime e costituendo una nuova entità, la Repubblica, che divide il potere sovrano del popolo in tre aspetti tenuti volutamente distinti ed indipendenti fra loro, a garanzia che non si riformi più un entità che li possa riassumere su di sé: i poteri Legislativo, Esecutivo e Giudiziario.
 
In Italia il processo di liquidazione delle varie monarchie assolutistiche coincide, come abbiamo visto, con la prima fase del Risorgimento, mentre la sua piena conclusione ed il suo sbocco finale in una monarchia costituzionale si possono identificare con la costituzione dello Stato unitario.
 
Se lo Stato unitario, quindi, rappresenta, da un lato la premessa allo sviluppo capitalistico nel nostro Paese e la cornice entro cui quello sviluppo può svolgersi, dall’altro il modo attraverso cui si giunge a questo risultato e, condizionato dal modo, la prima forma che assume lo Stato unitario dipendono, in maniera diretta, dal blocco storico protagonista del processo e dal rapporto di egemonia esercitato all’interno di questo blocco dall’aristocrazia terriera e dalla borghesia imprenditoriale del nord, principalmente piemontese.
 
E’ necessario, pertanto, descrivere sommariamente, con riferimento ai tre poteri fondamentali ed al rapporto fra loro, come si connota lo Stato piemontese dopo l’approvazione dello Statuto albertino (1848) e come si modifica negli anni successivi, atteso che sotto il profilo formale tutto il processo unitario si riduce alla conquista di nuovi territori della penisola da parte della monarchia sabauda e, quindi, all’esportazione-imposizione su tutto il territorio nazionale del modello piemontese di stato.[2]
 
Con lo Statuto Carlo Alberto cede al “popolo” una parte del suo potere, prima assoluto, cioè il potere Legislativo, anche se il potere Legislativo ceduto “vale al 50 % “, nel senso che il sistema previsto sulla Carta è bicamerale, con una Camera eletta dal “popolo” ed un Senato di nomina regia.
 
Se per la Camera dei Deputati si può parlare di una qualche “rappresentanza popolare” (con i necessari chiarimenti, sia per il sostantivo, che per l’aggettivo, derivanti dall’esame del meccanismo elettorale), per il Senato il problema non si pone, perché questa Camera è formata direttamente dal Re, che con nomina vitalizia ne sceglie i componenti selezionandoli fra ventuno categorie di “ottimati” (art.33).
 
Il Senato, che con la prima Camera va a costituire il sistema bicamerale, sul modello inglese. non ha mai, però, un vero significato ed alcun peso politico, almeno nel sentire comune; ma nessuno, nemmeno il fascismo, riuscirà a sbarazzarsi di questo “cadavere eccellente”, tenuto in vita sol perché rappresenta una garanzia del Re (potere Esecutivo) nei confronti del potere Legislativo.
 
La mancata previsione nello Statuto di una Corte di legittimità delle leggi, come è la Corte costituzionale, e l’esclusione dal testo di materie come le leggi elettorali o l’assetto amministrativo dello Stato, la cui codificazione è, così, demandata alla legislazione ordinaria delle Camere (come avverrà negli anni successivi) hanno fatto parlare i tecnici di “Costituzione flessibile” e di “Parlamento-Costituente perpetua”.
 
In realtà, a mio parere queste definizioni sono solo potenzialità sulla carta, che nel Paese reale dovranno fare i conti con i rapporti di forza fra monarchia e liberali, fra moderati e democratici, fra città e campagna.
 
Il potere legislativo concesso non è, comunque, assoluto ed indipendente dallo stesso re, non solo perché questi ha la possibilità di formare a suo piacimento una delle due camere, il Senato, ma soprattutto perché il re si riserva la prerogativa di sciogliere le Camere ed indire nuove elezioni (art.9 dello Statuto).
 
Questa prerogativa verrà usata in maniera sistematica, a partire dal 1849 (dopo il proclama di Moncalieri, quando per ben due volte gli elettori vengono chiamati alle urne, finché non emerge un’assise favorevole alla pace con l’Austria), fino alle elezioni del 1919;
 
…“sicchè si può dire che nel periodo liberale nessuna legislatura si concluse per scadenza naturale.”[3]
 
L’art.9 contempla anche la prerogativa del re di convocare la Camera dei Deputati dopo la sua elezione. Col tempo si tenta, pure, di estendere la tutela regia sulla Camera con la facoltà di fissare gli ordini del giorno delle sedute, ma questa prerogativa rimane alla Presidenza dell’assemblea, pur se la relativa sedia potrà essere occupata solo da persona gradita al potere Esecutivo.
 
Il discorso della Corona all’apertura della sessione della Camera rappresenta l’ atto di indirizzo politico del Governo, a cui, però, il Parlamento dovrà attenersi per tutta la vita della sessione, senza che questo discorso-indirizzo possa essere mai sottoposto a discussione.
 
La non autonomia piena ed, anzi, la quasi subordinazione del potere Legislativo (Camera dei Deputati) al potere Esecutivo (Re-Governo), la si ritrova, ancora nell’art.9, laddove si consente al Governo, utilizzando lo strumento del decreto che proroga la sessione della Camera, di by-passare il confronto con il Parlamento, quando questi è maggioritariamente ostile alla politica dell’esecutivo.
 
Così avviene nel 1899 per la discussione delle leggi liberticide del Governo Pelloux, poi approvate per decreto; avviene il 1894 con la mancata discussione parlamentare sullo scandalo della Banca Romana che coinvolge il Primo Ministero Crispi; ed avviene, infine, nel 1896 con la dichiarazione di guerra all’Eritrea sempre del Governo Crispi.
 
Per consuetudine a partire dal 1850 al decreto di proroga della sessione segue il suo scioglimento, che comporta sia la decadenza dei progetti di legge in discussione che la sospensione delle guarentigie attribuite ai deputati dagli artt. 45 e 46 dello Statuto. Questo meccanismo abbondantemente usato, mette in discussione il corretto ed autonomo funzionamento del Parlamento.
 
“…Questo modo di intendere l’esercizio delle funzioni parlamentari (che si accentuava nei periodi di guerra) non consentì al parlamento di esercitare il proprio controllo fiduciario sui governi, né ai governi di poter contare su maggioranze stabili e convinte” [4]
 
Anzi, alcune volte lo scioglimento rappresenta il castigo da infliggere ad un Parlamento colpevole di aver votato la sfiducia al Governo. Così succede il 1867 quando viene censurato da una mozione di sfiducia il comportamento illiberale assunto dal governo della Destra Storica in materia di libertà di riunione. Di fronte alle dimissioni presentate, il re, V. Emanuele II, le respinge e scioglie anticipatamente le camere.
 
Se il potere Legislativo viene ceduto ad un Parlamento parzialmente eletto, con lo Statuto il potere Esecutivo rimane, però, saldamente nelle mani del re e questo fa del Governo un’emanazione esclusivamente regale, senza una vera e propria legittimazione parlamentare.
 
Il Parlamento bicamerale, secondo lo Statuto, ha la prerogativa esclusiva del potere Legislativo e solo secondariamente una funzione di controllo sull’attività del governo in materie determinate (trattati internazionali, bilancio e imposte). In più di un’occasione il Parlamento finisce per essere di fatto espropriato anche del potere Legislativo, attraverso l’abuso della legislazione delegata e dei decreti legge emanati dal Governo, mentre quella funzione secondaria di controllo viene debolmente esercitata con commissioni di inchiesta e di vigilanza sul Governo.
 
Per via consuetudinaria e non legislativa, attesa l’ostilità della Casa reale sul punto, si cercherà il trasferimento di poteri per giungere ad un vero e proprio governo parlamentare, ma ogni volta per reazione si invocherà (1897) il “ritorno allo Statuto” (Sonnino) per eliminare l’istituto “deprecabile” della fiducia parlamentare.
 
Lo Statuto italiano, modellato con un riferimento vago alla monarchia costituzionale inglese, lasciando il potere esecutivo al re, che a sua volta lo delega a ministri da lui scelti, che davanti a lui giurano ed a lui rispondono, fà del re il vero “dominus” della vita politica, anche perché alla corona resta sempre il diritto di sanzionare le leggi attraverso la loro promulgazione .
 
“…Nomina dei ministri (art.65); “dissoluzione” della Camera [dei Deputati] (art.9); sanzione regia delle leggi (artt.3 e 56) sono i tre atti nei quali, nella forma di governo statutaria, non si esprime nessun principio democratico…
 
Almeno fino alla quarta legislatura (Governo D’Azeglio) è del tutto fuori luogo parlare per il Regno di Sardegna di governo parlamentare”[5]
 
Il re non designa il Primo ministero con un decreto, procedura che gli lascerebbe campo libero nella scelta dei ministri; in realtà, gli dà solo l’incarico, con una lettera a sua firma, riservandosi spesso lui il diritto di nominare direttamente alcuni ministri (in genere Esteri, Difesa/Guerra e Marina ).
 
In tal modo tiene l’incaricato sotto un costante ricatto, consistente nel fatto che la formazione del Gabinetto e la ricerca personale della maggioranza parlamentare di sostegno sono costantemente minacciate dalla possibilità di una revoca dell’incarico, che, immotivata, può intervenire in qualsiasi momento. Il decreto viene emanato solo al momento della presentazione della lista dei ministri, che ovviamente a queste condizioni devono essere tutti di gradimento del sovrano.
 
“…Questo sistema di formazione dei governi può essere definito “a-parlamentare”. Esso consentì la facile instaurazione di governi che, in momenti di crisi, furono governi del re in senso proprio in quanto si considerarono validamente costituiti in base alla sola nomina regia; anche se poi alcuni di essi si adoperarono per guadagnarsi una maggioranza parlamentare.
 
Un procedimento di formazione del governo quale quello descritto, che era in grado di prescindere, come di fatto spesso prescindeva, dalla preventiva esistenza del consenso fra l’incaricato ed una definitiva maggioranza parlamentare, fu determinante nel consentire, nel 1922, la nomina di Mussolini.”[6]
 
Solo con Giolitti si tenterà di limitare questo potere regio attraverso l’obbligo per il re, in caso di revoca dell’incarico al primo ministero, di trovarne un altro.
 
Il punto nevralgico del rapporto Re-Governo è la figura del Primo ministro.
 
Cavour è il primo a svolgere nei fatti un ruolo autonomo, che sottrae al re il potere di nomina dei ministeri e rivendica al Primo ministero la piena responsabilità dell’azione politica. Ma egli non tenta mai di formalizzare legislativamente la differenziazione dei ruoli (Governo-Corona), che avrebbe dato una spinta nella direzione di un’istituzione-Governo più condizionata dalla fiducia parlamentare, con una Monarchia solo in funzione di garante del gioco politico e del rapporto fra Esecutivo e Legislativo.
 
Questa mancata formalizzazione legislativa da parte di Cavour può forse spiegarsi con l’ostilità manifestatagli dalla Corona in più di un’occasione, per cui potrebbe aver temuto che un prevedibile braccio di ferro con la monarchia sul punto avrebbe finito per indebolirla in un momento in cui, invece, il processo unitario richiedeva il massimo di convergenza politica su di essa.
 
Chi per primo tenta di raggiungere con un percorso legislativo l’autonomia del Governo dal re è B.Ricasoli, con un decreto del 1867; ma non avendo il prestigio di Cavour e dovendo contrastare l’ostilità della Casa Reale, che già aveva “inghiottito veleno” con Cavour, deve dimettersi e il suo decreto viene cancellato dal successivo governo.
 
Bisogna aspettare il governo Depretis, la Sinistra storica, per vedere parzialmente attuati quei principi di democrazia parlamentare che impongono una separazione fra Governo e Monarchia ed una qualche responsabilità del Primo ministero di fronte al Parlamento.
 
Il decreto Depretis (1876), che nasce anche dal proposito di mettere la briglia al cd. "ministerialismo”, esalta la responsabilità collegiale del Governo, rispetto a quella individuale del singolo ministro, dà poteri al Capo del governo di bloccare le iniziative del singolo ministro, imponendone la discussione collegiale, unitamente all’obbligo di informare il Capo del governo di ogni iniziativa intrapresa, ove questa coinvolga il Governo nella sua collegialità.
 
Non viene mai meno, da Cavour in poi, la pratica di attribuirsi ad interim importanti ministeri, secondo le esigenze politiche del momento. I più gettonati sono il Ministero dell’interno, per il controllo che esercita sull’ordine pubblico tramite le Prefetture, il Ministero degli Esteri e delle Finanze. Mussolini non a caso raggiunge il record, assommando nelle sue mani sette ministeri.
 
Il fenomeno del cosiddetto “ministerialismo” vive sulla realtà di ministri scelti dal re, con l’approvazione del capo del governo, perchè legati ad una “consorteria”, in quanto deputati più influenti, o capi-gruppo, o parlamentari più vecchi, e pertanto capaci di apportare maggiore stabilità all’azione di governo, ma che, per tale ragione, rendono impraticabile una preminenza del Primo ministro sull’intera compagine, sentendosi essi più obbligati verso il re, che li nomina, e verso la “consorteria”, che li appoggia e di cui rappresentano gli interessi, che non verso il proprio capo.
 
Con i tre gabinetti Crispi, grazie anche ad una legge da lui fatta approvare (1888), che prevede la possibilità per il capo del Governo di dimissionare un suo ministro e di prendere decisioni in sua vece, si ha una politica di marca più apertamente bismarckiana.
 
L’azione politica di Crispi, il suo protagonismo, che più di uno qualifica come dittatura personale, non sono riconducibili solo al suo “carattere” personale (che in più di un’occasione Gramsci definisce “giacobino” nel senso deteriore del termine); in realtà essi si muovono in linea con l’evoluzione del sistema politico inglese, a cui l’Italia si era sempre ispirata, che, a dispetto di una concezione di equa ripartizione dei tre poteri, indipendenti fra loro, vede crescere in Inghilterra il ruolo del Primo ministero, anche per effetto delle forti personalità (Disraeli e Gladston) in concorrenza.
 
La riforma Zanardelli (1901) rafforza il potere del Governo, dandogli la facoltà di nominare le più alte cariche dello Stato (dal Presidente del Senato, a quello della Banca d’Italia, della Corte dei Conti, ecc., e lo rende interlocutore privilegiato del Parlamento, attraverso la facoltà di proporre decreti legge e disegni di legge governativi.
 
Con Giolitti - che abroga i decreti crispini (1904) - si ha un consolidamento dei principi contenuti nel decreto Zanardelli e della forma di governo parlamentare, che collegialmente dà conto più al Parlamento che al Re del suo operato.
 
Ma anche questo avviene solo sul piano della pratica politica, perchè le norme contenute nello Statuto, che fanno ancora del Re il “dominus” del potere esecutivo, non si avrà mai la forza di abrogarle, imboccando anche formalmente la strada del governo parlamentare.
 
La riprova della mancata stabilizzazione del regime in senso parlamentare sarà data dalla facilità con cui, durante il governo Salandra, vengono ribaltati i principi del 1901.
 
“…La nomina di Salandra alla Presidenza del Consiglio, <contro la maggioranza della Camera>…, la pesante ingerenza della Corona nella politica estera e nella decisione della guerra, quando il re, respingendo le dimissioni di Salandra, presentate come <una sfida ed un atto di accusa contro il Parlamento[…] si era messo dalla sua parte> in opposizione alle camere…, l’approvazione, il 22 maggio, della legge che concedeva i pieni poteri al Governo secondo la tradizione degli anni di Carlo Alberto e V.Emanuele II: tutto questo dimostrava che la sostanza costituzionale della forma di Governo italiana era rimasta immutata nei decenni. “[7]      
 
La mancata stabilizzazione del governo parlamentare apparirà ancor più chiaramente sette anni più tardi, dopo la Marcia su Roma (1922), con il conferimento dell’incarico da parte del re a Mussolini, formalmente rappresentante della minoranza parlamentare.
 
“[…] In realtà la formazione di un governo che emanava dal Parlamento, si costituiva in Gabinetto con un proprio Presidente ecc., è pratica che s’inizia fin dai primi tempi dell’era costituzionale, è il modo «autentico» di interpretare lo Statuto. Solo più tardi, per dare una soddisfazione ai democratici, fu data a questa interpretazione una tendenziosità di sinistra (forse le discussioni politiche al tempo del proclama di Moncalieri possono servire per provare la giustezza di questa analisi). Per iniziativa della destra si giunge a una contrapposizione della lettera dello Statuto a quella che ne era sempre stata la pratica normale e indiscussa (articolo di Sonnino Torniamo allo Statuto nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1897, e la data è da ritenere perché prelude al conato reazionario del 98) e questa iniziativa segna una data perché rappresenta il manifesto della formazione consortesca che si va organizzando, che per circa 20 anni non riesce mai a prendere e mantenere il potere stabilmente, ma che ha una parte fondamentale nel governo «reale» del paese. Si può dire che a mano a mano che illanguidisce la tendenza per domandare una Costituente democratica, una revisione dello Statuto in senso radicale, si rafforza la tendenza «costituentesca» alla rovescia, che dando un’interpretazione restrittiva dello Statuto minaccia un colpo di Stato reazionario.”[8]
 
Il rapporto di subordinazione del governo al re, nell’ambito di un’autonomia/supremazia del potere esecutivo sul legislativo, si manifesta soprattutto nei periodi guerra, quali sono quelli, quasi continuativi, dal 1848 al 1866 e, in maniera saltuaria, dal 1870 al 1915, prima del conflitto mondiale, quando si svolgono le guerre coloniali.
 
Intanto il re è Comandante in capo dell’esercito e Capo di Stato Maggiore, potendo separare le due cose con la delega della seconda carica ad un alto ufficiale (Generale La Marmora). Indirettamente viene ad essere, così, sgravato il governo dalla responsabilità della condotta tecnico-militare delle operazioni.
 
Inoltre, nel rapporto Parlamento-Governo(Re) quest’ultimo dichiara la guerra (art.5 dello Statuto), mentre il primo la delibera, intendendosi con questo verbo che ne approva le spese (legge di bilancio).
 
Nella politica estera si verifica lo stesso rapporto di sostanziale subordinazione del Legislativo all’Esecutivo, essendo quest’ultimo in grado di decidere la politica estera in modo autonomo dal primo e potendo il primo non ratificare i trattati internazionali firmati dal secondo solo per quanto riguarda le questioni attinenti il territorio e le finanze.
 
Questo porta, ad esempio, nel 1915 ad una battaglia, rivelatasi poi inutile, quando la maggioranza parlamentare, convinta dell’utilità per lo stato italiano di una posizione neutralista nel conflitto mondiale, viene by-passata dalla decisione, già assunta da Governo & Corona, di sottoscrivere il trattato che impegna il nostro paese ad entrare nel conflitto a fianco dell’Intesa contro gli Imperi Centrali.
 
“In una forma di governo di tipo parlamentare, il re non avrebbe dovuto appoggiare nessuna delle possibili opzioni (guerra o neutralità); ma avrebbe dovuto, anzi, garantire il libero affermarsi della volontà della maggioranza parlamentare tenendo un comportamento opposto a quello tenuto da V. Emanuetle III durante le “radiose giornate” del maggio 1915”[9]
 
Per fornire un ulteriore elemento di comprensione sulla mancanza di autonomia fra i tre poteri e sulla supremazia del potere Esecutivo sugli altri due, occorre dire che i Magistrati requirenti (Procuratori di ogni ordine e grado) erano di nomina regia, mentre la Magistratura giudicante (Giudici di Tribunali e Corti) dipendeva dalle decisioni del Ministero della Giustizia per questioni riguardanti la carriera e la disciplina, non essendo previsto un organo di autocontrollo, come è oggi il Consiglio Superiore della Magistratura.
 
Infine, per completare la descrizione della fisionomia ed avere un quadro meno vago delle “tare originarie” in materia di democrazia e consenso, assunte dal nuovo Stato dopo l’unificazione, occorre dire due parole sul sistema elettorale che porta all’elezione della Camera dei Deputati e sull’evoluzione legislativa che si realizza sul tema fino all’avvento del fascismo.
 
Lo Statuto albertino non contiene al suo interno, come si è detto, una legge elettorale, ma solo il principio elettivo del potere legislativo, come lo contengono, peraltro, le altre costituzioni del ‘48 (Regno di Napoli, Granducato e Stato Pontificio); mentre le repubbliche di quello stesso anno (Milano maggio, Venezia giugno e Roma dicembre) già alzano il vessillo dei sistemi elettorali a suffragio universale.
 
La legge elettorale viene varata poco dopo, il 18 marzo 1848, e prevede il diritto di voto per “censo” e titolo di studio: possono votare, infatti, gli ultra-25enni, forniti di titolo di studio adeguato o che contribuiscano al fisco per un importo di £.40 annue. Esclusi gli analfabeti, che nel 1871 sono il 72.96 % della popolazione.
 
“Di conseguenza non più di 530mila cittadini avevano diritto di voto su una popolazione di 27milioni, e cioè l’1,98 % “[10]
 
Il voto, inteso dai maggiori giuspubblicisti dell’epoca (V.Emanuele Orlando) come funzione del cittadino e non come suo diritto, non è praticato in maniera massiccia anche per le enormi difficoltà che il suo esercizio comporta: dalle iscrizioni nelle liste elettorali, spesso manipolate, alla collocazione dei seggi in località distanti, senza collegamenti efficienti. Più che una spiegazione della scarsa affluenza alle urne, bisognerebbe indagare le reali ragioni di quelli, veramente pochi, che almeno nei primi anni andarono a votare: 78mila circa nell’aprile del 1848 e 89mila l’anno successivo, dopo il proclama di Moncalieri.
 
Il sistema elettorale dello Stato piemontese viene esteso, con leggere modifiche, alle altre province man a mano che i plebisciti, praticati con il voto a suffragio universale, ratificano le annessioni: esso prevede un sistema maggioritario a doppio turno a cui partecipano i candidati che nel primo abbiano ottenuto i maggiori consensi.
 
I collegi elettorali, formati con il criterio elastico di 50mila elettori ciascuno, sono fissati in numero di 443 dopo il 1860.
 
“Nel 1880 gli elettori erano 620mila, cioè il 2,18 % della popolazione. Tutti i braccianti agricoli, quasi tutti i piccoli proprietari, quasi tutti gli artigiani e operai di città, buona parte della stessa piccola borghesia cittadina erano esclusi dal corpo elettorale”[11]
 
Nonostante la caratteristica oligarchica di tutto il sistema, l’astensionismo è sempre elevato: la percentuale dei votanti dal 1860 alla fine del secolo si mantenne fra il 50 ed il 60 % degli aventi diritto, contribuendo a questo risultato anche l’astensionismo propagandato non solo dalla Chiesa ( dal non expedit = non conviene, al divieto esplicito di partecipare alla vita del nuovo Stato), ma anche, se pure in misura molto meno influente, dai repubblicani e dagli anarchici.
 
In realtà, in Italia l’agone politico non è caratterizzato da un vero e proprio scontro politico fra correnti radicalmente contrapposte, anche per effetto del trasformismo, né si avverte l’esigenza di modificare il sistema elettivo maggioritario in senso proporzionale, per dare maggior rappresentanza ai diversi gruppi politici.
 
Anzi, paradossalmente la proposta di introdurre il sistema proporzionale verrà avanzata dai gruppi più conservatori, con la finalità di tutelare le minoranze “più colte e possidenti” del Paese, allorquando, verso la fine del secolo, comincia a prendere piede l’idea di estendere il diritto di voto in direzione del suffragio universale.
 
La prima riforma, che allarga la platea elettorale, sostituendo il criterio censuario con quello del livello di istruzione si comincia a discutere nelle due camere il 1881, dopo che una riforma scolastica patrocinata dal ministro Coppino, ha nel 1877 introdotto l’istruzione obbligatoria elementare della durata di due anni (in una prima stesura di tre).
 
La riforma elettorale che si attua nel 1882 agisce su due aspetti:
 
Da un lato essa modifica il sistema uninominale a doppio turno in uno plurinominale a scrutinio di lista, che prevede la possibilità per l’elettore di votare con una preferenza multipla un numero di canditati inferiore di un’unità al numero massimo eleggibile nel collegio (da 3 a 5) . Non si ricorre al ballottaggio se i candidati più suffragati ottengono un consenso pari almeno all’8 % degli elettori.
 
Dall’altro fa passare gli elettori da poco più di 600mila ad oltre 2 milioni, non senza preoccupazioni (anche da parte dei promotori della riforma) di incrinare quel meccanismo di rappresentanza, che si basa, tutto sommato, sul ruolo dei notabili, che fino a quel momento ha retto l’apparato politico più complessivo, costituendo il sistema di consenso attraverso cui il nuovo Stato ha tenuto legate a sé le masse popolari, specialmente meridionali.
 
“In Italia la riforma elettorale del 1882 estese il diritto di voto ai maschi ultraventenni, che sapessero leggere e scrivere, anche se non pagassero le imposte dirette. Allora, il 62,80 % della popolazione, cioè quasi tutti i contadini e la grande maggioranza degli artigiani e degli operai, erano analfabeti. Solo nelle più progredite città dell’Italia settentrionale gli operai avevano cominciato a mandare i figli a scuola. Ne conseguì che nel 1882 non più che 2 milioni di uomini vennero iscritti nelle liste. Ad ogni modo l’elettorato salì dal 2,18 al 6,97 % della popolazione. Le città avevano più elettori delle campagne, perché coloro che sapevano leggere e scrivere erano concentrati specialmente nelle città. L’influenza politica delle classi industriali, commerciali ed intellettuali soverchiò quella dei proprietari di terra. Nelle città stesse la riforma diede un’influenza prevalente alle classi piccolo borghesi.
 
Dal 1882 al 1894….il corpo elettorale divenne ancor più cittadino e piccolo borghese”[12]
 
In realtà il temuto “salto nel buio” non si verifica e l’astensionismo elettorale, rimasto nella media degli anni precedenti, si mostra più accentuato a Nord (nel Veneto dove sconta l’influenza politica del Vaticano) che al Sud, dove si conferma la validità di un sistema di rappresentanza reale basato sul “notabile”, che polarizza i voti e rappresenta a Roma i problemi del posto.
 
“In realtà la contrapposizione di liste realmente alternative si verificò in un numero limitato di collegi: spesso invece i gruppi che controllavano il collegio si accordavano per la ripartizione delle forze in liste solo formalmente contrapposte (e che non di rado includevano addirittura tutte il nome dei notabili locali più in vista).” [13]       
 
Questa visione della rappresentanza politica, basata sull’idea del mandato ricevuto dagli elettori di una determinata zona, a prescindere da un interesse politico più generale, mette subito in evidenza due rischi: da un lato il localismo, e dall’altro la possibilità di fare in Parlamento “cordata” con personalità capaci, in base al posto occupato nella compagine governativa, di garantire per gli elettori rappresentati (nel migliore dei casi !) quei vantaggi che possano giustificare e gratificare il voto ricevuto.
 
Ad essa si contrapporrà una concezione della rappresentanza politica che si basa sul concetto più astratto ed ideologico, non di per sé stesso più democratico, di “interesse nazionale e/o generale”, spesso inteso come interesse super partes, altre come espressione corporativa di una singola classe, concezione che ha come retroterra e presupposto quello dell’esistenza di partiti “di massa” come il Partito repubblicano in Romagna, il Partito Socialista, costituito agli inizi del Novecento o il successivo Partito Popolare.
 
Questi partiti, che danno rappresentanza politica complessiva e nazionale a classi sociali e settori della società, secondo un modello piramidale, si pongono anche come raccoglitori del consenso ed organizzatori ed artefici del protagonismo che strati sempre più ampi della popolazione manifestano già prima del conflitto mondiale e che, dopo, diventerà impetuoso.
 
Però, ancora negli ultimi due decenni dell’800 domina la visione elitaria che ha caratterizzato tutto il secolo XIX e che vede il partito come un’aggregazione politico-filosofica, dove l’azione di collante viene svolta dalla singola personalità di spicco e dalla sua influenza personale, esercitata, oltre che con il rapporto personale diretto, anche con i mezzi “moderni” del giornale.          
 
Questa visione, più conciliante con il sistema di rappresentanza del notabile, entra in crisi, non solo per la nascita dei partiti massa, ma anche per la degenerazione del parlamentarismo, sempre più caratterizzato da fenomeni di corruzione sfrenata.
 
La parola “trasformismo”, per la prima volta usata da due liberali moderati, Minghetti e Turiello, in due opuscoli di fine ‘800, finisce per diventare il sinonimo della degenerazione del sistema politico della rappresentanza e per fornire argomenti preziosi a quei reazionari che, in nome dell’antiparlamentarismo, sostituiranno più tardi la pallida immagine di una democrazia parlamentare asfittica con la cupa realtà del fascismo.
 
Gramsci, invece, dà alla parola “trasformismo” un significato più profondo e più ampio, perché la ricollega alla debolezza ideologica e politica dei partiti protagonisti del processo unitario e dei primi anni di vita dello stato che ne scaturisce.
 
“[…] La debolezza dei partiti politici italiani in tutto il loro periodo di attività, dal risorgimento in poi (eccettuato in parte il partito nazionalista) è consistita in quello che si potrebbe chiamare uno squilibrio tra l’agitazione e la propaganda, e che in altri termini si chiama mancanza di principii, opportunismo, mancanza di continuità organica, squilibrio tra tattica e strategia ecc.
 
La causa principale di questo modo di essere dei partiti è da ricercare nella deliquescenza delle classi economiche, nella gelatinosa struttura economica e sociale del paese, ma questa spiegazione è alquanto fatalistica: infatti se è vero che i partiti non sono la nomenclatura delle classi, è anche vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per svilupparle, assodarle, universalizzarle. Questo appunto non è avvenuto in Italia, e la manifestazione di questa «omissione» è appunto questa agitazione e propaganda o come altrimenti si voglia dire.
 
Lo Stato-Governo ha una certa responsabilità in questo stato di cose (si può chiamare responsabilità in quanto ha impedito il rafforzamento dello Stato stesso, cioè ha dimostrato che lo Stato-governo non era un fattore nazionale): il governo ha infatti operato come un «partito», si è posto al disopra dei partiti non per armonizzarne gli interessi e l’attività nei quadri permanenti della vita e degli interessi statali nazionali, ma per disgregarli, per staccarli dalle grandi masse e avere « una forza di senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo »: così occorre analizzare le così dette dittature di Depretis, Crispi, Giolitti e il fenomeno parlamentare del trasformismo.
 
Le classi esprimono i partiti, i partiti elaborano gli uomini di Stato e di governo, i dirigenti della società civile e della società politica. Ci deve essere un certo rapporto utile e fruttuoso in queste manifestazioni e in queste funzioni. Non può esserci elaborazione di dirigenti dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti, dove non sono sistematicamente ricercate e studiate le ragioni di essere e di sviluppo della classe rappresentata. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone i pochi uomini indispensabili. Quindi miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello. Il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici, invece della politica seria. Le università, tutte le istituzioni che elaboravano le capacità intellettuali e tecniche, non permeate dalla vita dei partiti, dal realismo vivente della vita nazionale, formavano quadri nazionali apolitici, con formazione mentale puramente rettorica, non nazionale. La burocrazia così si estraniava dal paese, e attraverso le posizioni amministrative, diventava un vero partito politico, il peggiore di tutti, perché la gerarchia burocratica sostituiva la gerarchia intellettuale e politica: la burocrazia diventava appunto il partito statale-bonapartistico.”[14]
 
“[…]Il trasformismo come una delle forme storiche di ciò che è stato già notato sulla «rivoluzione-restaurazione» o «rivoluzione passiva» a proposito del processo di formazione dello Stato moderno in Italia. Il trasformismo come «documento storico reale» della reale natura dei partiti che si presentavano come estremisti nel periodo dell’azione militante (Partito d’Azione). Due periodi di trasformismo: 1) dal 60 al 900 trasformismo «molecolare», cioè le singole personalità politiche elaborate dai partiti democratici d’opposizione si incorporano singolarmente nella «classe politica» conservatrice-moderata (caratterizzata dall’avversione a ogni intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma organica che sostituisse un’«egemonia» al crudo «dominio» dittatoriale); 2) dal 900 in poi trasformismo di interi gruppi di estrema che passano al campo moderato (il primo avvenimento è la formazione del Partito nazionalista coi gruppi ex-sindacalisti e anarchici, che culmina nella guerra libica in un primo tempo e nell’interventismo in un secondo tempo). Tra i due periodi è da porre il periodo intermedio – ‘90/900 – in cui una massa di intellettuali passa nei partiti di sinistra, così detti socialistici, ma in realtà puramente democratici. …
 
Un Punto da vedere è la funzione che ha svolto il Senato in Italia come terreno per il trasformismo «molecolare». Il Ferrari, nonostante il suo repubblicanesimo federalista ecc., entra nel Senato e così tanti altri fino al 1914 …”[15].
 

[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.1560
[2] Le parti che seguono in questo capitolo sono tratte dal volume Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi a cura di Raffaele Romanelli. Donzelli editore. Roma 1995
[3] R. Romanelli Op.cit.. pag.17
[4] R. Romanelli Op.cit.. pag.19
[5] R. Romanelli Op.cit.. pag.9
[6] R. Romanelli Op.cit.. pagg.10-11
[7] R. Romanelli Op.cit.. pag.30
[8] A.Gramsci, Op.cit. pagg.1000-1
[9] R. Romanelli Op.cit.. pag.16
[10] G. Salvemini, Introduzione a L’età giolittiana di A.W.Salomone. La Nuova Italia Editrice. Scandicci (FI) 1988.Pag.X
[11] G. Salvemini, idem,pag.X
[12] G. Salvemini, idem,pag.XI
[13] R. Romanelli Op.cit.. pag.93
[14] A.Gramsci, Op.cit. pagg.386-388
[15] A.Gramsci, Op.cit. pagg.962-4
 

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