www.resistenze.org
- cultura e memoria resistenti - storia - 04-04-12 - n. 403
da Secchia e Frassati, Storia della Resistenza, Editori Riuniti, Roma, 1965, pp. 494-505
in occasione della scomparsa di Rosario Bentivegna (02/04/2012)
Il terrore nazista e la risposta dei gap - Via Rasella - Le Fosse Ardeatine
Il terrore nazista e la risposta dei gap
Il vicino fragore della battaglia di Anzio, mentre acuiva sino allo spasimo l'ansiosa attesa della città, incitava i tedeschi a infierire più che mai contro la popolazione, come cercando una rabbiosa rivalsa alla marea d'odio che sempre più scopertamente montava attorno a loro. Coprifuoco, razzie, arresti, torture, fucilazioni: ecco gli aspetti della vita romana a quella che si credeva la vigilia della liberazione.
Il coprifuoco, il cui inizio a partire dal 25 gennaio fu stabilito alle ore 17 (e poi prorogato alle ore 18 dopo il 31 gennaio), conferiva alle ronde tedesche la facoltà di sparare a vista contro i trasgressori.
I rastrellamenti s'intensificarono, culminando il 31 gennaio nella grande razzia effettuata nel settore compreso tra piazza Indipendenza, piazza dei Cinquecento, via Nazionale, che venne bloccato da truppe tedesche: chi si trovò nella zona rastrellata fu condotto alla caserma del Macao, in Castro Pretorio, e sottoposto ad angherie d'ogni sorta; poi avvenne la selezione del materiale umano così raccolto, e si salvarono, oltre alle persone manifestamente inabili al lavoro (la retata non aveva risparmiato nemmeno i vecchi settantenni), i pochi fascisti patentati che esibirono i documenti comprovanti la loro abiezione. Gli altri, ammucchiati su 494 camions, vennero portati fuori Roma e adibiti a lavori di riattamento delle strade ferrate danneggiate dalle bombe angloamericane o dai partigiani.
Un'altra razzia, compiuta ai primi di marzo, provocò l'assassinio di una popolana trentasettenne, Maria Teresa Gullace, madre di cinque figli ed incinta del sesto. Suo marito era tra i rastrellati, rinchiusi nella caserma di viale Giulio Cesare. La donna si uni alla gente che il mattino del 3 marzo s'era raccolta in cupo silenzio davanti all'edificio dove oltre mille esseri umani attendevano di partire per i luoghi in cui tutto era predisposto per ridurli allo stato bestiale. Dalla folla, composta in maggioranza di donne, si staccò Maria Teresa Gullace per avvicinarsi al muro della caserma: voleva soltanto porgere un pacco di viveri al marito intravisto dietro la grata di una finestra. Un soldato tedesco la uccise.
Nel pomeriggio dello stesso giorno la manifestazione - della quale Laura Ingrao fu la principale organizzatrice - continuò e venne appoggiata dai gappisti: tre fascisti rimasero uccisi.
Agli arresti si è già accennato. Montezemolo, Frignarli, De Carolis ed altri ufficiali raggiunsero o precedettero centinaia di uomini, militari e civili, resistenti e no, imprigionati dai tedeschi. I meno sfortunati finirono a Regina Coeli, ed era una sorte invidiabile rispetto a quella di coloro che, come Montezemolo, furono tradotti a via Tasso. Qui, in un edificio dalle linee architettoniche di rara bruttezza, aveva sede il comando delle SS, e imperversava il colonnello Herbert Kappler, capo della sbirraglia tedesca nella capitale.
Via Tasso divenne tristemente famosa non solo a Roma, ma in tutta Italia, e ben presto fu sinonimo di brutali torture, di sadiche atrocità, di morte.
I sistemi di Kappler trovarono un repellente imitatore nel tenente Pietro Koch, un criminale congenito, figlio d'un tedesco, ma cittadino italiano (era originario di Benevento), il quale raccolse attorno a sé un'accozzaglia di degenerati, tra cui alcune donne - sua moglie Tamara, le sue segretarie Marcella Stoppani ed una certa Anita, la cuoca Teresa La Donne, I tedeschi riconobbero a questa cricca perversa la qualità di «squadra speciale di polizia», dotata di larga autonomia anche se formalmente sottoposta alla questura di Roma (altra centrale di delitti, retta dal questore Caruso, il quale - manifestamente dominato da una sorta di psicosi professionale che ottundeva in lui ogni pur modesta facoltà intellettuale ed ogni sentimento umano - non esitava ad assecondare con ebete zelo la ferocia tedesca).
La pensione Oltremare, in via Principe Amedeo 2, prima sede della banda Koch, e più tardi la pensione Jaccarino, una confortevole villa nei pressi di via Veneto, in via Romagna 38, dove la banda traslocò ai primi d'aprile, acquistarono in breve una turpe fama, tanto diffusa da rivaleggiare con quella sinistra di via Tasso; e poiché i servi, Dell'imitare i padroni, si prodigano senza limiti, Koch e i suoi accoliti più apprezzati (gli altri erano solo dei «gorilla») non contravvennero alla regola, sfoggiando in varie occasioni un'inventiva fertile e talvolta persine raffinata nell'escogitare torture raccapriccianti.
Gli specialisti tedeschi peraltro non temevano concorrenza alcuna nell'espletare il compito primario del boia, per il quale la specializzazione in sevizie è complementare, nel senso che, pur costituendo un titolo ambito, non basta da sola ad abilitare all'esercizio della professione di carnefice, il cui presupposto fondamentale consiste in una sicura e ben coltivata vocazione per Parte dello sterminio. E per quanto Koch ed i suoi gorilla, come d'altronde le altre combriccole poliziesche e militari fasciste, si cimentassero nell'assassinio, nonostante il loro impegno apparivano non più che volenterosi dilettanti in confronto ai tedeschi.
I plotoni d'esecuzione nazisti, nelle giornate dello sbarco di Anzio, non risparmiarono il piombo. Il 31 gennaio, a Forte Bravetta, dieci antifascisti già incarcerati da tempo vennero passati per le armi perché «preparavano atti di sabotaggio contro le forze armate germaniche e capeggiavano altri attentati contro l'ordine pubblico». La loro condizione di prigionieri rendeva evidente il carattere pretestuoso del-la motivazione addotta dal comando germanico, che aveva ordinato l'eccidio semplicemente per sfogare la sua rabbia nel momento in cui tutta la città fremeva nell'attesa della liberazione. Caddero tra i dieci Mariano Buratti, arrestato un mese prima come promotore della guerriglia nel viterbese; il capitano Enrico De Simone, da tempo ricoverato nell'infermeria di Regina Coeli perché seriamente malato e l'operaio comunista Vittorio Mallozzi, valoroso antifascista ed organizzatore dei primi gap periferici.
Il 2 febbraio, sempre a Forte Bravetta, altri undici resistenti vennero uccisi: tra essi, Romolo Jacopini, il popolare comandante del quartiere Trionfale. Questa volta I tedeschi affidarono ad un plotone fascista, composto da agenti dalla PAI (Polizia Africa italiana) il compito di assassinare quegli uomini; ma i poliziotti seppero trovare all'ultimo momento la forza di sottrarsi al macabro incarico, e spararono a terra. I tedeschi dovettero intervenire, e poiché non avevano approntato un loro plotone d'esecuzione, lontani com'erano dal supporre che si sarebbe verificata quell'imprevedibile insubordinazione, risolsero l'incidente ammazzando con colpi alla nuca gli undici condannati.
Il 7 marzo vennero passati per le armi altri otto patrioti, tra i quali cinque gappisti catturati nel corso di un'azione sfortunata- Se ne riparlerà più avanti, così come si tornerà sulla maggiore strage delle Ardeatine cui qui si accenna solo per completare il quadro dell'agghiacciante sterminio perpetrato dai tedeschi nelle settimane successive allo sbarco alleato. Un quadro che tuttavia presenterebbe una grave lacuna se si omettesse di rievocare il sacrificio di don Pietro Morosini, ucciso il 3 aprile dopo che sin dal gennaio era stato arrestato in seguito alla delazione d'un agente provocatore, certo Dante Bruna, il quale, sospettando l'intensa attività clandestina svolta dal sacerdote negli ultimi mesi del 1943, gli aveva teso un ignobile tranello, offrendosi di procurargli delle armi. Don Morosini cadde nella trappola anche perché nel suo limpido animo non poteva albergare nemmeno il dubbio che nella torbida coscienza di altri uomini allignasse tanta viltà.
Il sacerdote fu assassinato anch'egli da un ufficiale tedesco che gli sparò alcuni colpi di rivoltella alla nuca perché ancora una volta il plotone della PAI, chiamato a procedere all'esecuzione, rifiutò di compierla e scaricò i suoi fucili sparando in aria.
Lo sbarco alleato ed il terrore tedesco indussero i gap romani ad intensificare al massimo le loro azioni, già in precedenza compiute a ritmo accelerato. L'esigenza di contribuire al successo angloamericano, ed in pari tempo la volontà di vendicare le vittime della criminalità nazifascista, rafforzarono la determinazione d'aprire un nuovo ciclo di imprese gap-piste, ancora più frequenti ed impegnative che in passato.
Già il 23 gennaio, il giorno successivo allo sbarco, due partigiani attaccarono una pattuglia tedesca in servizio di sorveglianza al ponte Vittorio, uccidendo un soldato e ferendone un altro. Il 24 ed il 25 si verificarono altri due attentati contro alloggiamenti ed automezzi nemici. Il comando tedesco della città, oltre ad imporre il coprifuoco alle ore 17, intensificò la vigilanza e cercò di favorire le delazioni promettendo vistosi premi a chi avesse fornito notizie atte ad individuare i patrioti. Ma nemmeno queste misure valsero a rallentare l'offensiva gappista; il 26 gennaio, in Prati, fu assalito a colpi di bombe a mano un reparto di fascisti dei battaglioni «M»: un morto ed un ferito. Pochi giorni dopo un fascista fu giustiziato a Tor Pignattara. Poi un'azione sfortunata. Il 28 gennaio i fascisti, informati da una spia, riuscirono ad arrestare alcuni gappisti impegnati nel tentativo di assaltare e distruggere l'albergo «Aquila d'oro», in via dei Crociferi, covo della polizia fascista. Furono catturati, torturati ed infine fucilati, il 7 marzo. Guido Rattoppatore, Giorgio Labò, Antonio Bussi, Vincenzo Gentile, mentre Gianfranco Mattei, anch'egli caduto in mano agli sgherri fascisti, si uccise in carcere, Umberto Scatto-ni, arrestato insieme con Rattoppatore e ferito in uno scontro, fu ucciso alle Ardeatine.
Lo stillicidio degli attacchi gappisti continuò implacabile: il 18 febbraio, in via Nomentana, i gappisti, armati di sole rivoltelle, attaccarono l'automobile del segretario del partito fascista, Giuseppe Pizzirani, ferendo gravemente l'autista ed il vice-federale di Roma, Serafini; Pizzirani scampò (ed era la terza volta che sfuggiva fortunosamente ad attentati dei gap) mentre i patrioti dovettero sostenete uno scontro violento con la scorta di militi, armati di mitra, che proteggevano il gerarca.
Il 9 marzo Carla Capponi, agendo da sola, fece saltare, nei pressi del Colosseo, un autocarro tedesco con rimorchio carico di fusti di benzina destinati al fronte di Cassino.
Il 10 marzo, ricorrendo l'anniversario della morte di Giuseppe Mazzini, il fascio repubblichino di Roma organizzò al teatro Adriano una manifestazione resa ancora più grottesca dal discorso di un alto gerarca fascista, il quale sostenne con rara improntitudine che la sedicente repubblica di Salò era «l'attuatrice» del pensiero politico e sociale mazziniano. Al termine del comizio i partecipanti formarono un corteo che, preceduto da una compagnia di allievi ufficiali della milizia, percorse le vie del centro, finché in via Tomacelli fu attaccato, a bombe a mano, da Fiorentini e dai suoi uomini: nove allievi ufficiali rimasero sulla strada e numerosi furono i feriti.
Dopo lo sbarco di Anzio i gap centrali furono inviati nelle borgate per preparare l'insurrezione. Interi quartieri come Centocelle o come Tor Pignattara (dove fu assalito il commissariato di P S e ucciso il commissario Stampacchia) furono a lungo sotto il loro controllo; e le due strade fondamentali per l'accesso a Roma, la Casilina e la Prenestina, furono costantemente sotto l'azione gappista che rese così di estrema difficoltà le comunicazioni tedesche.
Via Rasella
Ma l'azione di guerra che, per le perdite arrecate al nemico e per la feroce rappresaglia che ne seguì, doveva assurgere a simbolo della resistenza romana, fu l'attentato di Via Rasella. Il servizio informazioni par-tigiano aveva osservato che ogni giorno alla stessa ora, verso le 2 pomeridiane, un reparto di SS passava per via Rasella, un rettilineo stretto e breve che, parallelamente a via del Tritone, congiunge via Quattro Fontane con l'imbocco del Traforo. Era un reparto appartenente al battaglione Bozen (Bolzano) che a quell'ora andava a prendere servizio al Viminale. L'azione fu preparata minuziosamente dai gappisti agli ordini di Carlo Salinari, e venne compiuta il 23 marzo, in significativa coincidenza con l'anniversario della fondazione del movimento fascista. Altra singolare coincidenza: proprio in via Rasella, nel palazzo Tittoni, aveva abitato Mussolini nei primi anni della sua dittatura.
Il gappista Rosario Bentivegna, travestito da spazzino, poco prima dell'ora in cui di solito passavano le SS, percorse via Rasella sospingendo un carretto per la raccolta delle immondizie, composto di due bidoni: l'uno conteneva spazzatura, l'altro una ventina di chilogrammi di tritolo. Bentivegna fermò il carretto davanti a palazzo Tittoni ed attese. Nei pressi, dietro gli angoli della trasversale via del Boccaccio, s'erano appostati Salinari, Franco Calamandrei, Franco Ferri ed altri gappisti.
Il reparto SS s'inoltrò per via Rasella con qualche ritardo sull'orario consueto. Al momento esattamente calcolato in base alla durata della miccia, Franco Calamandrei fece il segnale convenuto togliendosi il cappello. Bentivegna diede fuoco alla miccia e s'affrettò verso via Quattro Fontane dove lo attendeva Carla Capponi; si sbarazzò del berretto da spazzino, indossò un impermeabile chiaro che la sua compagna gli aveva portato, e s'allontanò. Dopo cinquanta secondi avvenne l'esplosione, Subito gli altri gappisti attaccarono con bombe di mortaio il reparto investito dallo scoppio, e poi s'allontanarono. Sul terreno rimasero trentadue nazisti uccisi, e trentotto feriti. i superstiti, in preda al panico, si diedero a sparare all'impazzata ed a scagliare bombe a mano contro i negozi e contro le finestre delle case, ferendo gravemente una cameriera di palazzo Tittoni, la quale poi morì all'ospedale.
Sul posto accorsero reparti fascisti dei battaglioni Nembo e Barbarigo, del battaglione Roma o morte, agenti di PS e carabinieri. La notizia dell'attentato raggiunse le maggiori autorità nazifasciste al ministero delle corporazioni, dove stavano celebrando l'anniversario della fondazione dei fasci di combattimento. Subito il generale Maeltzer, comandante della «città aperta»di Roma, si recò sul posto accompagnato dai colonnelli Dollmann e Kappler, due sinistri personaggi che contavano assai più del loro superiore, un alcolizzato famoso per le sue sbornie solenni più che per le sue gesta guerriere. Accorsero altri ufficiali nazisti e le autorità fasciste: il segretario del partito repubblichino, Pizzirani, il questore Caruso, il vice-capo della polizia Cerniti, il generale della milizia Ortona, i generali dell'esercito fascista Presti e Catardi, in servizio al comando della «città aperta» ed uno stuolo .d'altri ufficiali e funzionar! al servizio del nemico.
Ha scritto Dollmann: «Persa la testa, il generale Maeltzer gesticolava come un pazzo: ''Vendetta, vendetta per i miei poveri camerati", urlava con voce soffocata dalle lacrime». Probabilmente era ubriaco come al solito, e manifestò il proposito di far saltare tutto il blocco di caseggiati tra via Rasella e via Quattro Fontane. Lo stesso Dollmann s'abbandonava ad escandescenze, come ha testimoniato un funzionario fascista del ministero della cultura popolare che ha così descritto quel che accadde allora in via Rasella: «Soldati tedeschi, fascisti e militari della Barbarigo e della Nembo entrarono nelle case conducendo fuori donne e bambini che, con l'accompagnamento di botte e di altre forme di brutalità, furono allineati contro le inferriate del palazzo Barberini con le braccia in alto sotto la minaccia dei fucili per lungo tempo. Coloro che passavano subivano lo stesso destino. Il generale Presti dichiarava che lui e il generale Catardi protestavano contro tale trattamento di gente innocente, ma le loro parole causarono solo indignazione. Il colonnello Dollmann era il più eccitato, e il generale Maeltzer, ferocemente arrabbiato, percosse la faccia di un uomo ammalato che aveva pregato nella sua debolezza di abbassare le braccia. Alcune persone tentarono di difendersi con armi nascoste, ma quelli trovati in possesso furono immediatamente uccisi. La feroce reazione durò per più di un'ora, vi furono spari intermittenti, a casaccio; le finestre, le porte e i mobili delle case furono spezzati e frantumati, specialmente dai soldati tedeschi. Caruso e Cerniti li lasciarono fare. In serata protetti dall'oscurità cominciò il saccheggio di tutte le case di via Rasella da parte dei soldati tedeschi, fascisti e di alcuni agenti di PS. Il generale Presti, informato del fatto, telefonò alla polizia tedesca chiedendo che desse ordine di proibire ciò, ed egli personalmente mandò due suoi ufficiali e venti guardie della PAI che arrestarono alcuni soldati della milizia e del battaglione Barbarigo e cinque agenti di PS che egli denunziò al tribunale per mezzo della questura»,
Le Fosse Ardeatine
Le razzie e gli atti di banditismo dei teppisti repubblichini in via Rasella non erano che il preludio della rappresaglia tedesca, di cui Roma e il mondo intero inorriditi ebbero notizia solo dopo che fu compiuta. Il 25 marzo il comando tedesco diramò il seguente comunicato:
«Nel pomeriggio del 23 marzo, elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a quella imboscata trentadue uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Sono ancora in atto le indagini per chiarire fino a che punto questo criminoso fatto è da attribuirsi ad incitamento angloamericano. Il comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare im-punemente la cooperazione italotedesca nuovamente affermata. Il comando tedesco perciò ha ordinato che per ogni tedesco assassinato dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quest'ordine è già stato eseguito».
A questo abietto comunicato replicò immediatamente il comando dei gap che, il 26 marzo, diffuse la seguente dichiarazione:
«1) Contro il nemico che occupa il nostro suolo, saccheggia i nostri beni, provoca la distruzione delle nostre città e delle nostre contrade, affama i nostri bambini, razzia i nostri lavoratori, tortura, uccide, massacra, uno solo è il dovere di tutti gli italiani: colpirlo, senza esitazione, in ogni momento, dove si trovi, negli uomini e nelle cose. A questo dovere si sono consacrati i Gruppi di azione patriottica.
«2) Tutte le azioni dei gap sono dei veri e propri atti di guerra che colpiscono esclusivamente obiettivi militari tedeschi e fascisti, contribuendo a risparmiare così altri bombardamenti aerei sulla capitale, distruzioni e vittime.
«3) L'attacco del 23 marzo contro la colonna della polizia tedesca, che sfilava in pieno assetto di guerra per le strade di Roma, è stato compiuto da due gruppi di gap usando la tattica della guerriglia partigiana: sorpresa, rapidità, audacia.
«4)1 tedeschi, sconfitti nel combattimento di via Rasella, hanno sfogato il loro odio per gli italiani e la loro ira impotente uccidendo donne e bambini e fucilando 320 innocenti. Nessun componente dei gap è caduto nelle loro mani, né in quelle della polizia italiana.
«I 320 italiani, massacrati dalle mitragliatrici tedesche, sfigurati e gettati nella fossa comune, gridano vendetta. E sarà spietata e terribile! Lo giuriamo!
«5) In risposta all'odierno comunicato bugiardo ed intimidatorio del comando tedesco, il comando dei gap dichiara che le azioni di guerra partigiana e patriottica in Roma non cesseranno fino alla totale evacuazione della capitale da parte dei tedeschi.
«6) Le azioni dei gap saranno sviluppate sino all'insurrezione armata nazionale per la cacciata dei tedeschi dall'Italia, la distruzione del fascismo, la conquista dell'indipendenza e della libertà».
L'ordine e la misura della rappresaglia vennero dal quartier generale di Hitler. Il maresciallo Kesselring ne affidò l'esecuzione al colonnello Kappler, il quale provvide a compilare le liste delle vittime, scegliendole tra i detenuti politici di Regina Coeli e del carcere di via Tasso.
Arrivò a 270 nomi, e ne chiese altri 50 al questore Caruso che preferì abbondare indicandone 65. Cosicché le vittime furono 335, e non 320.
Per l'esecuzione furono scelte le cave Ardeatine, dove preventivamente i tedeschi provvidero a far brillare una mina in un cunicolo per approntare una tossa unica. I martiri, trasportati su autocarri, in gruppi di venticinque, con le mani legate dietro la schiena, sul luogo dell'esecuzione, a cinque alla volta vennero fatti avanzare e costretti ad inginocchiarsi; altrettante SS li uccidevano con un colpo alla mica. Il colonnello Kappler, non solo diresse l'esecuzione, ma volle assassinare di sua mano alcuni condannati.
Caddero fianco a fianco uomini d'ogni condizione e d'ogni fede politica e religiosa: operai ed intellettuali, ufficiali dell'esercito e dirigenti della resistenza, tra i quali il colonnello Montezemolo, cattolici ed ebrei.
Il maresciallo Kesselring, processato nel dopoguerra e condannato a morte (ma morì di vecchiaia, nel suo letto), giustificò la strage sia teorizzando il diritto alla rappresaglia (disse al processo: «Se le rappresaglie non sono contemplate nel codice internazionale, esse sono tuttavia ammesse dalle consue-tudini belliche, e appunto si ricorre alle consuetudi-ni sotto la lacuna delle leggi. Per me la proporzione di uno a dieci è sopportabile»). sia affermando la necessità militare di stroncare il movimento partigia-no, in quanto «si temeva che l'attentato di via Rasella fosse il preludio dell'insurrezione generale stabilita in concomitanza con l'offensiva alleata».
Non è questa la sede per esaminare il fondamento della prima argomentazione difensiva di Kesselring; basterà citare in proposito il parere di un insigne giurista, Franco Capotorti, il quale scrisse: «La qualificazione giuridica dell'eccidio delle Fosse Ardeatine non conduce né al titolo di rappresaglia né a quello della repressione collettiva; piuttosto che di una pena inflitta alla collettività è il caso di parlare di un gesto di violenza intimidatorio, arbitrariamente rivolto contro cittadini dello Stato occupato già detenuti per reati vari contro l'occupante. Una violazione di più, dunque, dall'art. 46 del regolamento della Convenzione dell'Aja del 18 ottobre 1907, da parte dello Stato germanico, e, corrispondentemente, il reato previsto dall'ari. 185 del codice penale militare di guerra, perpetrato da chi dispone l'eccidio».
In quanto alla seconda giustificazione, è probabilmente vero il contrario: i nazisti infierirono nel modo più spietato non già perché temevano che l'atto di guerra di via Rasella fosse il preludio all'insurrezione in concomitanza con l'offensiva alleata (che ormai era fallita anche sul fronte meridionale: proprio il 23 marzo, il generale Wilson ne ordinò la sospensione); bensì perché erano a conoscenza della precaria situazione della resistenza romana e della crisi che la travagliava al vertice, e volevano aggravarla elevando una barriera di cadaveri fra i fautori della lotta ad oltranza e le correnti moderate ed attesiste, le quali avevano sempre predicato la rinuncia alla lotta armata al fine di non provocare la reazione nemica.
Nel massacro delle Ardeatine l'attesismo volle ravvisare la conferma della validità delle sue tesi; e vi fu chi arrivò persine a condannare non già la strage, ma il fatto d'arme che i nazisti avevano assunto a pretesto per compierla. Posizioni siffatte si manifestarono più apertamente in seno alle organizzazioni estranee al CLN, ma furono in sostanza condivise dall'ala moderata della coalizione antifascista, i cui esponenti tuttavia, a cominciare da Bonomi, che proprio quel giorno s'era dimesso da presidente del CLN, non osarono dissociarsi formalmente dalle sinistre che esigevano una chiara presa di posizione da parte del comitato di liberazione: questi tuttavia solo il 31 marzo, con significativo ritardo si risolse a diramare un appello alla popolazione, esortandola ad unirsi nella condanna dell'eccidio, «estrema reazione della belva ferita che si sente vicina a cadere» ed a trarne motivo di incitamento a proseguire la lotta per la liberazione del paese.
|
|
Sostieni una voce comunista. Sostieni Resistenze.org.
Fai una donazione o iscriviti al Centro di Cultura e Documentazione Popolare.
Support a communist voice. Support Resistenze.org.
Make a donation or join Centro di Cultura e Documentazione Popolare.
|