www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 16-12-22 - n. 851

La strage di Torino

CCDP (A cura di)

18/12/2022

In occasione del 100° anniversario della strage fascista a Torino del 1922, per inqudrarne il contesto storico proponiamo alcuni stralci da Camilla Ravera, Diario di trent'anni, riferirne una breve cronaca da ANPI Dante Di Nanni con un approfondimento sull'esecuzione di Pietro Ferrero dal libro sulla strage di Giancarlo Carcano, Strage a Torino: una storia italiana dal 1922 al 1971 - La Pietra, Milano, 1973 (recentemente ripubblicato da Impremix). Segnaliamo un articolo apparso su lordinenuovo.it e ulteriori approfondimenti di cronaca su  fisacpiemonte.net

In questo numero (851) delle Nuove Resistenti è proposto anche un articolo di Gramsci del 1924,
La fabbrica Ferrero a Mosca, che oltre ad offrire un'analisi del quadro politico in cui si consumò l'eccidio di Torino del 1922 e delinearne le responsabilità ci rende partecipi che in Russia l'anno seguente - in occasione dell'anniversario della Rivoluzione d'ottobre - viene intitolata a Ferrero una grande fabbrica di "automobili e camion [che] si fregiano del nome di Pietro Ferrero e lo fanno conoscere, fanno conoscere il suo eroismo e il suo sacrifizio agli operai e ai contadini di un territorio che costituisce la sesta parte del globo terrestre".
L'articolo di Gramsci evidenzia il ponte internazionalista gettato dall'URSS con la classe operaia italiana, oppressa, sfruttata e dilaniata dal fascismo, che nel 1922 a Torino scrisse una delle sue tante orrifiche pagine.

CCDP


Il contesto

Camilla Ravera | Diario di trent'anni, Editori Riuniti, 1972
Trascrizione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

1922

[...]

Subito dopo la marcia [22 ottobre 1922], a Roma, Il Comunista era stato invaso e saccheggiato. A Milano i fascisti avevano incendiato l'Avanti!, che per un mese non aveva potuto riapparire. A Trieste Il Lavoratore era stato sospeso dalle autorità locali. A Torino i fascisti non avevano osato assalire L'Ordine Nuovo. Ma il mattino del 30 ottobre polizia e carabinieri avevano occupato il giornale e lasciato poi che i fascisti, protetti dalla forza pubblica, devastassero e distruggessero macchinari e ogni cosa.

L'Ordine Nuovo aveva ripreso le pubblicazioni alla macchia: ospitato nel sottoscala della cooperativa dei sarti, diretta dal comunista Nicola, e tirato a macchina piana in formato ridotto, era stato diffuso nelle fabbriche e persino venduto nelle edicole.

Racconta, infatti, il compagno Giovanni Casale, allora amministratore del giornale: Noi continuavamo a mandare il giornale nelle edicole come se si trattasse di una cosa perfettamente normale, e la maggior parte dei rivenditori, a parte la diversa veste tipografica e il diverso formato, non si accorsero che si trattava di un giornale stampato alla macchia, anche se naturalmente usavano qualche precauzione nel venderlo. Il bello è che, anche per questo fatto, in un primo tempo la stessa polizia e i fascisti non intralciarono le vendite. Essi erano così convinti che il giornale avesse cessato le pubblicazioni con l'occupazione della tipografia, che dapprima non si curarono di fare altre verifiche. A quell'epoca era infatti semplicemente assurdo pensare che un giornale potesse uscire in altro modo che legalmente.

Il primo numero dell'Ordine Nuovo clandestino era apparso il 4 novembre: illustrato con un disegno del caricaturista del quotidiano, il compagno Piero Ciuffo (Cip), in cui era raffigurata La Stampa inchinata davanti a Mussolini e, a commento, il motto del quotidiano torinese: frangar, non flectar.

A Torino i compagni avevano continuato a riunirsi e a lavorare.

[...]

A Torino erano riprese le aggressioni a singoli militanti e, da parte della polizia, gli arresti di dirigenti sindacali, di fabbrica, di partito.

Il 18 dicembre, un giovane operaio, Prato, aggredito da una squadraccia s'era difeso, colpendo due aggressori. I fascisti avevano assalito e incendiato la Camera del lavoro; prelevato nel suo ufficio Carlo Berruti, segretario del sindacato dei ferrovieri, lo avevano assassinato e gettato in un prato. Nella sede della FIOM s'erano impadroniti di Pietro Ferrero, "lo avevano incatenato con filo di ferro a un camion lanciato a tutta velocità lungo il corso Vittorio Emanuele e abbandonato, così dilaniato, sul selciato del viale.

Nella notte di quel 18 dicembre venti persone erano state assassinate nelle proprie case o trucidate nella strada: lavoratori modesti, impiegati, commercianti, per la maggior parte ignari del motivo immediato di quella loro tragica fine.

De Vecchi, sottosegretario nel nuovo governo instaurato da Mussolini, aveva rivendicato a sé la responsabilità di quella strage.

[...]

Il 30 dicembre Mussolini personalmente ordinava di arrestare Bordiga, Gramsci, Camilla Ravera, Scoccimarro, Tasca, Peluso, Natangelo, Presutti. Qualche giorno dopo un telegramma convenzionale di Bordiga mi consigliò di «allontanarmi dalla mia abitazione».


Breve cronaca

Anpi Dante Di Nanni | anpidantedinanni.blogspot.com

Anniversario della Strage di Torino 18 dicembre

Si definisce comunemente Strage di Torino l'eccidio commesso nel capoluogo piemontese dalle squadre fasciste nelle giornate dal 18 al 20 dicembre 1922: secondo le fonti ufficiali, furono uccisi 11 antifascisti, mentre una trentina furono i feriti.
Generalmente si ritiene che la strage costituì la rappresaglia per l'uccisione, avvenuta la sera precedente il 17 dicembre 1922 alla Barriera di Nizza, tra corso Spezia e via Nizza, di due fascisti che, insieme con un altro squadrista, avevano tentato di assassinare un militante comunista che si difese sparando: esiste tuttavia anche l'ipotesi che i fascisti avessero già predisposto un'azione criminosa volta a «punire» la città di Torino, particolarmente ostile al fascismo, e che l'episodio ne abbia soltanto fornito un pretesto e anticipata l'esecuzione.
Alle vittime è stata intitolata a Torino la piazza XVIII Dicembre, sulla quale si affaccia la stazione ferroviaria di Porta Susa.

I martiri:

Carlo Berruti, ferroviere e consigliere comunale del Partito Comunista d'Italia, ucciso nelle campagne di Nichelino;
Matteo Chiolero, tramviere e militante socialista, ucciso nella sua casa in via Abegg 7;
Erminio Andreone, fuochista delle ferrovie, ucciso davanti alla sua casa (poi bruciata) in via Alassio 25;
Pietro Ferrero, anarchico e segretario torinese della Federazione degli operai metallurgici (FIOM), trovato irriconoscibile con la testa fracassata sotto il monumento a Vittorio Emanuele, dopo essere stato legato per i piedi a un camion e trascinato per tutto corso Vittorio Emanuele;
Andrea Ghiomo e Matteo Tarizzo, due antifascisti. Vengono ritrovati il primo nel prato di via Pinelli con il cranio spezzato e sanguinante, centinaia di ferite sulla testa e su tutto il corpo; il secondo in fondo a via Canova, ucciso in un lago di sangue da un colpo di clava che gli ha fracassato il cranio;
Leone Mazzola, proprietario di un'osteria e militante socialista, ucciso a colpi di arma da fuoco nel proprio letto nel retrobottega, dove ha la sua abitazione;
Giovanni Massaro, ex ferroviere e anarchico, ucciso a colpi di moschetto vicino alla cascina Maletto di via San Paolo.
19 dicembre
Cesare Pochettino, artigiano non impegnato in politica. Viene prelevato assieme al cognato Stefano Zurletti ed entrambi sono portati in collina e fucilati sull'orlo di un precipizio; Pochettino muore sul colpo, mentre Zurletti si finge morto e, soccorso da un anziano signore che ha assistito alla scena dall'alto con la figlia, viene portato in ospedale. Qui subisce le angherie degli squadristi che scorrazzano liberamente fra letti e corridoi riempiendolo di insulti e minacce, ma riesce a sopravvivere. Decederà poi il 10 dicembre 1951, e pertanto il suo nome non figura tra le vittime.
Angelo Quintagliè, usciere dell'ufficio ferroviario "Controllo prodotti";
Evasio Becchio, operaio e comunista di 25 anni, prelevato da un'osteria e condotto in fondo a corso Bramante dove viene ucciso a colpi di pistola e moschetto.



La morte di Pietro Ferrero

 Giancarlo Carcano | Strage a Torino: una storia italiana dal 1922 al 1971 - La Pietra, Milano, 1973

«Come trascorse, signor Viglongo, il 18 dicembre 1922?».

«Con gli altri redattori dell'"Ordine Nuovo", cercammo di fare il nostro lavoro». «Alla macchia?».

«Da un pezzo ormai si stampava così. Dovevamo anche mantenere i collegamenti coi vari organi di partito e sindacali, raccogliere notizie, seguire gli avvenimenti. Quel giorno non fu diverso. Per la mattina dopo avevamo appuntamento in casa di Gennaro Gramsci, fratello di Antonio. Ci aspettava un'avventura indimenticabile». «Ma il 18, quel 18, come lo finiste?».

«Fatemi pensare... alla sera, ecco, io e Mario Montagnana alla sera avevamo cenato nella latteria "Lupo" in via Garibaldi 35, era davanti alla chiesa di San Dalmazzo. Il locale era molto frequentato, pieno fino a tardi. Mi ricordo che il piatto più pregiato erano le lumache alla parigina. Finito, ci incamminammo verso Piazza Statuto. Montagnana abitava in via Monginevro, parecchio distante. A quell'ora non era il caso di avventurarsi in quartieri insidiosi, i fascisti non aspettavano altro. Montagnana accettò l'invito di dormire a casa mia, in via Cernaia 9, molto più sicura». «Ricorda l'ora?».

«Passate da poco le 22. Fu in corso Valdocco che incontrammo Pietro Ferrero, il segretario della sezione della Fiom».

«L'anarchico».

«La sua qualifica di anarchico avrebbe potuto impressionare soltanto qualche vecchio codino. Era un uomo che basava la sua vita su ideali di solidarietà umana, aveva un temperamento mite, come Berruti. L'incontrammo in bicicletta. Al mattino i fascisti l'avevano già pestato, poi l'avevano rilasciato. Ci sembrò molto preoccupato. L'impressione fu che andasse in giro a caso, senza una mèta. Parlammo dei fatti del giorno, gli dicemmo di non stare per strada, perché correva pericolo. Sorrise senza dire nulla. Ci disse solo che il giorno dopo sarebbe andato a Milano, faceva un'ultima puntata a Porta Susa per guardare gli orari del treno e sarebbe rincasato. Lo vedemmo allontanarsi e sparire».

Da Porta Susa, Ferrero deve andare in via Monterosa, al n. 4. E scapolo, ha trent'anni. Abita con la madre, una sorella e un fratello di 17 anni.

Maurizio Garino, anarchico: «Eravamo della stessa età. Questo è il suo portafogli che gli trovai addosso dopo la sua morte. Quando fu nominato segretario della Fiom uscì dalla Fiat Grandi Motori. Prima faceva il piastrellaio, poi il meccanico, un buon operaio. Si veniva alla Camera del Lavoro tutti i giorni e tornavamo a casa magari all'una dopo mezzanotte, a piedi, così per anni. Erano momenti di grandi sacrifici, ma anche di grande onestà. Quest'uomo veramente povero lasciò la madre in miseria. Quando il figlio morì, lei andava alle Fonderie Subalpine a raccogliere i chiodini che si spargevano per terra, le fruttava qualche soldo. Gli sopravvisse per dodici anni. Ferrero partì povero e arrivò con le tasche vuote. Quando morì era ancora un libertario».

È un'ipotesi: Ferrero percorre via Cernaia, va giù verso corso Galileo Ferraris. Vuol vedere se la Camera del Lavoro è ancora presidiata dai fascisti? Quei pugni del mattino l'hanno stordito? Viglongo dice: «Sembrava vagare senza mèta». Eppure ha trascorso lucidamente la giornata. Ferito a mezzogiorno, va a casa, lo medicano. È nervoso, non ascolta consigli, non vuole lasciare Torino, si reca a Porta Susa per incontrarsi con Roveda. Ha in tasca 19.000 lire degli operai, i quattrini che erano in cassa alla Fiom. Non vuole scappare con i soldi, resta. Nel pomeriggio, saranno le 17, va alla Cassa di disoccupazione, in corso Regina Margherita e deposita la somma. Negli uffici incontra un compagno, Teppati. Si avventura di nuovo in città.

La Camera del Lavoro è presidiata, fuori e dentro ci sono i fascisti. C'è vento, la nebbia si alza, le case attorno sono tutte sprangate. C'è qualcuno dietro a quelle persiane o la città è vuota? Gli squadristi girano ora più forsennati che al mattino. Vanno e vengono aggrappati alle auto e berciando «Giovinezza». Pietro si ferma a cento metri dalla Camera del Lavoro. In sella alla bicicletta con il piede sulla banchina, guarda.

Maurizio Garino: «La sua morte per me ha un'origine, non è un caso. Negli ultimi anni caldi la sua intransigenza morale era una pistola puntata contro i padroni. Sosteneva discussioni dure con gli industriali. Non erano i nemici che gli mancavano. Sarebbe un errore considerarlo un impulsivo, tutt'altro. Ma intransigente nel difendere i diritti degli operai, oh se lo era! Attorno alla Fiom si agitava un ciclone, lui era nel ciclone. L'odio che si era attirato dai padroni... questo è il senso della sua morte».

Antonio Gramsci: «Organizzatore onesto e serio, invano gli industriali metallurgici e i mandarini della Fiom tentarono di corromperlo, di farne un funzionario sindacale secondo il conio confederale. Ferrero ha sempre testualmente risposto: "Son qui per difendere gli interessi e le aspirazioni degli operai metallurgici e li difenderò fino a quando essi vogliono che io rimanga a questo posto"».

Qualcuno addita quell'uomo solo, là in fondo. Quando corrono su di lui non sanno ancora chi è. Quando corrono in dieci, in venti, lui non si muove. Guarda oltre, alla Camera occupata. «Vai a casa subito» gli aveva detto Montagnana. «A casa?». Il branco è a due passi. Chi lo riconosce fa il suo nome. Gli sono addosso.

Garino: «Il nemico numero uno per gli industriali era Ferrero, ma Ferrero era indomabile. Non si compra uno come Ferrero, uno come Ferrero si comprime». Gramsci: «In molte occasioni Ferrero seppe sventare intrighi e compromessi che la Fiom e la Confederazione generale del lavoro imbastivano con gli industriali, impedendo così che altri tradimenti si verificassero. Gli industriali avevano ben compreso che Ferrero era l'anima degli operai e che non sarebbe mai diventato un loro collaboratore; perciò lo segnarono nella lista dei condannati a morte consegnata agli esecutori, loro mercenari. Ciò hanno ben compreso gli operai: essi sanno e ricorderanno sempre perfettamente che se gli uccisori materiali sono stati i fascisti, i mandatari dell'uccisione, i finanziatori dell'orgia scellerata sono stati gli industriali padroni».

Chiude gli occhi e la gragnuola gli cade su tutto il corpo. Sono le 23. Lo spingono verso la Camera del Lavoro. Cade. Si rialza. Lo spingono. Perde sangue, il cappotto... quello che era un cappotto. Nella Camera del Lavoro, appena entrati, a sinistra, c'è la portineria. Da qualche ora è diventata una cella e dentro ci sono tre operai. Rinchiudono anche Ferrero. Uno è un amico, ma fingono di non conoscersi. Ferrero rotola sul pavimento, non si rialza più. Fuori berciano, parodiano canti funebri, inventano un macabro rito: girando in circolo davanti alla cella scandiscono tutti insieme: «Pietro Ferrero, Pietro Ferrero, Pietro Ferrero... ei fu». Lo tirano in strada. E mezzanotte. «Tu sei un bastardo, uno sfruttatore degli operai», e giù calci, bastonate. Non è ancora morto quando arriva il camion.

Deposizione del deputato Filippo Amedeo, 1923: «Il Natoli era fra i fascisti. Legarono Ferrero per un piede, lo legarono al camion e il camion lo trascinò per corso Galileo Ferraris fino al monumento a Vittorio Emanuele. Qui gli strapparono gli occhi, lo evirarono. Il Natoli era il più accanito. Un corpo irriconoscibile». Andrea Barberis, classe 1900, metallurgico, sposerà qualche anno dopo Maddalena Ferrero, sorella di Pietro, l'ultima dei Ferrero, morta nel gennaio 1972: «Era stato bastonato, malmenato, l'avevano ridotto che faceva pena. Non ricordo che gli avessero strappato gli occhi. In quanto al resto non saprei».

Ore 0,30 del 19 dicembre 1922: un uomo, passando vicino al monumento a Vittorio Emanuele II, vede il corpo martoriato. Chiama un'auto pubblica, trasporta il cadavere all'ospedale. Il dottor Dogliotti non può che constatarne la morte. In una tasca del vestito viene trovata la tessera della Croce Verde numero 967, «appartenente a Pietro Ferrero non meglio designato».

Maurizio Garino: «Al mattino alle sei sento bussare. Un compagno mi avvisa che Pietro Ferrero è stato ucciso. Vado al San Giovanni. È nella camera mortuaria. Quasi non la riconosco, quella faccia sfigurata; lo riconosco per il profilo. Doveva andare a Milano, forse cercava il momento adatto per entrare nella Camera del Lavoro a prendere dei documenti, un'imprudenza».

Rapporto del vice-prefetto Palombo: «Non fu dato evitare fatti isolati in piena campagna, che in niun modo potevano essere impediti, trattandosi di aggressioni isolate».

Garino: «Mi sono poi interessato dei funerali. Anzi, prima dei funerali ho fatto il riconoscimento al cimitero. Con me c'era Barberis, il fidanzato della sorella di Pietro. Ero uno dei pochi rimasti a Torino, non essendo più nel ciclone, e sono andato al cimitero. Era stato portato al cimitero alla chetichella, con i furgoni del municipio. Ai funerali ci siamo trovati in cinque uomini e undici donne. Durante il trasporto invece non c'era anima viva. Bisogna capire, ormai erano tutti terrorizzati. I funerali si sono svolti in quella mattina nebbiosa, gelida, un paio di giorni dopo la morte. Sì, eravamo in sedici, la Fiom stessa aveva mandato una corona dal fioraio».

Gramsci: «Gli operai metallurgici torinesi non dimenticano che il giorno della sepoltura del loro segretario dovettero forzatamente rimanere inchiodati ai loro banchi di lavoro, alle loro macchine, senza poter partecipare all'accompagnamento funebre di chi tanto aveva fatto per loro, di chi la vita aveva perduto nella lotta per l'emancipazione proletaria. Ricordo di aver incontrato, in quei giorni, moltissimi dei miei vecchi compagni di fabbrica; tutti, col più profondo dolore e coi denti stretti per la più santa collera, dicevano: "Nel giorno della sepoltura del nostro difensore, di Ferrero, siamo rimasti tutti al nostro posto di lavoro"». Garino: «Questo è stato il funerale di Ferrero. Non c'era nessuno dei 24-25.000 iscritti alla Fiom».

Gramsci: «Non per viltà, non perché avessimo dimenticato il Ferrero e la sua opera, ma per un fenomeno mai prima provato, di sconforto, di sconcertamento; inoltre, i compagni comunisti e i membri delle commissioni interne erano stati licenziati; passò sulle officine come un'ondata di raccapriccio che paralizzò tutto, come si dice avvenga dopo i terremoti. Ma il nostro pensiero era rivolto a Ferrero e il suo nome correva sulle bocche di tutti. Allora tutti i lavoratori fecero un sacro giuramento: vendicare Ferrero e tutti gli altri compagni massacrati dalla borghesia». Garino: «Gli altri hanno avuto un funerale ancora più modesto. Io non sono stato nemmeno avvisato. Dalla camera mortuaria partivano direttamente per il cimitero e pace. Dopo il funerale mi hanno chiesto un'epigrafe per la lapide di Ferrero. Fu fatta e scolpita, ma i fascisti scalpellarono via quelle parole e lasciarono solamente il nome: Ferrero Pietro 1892-1922».

Comollo: «Mi dissero di fissare una targa sul muro della Camera del Lavoro in ricordo di Ferrero. Era un ordine e allora gli ordini del Partito si discutevano poco. Parlo di un mese dopo. Mi diedero la targa. Era di notte, verso le tre, quando andammo. Con me c'erano dei compagni, Paulot aveva con sé il cane che chiamavamo De Vecchi. Ero il più giovane. Mi sollevarono: sembravamo dei ladri, non c'era nessuno in giro. Ho piantato quella targa con due chiodi lunghi e ce ne siamo andati. Ma non è resistita molto, non so quanto. Forse già il giorno dopo i fascisti l'hanno tolta. Ma si è fatto anche altro in memoria di Ferrero, altri compagni si sono dati da fare. Dante Conte ha portato una corona, lì al monumento vicino al chiosco dove era stato trovato Ferrero morto. Nessuno l'aveva dimenticato, Ferrero, e tutto questo faceva infuriare i fascisti».

Gramsci: «Se per la classe borghese Ferrero è morto, per il proletariato internazionale Ferrero è tuttora vivente. Gli operai russi hanno dato il nome di Ferrero a una delle migliori fabbriche metallurgiche della capitale rossa [Mosca, N.d.E.], alla fabbrica "Amo". Perché la celebrazione del fatto fosse più solenne, fu scelta come data per il cambiamento del nome della fabbrica il giorno anniversario della rivoluzione di novembre, della grande rivoluzione proletaria».

Viglongo: «A metà notte, io e Montagnana fummo svegliati da cupi rombi di cui non sapevamo darci spiegazione e ci abbandonammo a tutte le ipotesi». Son passate da poco le 2 di notte: le camicie nere vogliono che il terrore si allarghi a tutta la città; danno fuoco alla Camera del Lavoro, le fiamme si vedono da ogni angolo di Torino. Esplode dapprima una bomba incendiaria sulla torretta. Gli squadristi occupano tutto l'edificio e si affollano sulla strada. Spargono benzina dappertutto. L'esplosione della bomba a mano appicca il fuoco e questo, seguendo la pista di benzina, scende rapidamente divorando tutto nelle stanze di ogni piano e spingendone fuori i fascisti. Non c'è bugigattolo che si salvi e i fascisti eccitati esultano ammirando la propria opera. Ogni tanto qualche scoppio, colpi di pistola e bombe a mano scagliate per alimentare le fiamme. Sulla strada i fascisti cantano «Giovinezza» accompagnati da una banda musicale, accendono falò. Quando, scampanellando, arrivano i pompieri comandati dall'ingegner Orlando, non si permette che passino. Allorché possono entrare e, a scanso di pericoli per gli altri caseggiati, finalmente domano il fuoco, non trovano che cenere, muri anneriti, rovine su cui si alza un'alba livida.

Gasti-Giunta: «Fu un incalzarsi di spedizioni, di catture, di incendi, di devastazioni e di violenze personali».

Tabusso (relazione): «Impotenza di prevenzione, come sempre è successo a Torino in tutti i luttuosi fatti e rappresaglie che da tre anni si ripercuotono sinistramente sulla città che ha visto, fra l'altro, bruciare per ben tre volte il vasto fabbricato della Camera del Lavoro, nonostante attorno ad essa vi fossero circa un centinaio di agenti della forza pubblica».

[...]


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