Centoquarant'anni fa, il 1° febbraio 1878 nasceva a Catania Concetto Marchesi. Studente sedicenne fondò "Lucifero" un giornale che già dal primo numero fu sequestrato perchè giudicato dalle autorità diffamatorio delle istituzioni e Marchesi fu arrestato e condannato ad un mese di reclusione. Nel 1906 iniziò il suo impegno politico a Pisa dove insegnava greco e latino in un liceo classico e le sue posizioni politiche si spostavano sempre più verso il socialismo scientifico di Marx.
Giudicava il "Manifesto del Partito comunista" un "gran fascio di luce" e, alla scissione del 1921, aderì al Partito comunista. Ha scritto molti commenti, studi e opere. Abbiamo scelto di pubblicare l'articolo "A quelli che non vogliono intendere" tratto dal settimanale "il Risveglio" del 7 marzo 1945 perché lo riteniamo interessante e di attualità in relazione ai tempi che stiamo vivendo.
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Non sono pochi, e tra questi alcuni non difettano di cultura e di intelligenza: né manca chi è pure investito di somma autorità. Nel messaggio che il Pontefice romano diffondeva al mondo nel quinto anniversario della guerra, si parlava con accento di deplorazione dei "programmi radicali che pretendono di tutto sovvertire con la rivoluzione e la violenza". Tutti sanno a chi va rivolta questa censura papale. È tempo di dire su tale argomento una parola chiara. Appunto: c'è tra i partiti innovatori uno che si professa fondamentalmente rivoluzionario. A questo mi onoro di appartenere. I seguaci di questa dottrina o meglio di questa interpretazione del fenomeno storico hanno dovuto constatare che in tutto il corso dei secoli ogni richiesta di radicali mutamenti nell'ordine economico e sociale fatta per le vie legali è stata sempre repressa e soffocata nel sangue: e hanno dovuto sempre osservare che quando lo strumento legale tende a divenire strumento trasformatore di privilegi, esso è infallibilmente sostituito dalla forza repressiva della classe dominante: e la violenza diviene espediente di pubblica salute.
Nella storia non esiste un solo esempio di grande rinnovamento politico che non sia stato risolto atraverso una strage civile. Nè si citi l'esempio della monarchia spagnola trapassata dolcemente in repubblica, perché la prima repubblica succeduta al reame di Alfonso aveva l'assenso dei capi della Chiesa, dell'esercito e dei grossi feudatari e dei signori dell'antico regime i quali avevano lasciato andar via un re che non aveva avuto fortuna né accorgimento. Ma quando la repubblica attraverso le vie legali cominciò a diventare rivoluzionaria, cioè radicalmente trasformatrice dei vecchi privilegi e dei predomini tradizionali, allora non ci fu più ritegno nell'organizzazione della violenza e dell'infamia e si osò chiamare "movimento nazionale" la più scellerata azione ordita e compiuta con le armi dello straniero e con la complicità di tutte le democrazie occidentali contro il più eroico dei popoli che abbia versato il suo sangue per la libertà della patria.
Che cosa è stata la storia degli uomini fin ad ora se non una successione di morte e di devastazione? Come è proceduta finora la civiltà umana se non attraverso una fiumana di sangue? E se ci sono uomini oggi che proclamano guerra alla guerra, che oppongono vilenza alla violenza, sono essi i sovvertitori e i nemici dell'umanità? Se ci sono uomini i quali non riconoscono soltanto la necessità di farsi uccidere, ma anche il diritto di dare morte a chi dà morte, sono essi i carnefici e i distruttori della pace? E in questa lugubre pace fatta di oppressione e di miserie e di iniquità scellerate chi porterà la luce della redenzione se non coloro che vorranno a costo del proprio sacrifico superare l'ostacolo iniquio e violento? Non temete, Santità; la violenza non è il mito che noi vogliano far trionfare, essa è la realtà che noi vogliamo distruggere.
L'esperienza di tutto il passato ci ha insegnato che alla forza che si sostituisce al diritto non si può opporre che la forza, che alla reazione violenta non si può opporre che la guerra o la rivoluzione. In questo senso siamo rivoluzionari; e deriviamo la necessità dell'azione rivoluzionaria non dalla nostra dottrina, che è dottrina di pace univerale, ma dalle condizioni che la società capitalistica ha sempre imposto ai movimenti sociali.
Tra quanti non conoscono ancora il volto vero del comunismo perché non l'hanno bene fissato, taluni non stentano, malgrado ciò a definirlo e lo definiscono, siccome loro accomoda, secondo certe maniere letterarie, giornalistiche e romanzesche. Così noi eravamo prima i bruti, oggi siamo anche fanatici. Siamo gente senza pensiero né personalità: legati, mediante incantesimo ad una Chiesa da cui ci giunge la voce di un comando quotidiano; una Chiesa immane che tende ad invadere la terra come un mostruoso cattolicesimo. È l'immane mondo dello spirito che precipita nelle tenebre di una servitù universale. Questo avviene in Russia, dove i comunisti non sono i combattenti della libertà ma i combattenti di una Santa Russia comunista più cupa e misteriosa della santa Russia degli zar. Così chi non vuole ancora intendere penetra in quel mondo russo che ha pure spezzato la più micidiale macchina di guerra che già travolgeva la civiltà.
Così in quella Russia che, da più di un ventennio, ha dovuto sostenere l'odio del mondo dentro e oltre le sue frontiere; in quella Russia che ha dovuto lottare senza tregua contro tutte le violenze e le insidie delle forze reazionarie internazionali, essi avrebbero voluto sin dal principio vedere una comoda democrazia parlamentare aperta a tutti i dibattiti, a tutti gli intrighi, a tutti i veleni stillati dallo sconfinato laboratorio capitalistico; una Russia pullulante di nemici del proletariato per i quali soltanto il proletariato avrebbe dovuto spezzare le catene dell'autocrazia. E non pensano che se così fosse stato, gli organi della borghesia capitalistica non avrebbero oggi modo di salutare i vincitori e gli eroi di Stalingrado, di Kiev e di Odessa, e di seguire attoniti le armate invincibili che hanno portato nel cuore ferrato della Prussia le insegne della redenzione sociale.
Noi comunisti siamo bruti e fanatici per questi reazionari traverstiti. Il fatto è che essi, per non ingiuriarci, ci vorrebbero sognatori e puri, come ai tempi del loro assoluto e sicuro dominio, quando il nostro "sole dell'avvenire" brillava a sterminate lontananze e i nostri programmi lucevano in una loro immobile integrità, senza bruschi interventi e pericolose compromissioni. Ora non è così: il sereno del tempo di pace non esiste più, e gli splendori siderali sono offuscati dalla mischia orrenda degli uomini. Ora siamo in pieno perdiodo rivoluzionario. E l'aria rivoluzionaria è torbida, piena di quotidiani adattamenti alla realtà di ogni ora.
Oggi i problemi bisogna affrontarli e risolverli via via che spuntano. Oggi è in gioco non l'avvenire della nostra dottrina che resta immutata, ma il destino e la vita stessa del proletariato. E non siamo più i dottrinari inaccostabili di una volta; siamo i realizzatori di ciò che la nostra esperienza, la nostra dottrina, il nostro risoluto proposito ci consente di realizzare per il bene della classe lavoratrice, cioè per il bene dell'umanità. E nell'interesse della classe lavoratrice, primi fra tutti, abbiamo levato il grido di guerra contro la Germania hitlerana e l'ignominia fascista per la indipendenza, la libertà e l'onore del nostro paese.
Il proletariato ha difeso anch'esso con le armi e con ogni sacrificio la Patria invasa e oppressa, e se non fosse stato tradito nella giornata dell'8 settembre e soggetto più tardi ad una vana aspettazione avrebbe dato all'Italia il primo vero essercito liberatore. Proletariato e Patria, proletariato e democrazia sono ormai inseparabili: chi volesse dividerli sarebbe un nemico della Patria e un fautore della peste che ci ha portato a rovina.
Questa politica nazionale dei partiti operai non è una novità o una deviazione cui l'immane crisi presente ci abbia costretto; essa non distrugge, ma conferma e rinsalda il presupposto internazionale. La libertà dell'uomo è subordinata al divieto di opprimere altri uomini, la libertà delle nazioni riposa sulla stessa proibizione. Nessun individuo e nessuna nazione può progredire o prosperare senza la continuità di mutue prestazioni. Questo libero e benefico commercio fra gli uomini e le nazioni del mondo, potrà essere garantito soltanto da un potere che risulti da forze schiettamente democratiche.
Non si può abbandonare la parola democrazia, se anche in nome di essa si è difeso il privilegio. La democrazia che sorgerà da tanta sofferenza, deve essere rappresentata da un organismo politico e sociale che consenta al popolo lavoratore di respingere indietro, sempre più indietro, tutte le forze reazionarie che tentino la ripresa delle vecchie posizioni nella direzione della vita economica e intellettuale.
Oggi i partiti la cui azione avrà più di profondità e di ampiezza saranno quelli che meno si sforzeranno di creare situazioni nuove invece di bene intendere e dirigere verso nuovi sviluppi le situazioni esistenti. Precipua qualità rivoluzionaria è l'aderenza alla realtà la quale è dato sempre scorgere, ma non è dato quasi mai prevedere nei suoi espisodi essenziali. I comunisti non sono profeti visionari dell'avvenire; essi devono vigilare sul presente dove sono tutte le possibilità del futuro. Diciamo possibilità giacché i fatti della storia accadono in quanto intervengono attività e volontà personali capaci di provocare e accelerare gli sviluppi di determinate condizioni, il cui costituirsi non dipende da noi, ma dipende da noi fecondarle e raccoglierne i frutti.
I partiti non creano le condizioni dei pubblici mutamenti, ma quando queste ci siano creano la nuova realtà storica se gli uomini che ne dirigono l'attività sanno vedere tra le situazioni che via via si succedono quella che possa essere la risolutiva; quella che permetta di far marciare tutte le forze proletarie sul ponte che il destino del nostro secolo ha gettato fra il passato capitalistico e l'avvenire socialista.
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