www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 01-03-25 - n. 925

L'ardente primavera del 1945

Pietro Secchia | Rinascita, Aprile 1955
Trascrizione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

2025

Per l'ottantesimo anniversario della vittoria sul nazifascismo (25/04/1945)

* * *

Aprile 1955

L'anno della liberazione si era iniziato con grandi azioni di rastrellamento da parte del nemico. I tedeschi, sentendo imminente la ripresa dell'offensiva alleata sulla linea gotica, avevano bisogno di poter inviare al fronte tutte le forze di cui disponevano. Cercarono perciò di approfittare dell'inverno per tentare di assestare un colpo decisivo alle formazioni partigiane, allo scopo di avere poi libertà di manovra e le spalle assicurate. I nazifascisti fecero il possibile in tutte le regioni dell'Italia del Nord, dal Piemonte al Veneto, per trascinare le unità partigiane a impegnarsi in campo aperto, ma queste in base alle esperienze e ai piani elaborati sfuggivano alle trappole dei grandi rastrellamenti ed evitavano di lasciarsi attrarre in battaglie impegnative.

I tedeschi e i fascisti, malgrado l'impiego di forze enormi, man mano che avanzavano trovavano il vuoto e quando, dopo aver compiuto vaste manovre di aggiramento, tiravano la rete, non trovavano nulla essendo riuscite le unità partigiane a sfuggire tra le maglie. La tattica partigiana maturata in sedici mesi di dura esperienza permise ai combattenti della libertà, nel secondo inverno di lotta, di superare le prove più dure, la fame, il freddo, le privazioni, i combattimenti, in condizioni talvolta disperate e le loro unità trovarono più forti e agguerrite, pronte all'offensiva e alla discesa in pianura.

L'inizio della primavera annunciava la fine delle armate hitleriane e la loro fuga verso la disfatta completa. La grande offensiva invernale sovietica aveva radicalmente mutato la situazione militare e politica, non solo all'Est, ma su tutti i fronti e nei territori occupati dai tedeschi. L'Esercito Rosso, lanciato in un attacco travolgente, penetrava da tutte le parti nel cuore della Germania, oltrepassata Vienna avanzava lungo il Danubio mentre sull'Oder preparava lo scatto finale che doveva spezzare le ultime resistenze tedesche e portare la bandiera rossa sulla capitale del Reich. Nella Prussia orientale era stata eliminata dopo due soli giorni di combattimento la sacca di Koenigsberg, dove 42 mila tedeschi erano rimasti uccisi e circa centomila fatti prigionieri. Le truppe alleate avevano occupa Hannover e le loro avanguardie corazzate si trovavano a cento chilometri da Lipsia e a 200 Berlino.

La cosiddetta fortezza hitleriana altro non era più che un immenso braciere. Ognuno sentiva che l'ora decisiva stava per scoccare. Le decisioni della Conferenza di Crimea davano a tutti i patrioti la certezza assoluta che la Germania hitleriana sarebbe stata battuta. Anche sul fronte italiano l'offensiva alleata era iniziata. Da parte loro le formazioni partigiane rioccupavano tutte le posizioni perdute durante l'inverno e dilagavano con slancio verso la pianura. La classe operaia, avanguardia del popolo italiano, muoveva pure all'attacco; il 28 marzo i lavoratori di oltre cento fabbriche milanesi, chiamati alla lotta dai loro Comitati di agitazione, scendevano compatti in sciopero. Protetti dalla difesa dei gappisti e dei sappisti davanti alle fabbriche, avevano luogo comizi volanti. Alla Paracchi, cessato il lavoro, un operaio tenne il seguente discorso :

«Compagni lavoratori, siamo scesi in sciopero per rivendicare il diritto alla vita. Da ieri c'è stata diminuita la razione di pane, molti generi alimentari non ci vengono distribuiti da mesi. Sappiano le pseudo autorità fasciste che noi vogliamo vivere da uomini civili, ossia liberi. Noi operai, impiegati, tecnici, la quasi totalità dei professionisti, degli esercenti sentiamo la vergogna di vivere schiavi dello straniero .tedesco e di una banda di criminali ebbri di sangue e di distruzione. Siamo stufi delle prepotenze perpetrate dai cosiddetti corpi di polizia, veri banditi al soldo del crudele invasore e della malfamata repubblica fascista. Rendendoci conto del dovere nazionale che incombe a tutti i veri italiani, coscienti che uniti formiamo una forza invincibile, dobbiamo essere pronti a scatenare questa forza per distruggere gli autori di tutti i nostri mali. Sappiano i fascisti che siamo decisi a tutto. Vogliamo pane per i nostri bambini, vogliamo viveri, vogliamo l'adeguamento dei salari al costo della vita, vogliamo la liberazione dei patrioti incarcerati e deportati. Lavoratori, donne, giovani, facciamo ogni sforzo e ogni sacrificio per difendere il nostro diritto alla vita, per cacciare l'odiato invasore, per distruggere dalla radice la causa dei nostri mali».

Dalle grandi fabbriche di Milano, Torino e Genova il movimento di rivendicazione e di lotta contro l'invasore si estende ai centri industriali minori, Biella, Novara, Ivrea, Aosta; entrano in movimento le zone bracciantili della valle padana; nelle file dei fascisti e delle stesse truppe tedesche si avvertono chiaramente i segni di demoralizzazione e di panico, dal marzo le diserzioni aumentano ogni giorno, numerosi elementi delle milizie fasciste e dell'esercito repubblichino si arrendono alle formazioni partigiane.

E' in questa situazione che sono venute a maturazione le condizioni per poter compiere un ulteriore passo in avanti verso la unificazione completa del movimento partigiano e la sua trasformazione in esercito regolare.

All'inizio di marzo il Comando generale del CVL poteva calcolare le sue forze a 100-120 mila uomini raggruppati in 104 divisioni e 52 brigate autonome di montagna dislocate in 43 zone, oltre a 10mila combattenti nelle unità di pianura e di città GAP e SAP. Il movimento partigiano aveva assunto un potente sviluppo. Pur tuttavia stavano sempre di fronte ad esso soverchianti forze nemiche.

Ad un mese dall'insurrezione nazionale e dall'attacco decisivo degli anglo-americani, lo schieramento alleato contava 19 divisioni, 3000 pezzi di artiglieria, 3100 carri armati, 5000 aerei; i tedeschi contrapponevano 27 divisioni di cui 18 in linea, 3 di riserva dislocate nel Nord, 3 nel Veneto e 3 in Piemonte, oltre le 5 divisioni repubblichine inserite nell'armata Liguria, disponevano mille pezzi di artiglieria, 200 carri armati, 60 aerei. Le divisioni tedesche e repubblichine dislocate in Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto gravavano sulle formazioni partigiane.

La sproporzione era sempre grande e pur tenendo conto del mutamento dei rapporti di forza che si veniva effettuando ogni giorno in conseguenza delle vittorie sovietiche, delle offensive alleate e della demoralizzazione del nemico, tuttavia per imprimere il massimo di potenzialità allo schieramento partigiano alla vigilia dell'insurrezione era indispensabile cercare di far compiere ad esso un ulteriore passo decisivo in senso unitario.

Sin dall'aprile 1944 noi comunisti avevamo proposto la realizzazione di un unico comando generale, il che era stato realizzato non senza ostacoli e difficoltà. Non fu colpa nostra se allora ci dovemmo accontentare della costituzione di comandi collegiali con tutti gli inconvenienti che ne derivarono. Il maggio del 1944 aveva tuttavia segnato il primo grande passo verso l'unificazione completa del movimento partigiano. Non tralasciammo in seguito di operare e di agire al fine di realizzare l'unità completa del Corpo dei volontari della libertà non soltanto al vertice ma in tutte le unità.

E' su questa linea direttrice che il nostro partito, nel gennaio 1945, nello stadio più avanzato della guerra di liberazione, ritenne la situazione fosse oramai matura per poter fare il passo decisivo verso la completa unificazione, proponendo di trasformare le formazioni partigiane in unità regolari dell'esercito italiano. Ritenevamo che una più forte unità, non soltanto negli alti comandi, ma una unità effettiva che si estendesse a tutte le formazioni, era indispensabile per imprimere il massimo di slancio e di potenza all'insurrezione nazionale.

Le nostre proposte unitarie erano una necessità politica e militare. Il nemico non avrebbe più potuto approfit­tare delle debolezze, dei contrasti, della mancanza di azione coordinata tra le varie unità partigiane, non avrebbe più potuto organizzare i suoi rastrellamenti e i suoi attacchi con criterio politico. L'unificazione delle formazioni partigiane avrebbe significato rafforzamento dell'autorità dei comandi, maggior efficienza dei comandi zona nel l'assolvere alla loro funzione operativa.

Proponemmo allora di eliminare ogni dipendenza militare, disciplinare e organizzativa che non fosse quella dei Comandi unici e di raggruppare le formazioni partigiane in divisioni e in zone, indipendentemente dal colore originario delle unità da raggruppare. Le nostre proposte incontrarono obbiezioni, resistenze e incomprensioni. Vi fu chi cercò di deformarle per farne strumento non di unificazione, ma di disgregazione. Fu soltanto il 29 marzo che il CLNAI accettò la nostra proposta e la fece propria. Il Comando generale del CVL diramava immediatamente la seguente circolare :

«Il CLNAI in data 29 marzo ha deciso la trasformazione delle formazioni partigiane in regolari unità militari e ha stabilito le misure pratiche di attuazione di cui vi alleghiamo il testo. Invitiamo tutti i comandi dipendenti ad applicare rapidamente le misure stabilite e a realizzare nel più breve tempo l'unificazione di tutte le forze patriottiche combattenti, per essere in grado di partecipare con maggiore efficienza e più largo contributo di azione alle prossime decisive battaglie per la liberazione della patria».

Sarebbe naturalmente un errore pensare che la decisa unificazione dall'alto abbia trovato immediata realizzazione. Non bastava certo diramare una circolare e trasmettere ordini perché la trasformazione delle unità partigiane in esercito regolare diventasse una realtà. L'unificazione delle formazioni voleva dire anche mettere a disposizione della causa comune il patrimonio di gloria che ogni formazione aveva acquistato nel corso di 18 mesi di lotta; la fusione con altre formazioni significava persino rinunciare ai nomi di tanti caduti e di tante battaglie, e per quanto vi siano state magnifiche prove di commovente maturità politica da parte dei comandi e dei semplici par­tigiani, tuttavia fu necessario vincere esitazioni e incomprensioni, e intanto i giorni passavano e l'insurrezione non poteva attendere.

Soltanto alla fine del marzo 1945 alcuni settimanali, organi delle brigate d'assalto Garibaldi, come La stella alpina, Baita ed altri diventarono giornali dei volontari della libertà. Scrivevamo allora:

«Era ovvio sin dal principio che, una essendo la lotta, uno doveva essere pure l'esercito che la doveva condurre; ma varie difficoltà dì ordine politico e bellico da un lato e d'ordine ideologico dall'altro hanno sin qui ritardata tale auspicata e indispensabile fusione. Tali difficoltà, superate nell'Italia libera, ove sempre maggiori aliquote italiane entrano in lotta perfettamente inquadrate ed equipaggiate, devono essere decisamente superate anche nell'Italia occupata, ove se .la disposizione geografica delle Alpi ha forzatamente scaglionato su di un vasto arco di cerchia montana l'esercito della libertà, ciò non deve in nulla pregiudicare le ragioni per cui tale esercito si e. costituito e combatte. Auspice il partito comunista, che per primo invocò l'unità nazionale come indispensabile alla vittoria della guerra di liberazione, il Comitato centrale di Liberazione nazionale ha decisamente invitato alla unificazione di tutte le formazioni partigiane militanti nell'Italia occupata e la Stella Alpina, già organo del Comando di raggruppamento Garibaldi che sempre intese la necessità dell'unità e sempre attivamente lavorò al suo raggiungimento, è lieta di diventare il giornale di tutti i volontari della libertà. Sia tale nostro gesto di fraterna solidarietà il segno di un nuovo glorioso periodo nella vita delle formazioni partigiane che, esercito solo per una Causa sola, lotteranno unite sino alla vittoria»  (21 marzo 1945).

Ma anche queste misure erano ancora in gran parte atti politici e soprattutto simbolici che dovevano portare all'unità effettiva. Il 25 aprile sopraggiunse prima che alla unificazione effettiva delle diverse formazioni e dei loro Comandi si arrivasse di fatto. Esistevano è vero da tempo i comandi regionali, i comandi di zona e i comandi di piazza unificati, ma al disotto di questi comandi ogni formazione partigiana: garibaldina, di Giustizia e Libertà o Matteotti continuava ad avere una propria struttura organica, una propria disciplina e un proprio comando garibaldino, giellista o matteottino. Non solo, ma neppure in alto si poteva parlare in senso assoluto di effettiva «unità».

«Si tenga conto, scrive Luigi Longo, che si arrivò all'insurrezione quando al Comando generale mancava da sei mesi Parri e da due mesi il gen. Cadorna perché dimissionario e fuori dell'Italia». Ma ciò che è ancora più grave è che proprio alla vigilia dell'insurrezione si moltiplicarono le manovre, i tentativi e le proposte di fare a meno dell'insurrezione e nel corso della elaborazione degli stessi piani insurrezionali si acuì il latente contrasto con gli esponenti liberali e democristiani in seno ai CLN e nei comandi unificati. Il contrasto si acuì su di una serie di questioni, quali ad esempio quella di chi durante e immediatamente dopo l'insurrezione doveva essere incaricato di mantenere l'ordine pubblico. Noi comunisti, appoggiati dai socialisti e dai giellisti, sostenevamo che l'ordine avrebbe dovuto essere assicurato dai partigiani stessi. Gli altri invece pretendevano che l'ordine pubblico dovesse essere affidato ai carabinieri e al vecchio apparato di polizia, che tra l'altro era in stato di disgregazione e in ogni caso si trattava del vecchio apparato fascista, che doveva essere innanzi tutto epurato e riorganizzato in senso democratico.

Queste tendenze, che si manifestavano in seno ai CLN, esprimevano nettamente il contrasto di classe e di interessi sociali che si acuiva proprio nel momento culminante dell'insurrezione e dimostrava la precisa volontà da parte di certe correnti politiche di tornare al più presto al "vecchio ordine", di impedire ogni sviluppo della situazione in senso democratico. Le forze conservatrici temevano l'insurrezione popolare ; il popolo in armi faceva paura non soltanto ai collaborazionisti, ma a tutti coloro che avevano sostenuto il fascismo e ne erano stati complici re­sponsabili. Costoro avrebbero voluto un trapasso pacifico, burocratico, legalitario; la retroguardia tedesca, che prima di abbandonare la città fa la consegna del potere nelle mani degli avamposti angloamericani. Mussolini che rimette le chiavi della città nelle mani del cardinale Schuster o di un qualche delegato del Comitato di liberazione e mette a disposizione dei «patrioti» le sue bande nere : la Muti, la X Mas, la Resega per mantenere l'ordine pubblico.

Proprio in questi giorni, quasi non bastassero le molte prove già note delle collusioni e delle manovre operate allora da certa gente, una rivista ha pubblicato altre informazioni sulla storia delle trattative intercorse tra Mussolini e il cardinale Schuster circa la resa.

«La storia di queste trattative, scrive G. Capra. è lunga. Era incominciata ai primi di aprile per iniziativa del ministro fascista delle Corporazioni Tarchi. Questi dopo aver ottenuta l'approvazione del duce, si era messo a contatto con un industriale milanese certo Carlo Gallioli, che a sua volta aveva frequenti rapporti con gli esponenti della Democrazia cristiana e del CLN. Gallioli aderì all'iniziativa di Tarchi e ne parlò a Brusasca il quale a sua volta ne informò il Comitato esecutivo del suo partito per l'Alta Italia, comitato presieduto da Marazza e composto da Brusasca stesso per il Piemonte, da Augusto De Gasperi per il Veneto, da Zanchetta per la Lombardia, da Bo per la Liguria e da Melloni per la Emilia. Il Comitato e Marazza non si erano opposti all'iniziativa di Tarchi, il quale voleva giungere ad un accordo con il CLN prima che divampasse la insurrezione».

Guai se in quei giorni ci fossimo lasciati invischiare dal feticismo della unità e se per timore di urtare questo o quest'altro personaggio avessimo capitolato di fronte a coloro che manovravano per cercare di impedire l'insurrezione. Sarebbe stata la ripetizione del 25 luglio; ma noi eravamo ben decisi a fare in modo che un altro 25 luglio in Italia non avesse a ripetersi. Si trattava dunque di essere estremamente vigilanti sullo sviluppo della situazione militare e politica. Lavorammo sempre in modo conseguente per rafforzare e allargare l'unità, ma l'unità nell'azione. L'unità nell'attesismo non avrebbe avuto scopo e senso alcuno. L'azione della sola avanguardia che non avesse unito e trascinato nella lotta le larghe masse popolari, sarebbe stata votata all'insuccesso; ma l'unità nell'attesismo, l'unità senza l'azione sarebbe stata il fallimento e il tradimento della insurrezione perché questa non ci sarebbe stata.

Non si può mai separare la politica dall'azione. Che cos'è la politica se non la lotta per il raggiungimento di un determinato obiettivo? In quel momento l'obiettivo nostro immediato era la lotta per la cacciata dei tedeschi e l'annientamento del fascismo. Quell'obiettivo non poteva essere raggiunto solo facendo della propaganda, dell'agitazione, scrivendo articoli od organizzando riunioni politiche. Quell'obiettivo lo si poteva raggiungere solo lottando con le armi alla mano: nella azione si creava e si rafforzava l'unità. Le forme di lotta possono essere e sono diverse a seconda delle situazioni e dei periodi storici, ma sempre, in qualsiasi condizione, l'unità della classe operaia e dei lavoratori la si rafforza e la si allarga con la lotta. Il colloquio, la discussione, la propaganda sono necessari, ma da soli non sono sufficienti ad allargare e rafforzare l'unità. Le larghe masse si persuadono e si convincono per propria esperienza, attraverso la lotta e in primo luogo con una lotta unitaria, ma accentuata, contro quello che a un dato momento è il «nemico principale» e con la critica verso coloro che con posizioni sbagliate sostengono o favoriscono questo nemico, verso coloro che lavorano per spezzare l'unità dei lavoratori e del popolo.

Le difficoltà che ci si presentarono in quel momento decisivo sono chiaramente rivelate dall'insistenza con la quale nelle direttive e negli appelli si invitavano i dirigenti e i militanti comunisti a non lasciarsi trarre in inganno da proposte subdole e da manovre ritardatrici. Dobbiamo agire uniti, scrivevamo, ma se gli altri non marciano dobbiamo agire noi, per nessun motivo dobbiamo rinunciare a insorgere. Si veda in proposito la direttiva insurrezionale N. 16, del 10 aprile 1945.

Naturalmente lo slancio insurrezionale delle masse, l'offensiva partigiana, la ritirata dei tedeschi spezzarono nel fuoco della lotta le remore e le esitazioni; la spinta unitaria dal basso costrinse anche chi resisteva a dare sia pure in ritardo, a nome del CVL, l'ordine ufficiale dell'insurrezione. «Lo diede, scrive L. Longo, parlando del gen. Cadorna, solo il pomeriggio del giorno 26, quando oramai l'insurrezione era un fatto compiuto quasi dappertutto».

La vittoria fece il resto. L'ordine del giorno votato dal Comitato di liberazione nazionale Alta Italia il 26 aprile sta a testimoniare non soltanto il successo della politica unitaria raggiunto nell'azione, ma anche il trionfo della volontà del popolo di rinnovare il paese e creare una nuova Italia.

«Il Comitato di liberazione nazionale per l'Alta Italia, in vista della riforma del governo che certamente seguirà alla liberazione dell'Italia del Nord, esprime al CLN centrale il voto che i ministeri decisivi per il rinnovamento democratico del paese, ed in particolare il ministero degli Interni siano affidati ad uomini che abbiano recisamente combattuto il fascismo sin dal suo sorgere e che diano prova di saper degnamente esprimere i bisogni di vita e di giustizia sociale e le profonde aspirazioni democratiche delle masse lavoratrici e partigiane che sono state all'avanguardia della nostra guerra di Liberazione».

Verso la metà di aprile Mussolini aveva convocato l'ultimo consiglio dei briganti neri, che al termine della sua riunione emetteva una solenne dichiarazione nella quale si diceva che «il partito fascista repubblicano è pronto a difendere in armi la rivoluzione... il fascismo repubblicano immune da ogni compromesso è intorno al duce e ai suoi ordini».

Questa volta poteva sembrare che i fascisti volessero fare sul serio, che fossero disposti a battersi sino all'ultima goccia di sangue. Sempre nel sopracitato comunicato proclamavano la «mobilitazione integrale di tutti i fascisti senza limiti di età e di condizioni fisiche per il 30 aprile». Mussolini, Pavolini e soci presaghi della prossima fine volevano mobilitare persino gli sciancati. Per che fare? Essi si proponevano di aiutare i tedeschi a distruggere le fabbriche, gli impianti industriali, le case, a fare della Valle padana una terra bruciata, un enorme territorio di cadaveri e di rovine. Ma i partigiani non attesero l'alba del 30 aprile per attaccare il nemico con tutti i mezzi e da tutte le parti.

Il tronfio proclama dei fascisti, se servì ad alimentare quelle correnti che avanzando il timore dei pericoli che Milano e la sua popolazione avrebbero corso, tentavano di opporsi all'insurrezione, non era che un'ultima ridicola guasconata. I fascisti avevano fissato una data per la mobilitazione generale delle loro forze, ma l'insurrezione non poteva essere regolata come un treno che può partire e arrivare a un orario prestabilito a una determinata stazione. Il giorno e l'ora dello scatenamento dell'insurrezione non poteva che essere determinato dalle circostanze e dallo sviluppo degli avvenimenti. Anche i piani insurrezionali, pur prevedendo tutte le misure necessarie, lasciavano giustamente ampio margine all'imprevisto. Guai se non fosse stato così, soprattutto in una guerra partigiana. Ad esempio il piano insurrezionale prevedeva che le divisioni garibaldine valsesiane avrebbero dovuto puntare su Milano per portare l'aiuto decisivo alla vittoria insurrezionale della capitale del Nord. La realtà volle diversamente. Le brigate valsesiane furono impegnate in aspri combattimenti con le truppe tedesche sulle sponde del Ticino e nelle battaglie per la liberazione del Novarese, si trovarono di fronte a formazioni corazzate tedesche con le quali dovette­ro impegnare dura battaglia per aprirsi il passo; riuscirono bensì ad avere ragione della resistenza tedesca, ma soltanto due giorni dopo la vittoria insurrezionale poterono raggiungere Milano.

Nessuno intende sottovalutare l'importanza dei «piani prestabiliti», ma non è in essi che si deve ricercare l'elemento decisivo della vittoria insurrezionale. Essa è stata soprattutto il risultato della lunga, tenace azione clandestina prima e dopo l'8 settembre, è stata il risultato della lotta ventennale contro il fascismo, dei 18 mesi di guerriglia partigiana e gappista la quale preparò e creò l'atto finale.

La guerra partigiana e l'insurrezione non è stata fatta da alcuni comandanti sul piano nazionale e da pochi altri comandanti e dirigenti politici sul piano regionale e provinciale; è stata il risultato dell'irrompere impetuoso delle masse popolari nella grande battaglia per la libertà e l'indipendenza del paese. In modo particolare nella guerriglia partigiana, in cui l'iniziativa delle singole unità, di ogni comando e di ogni nucleo partigiano è la più ampia e dove le direttive dei comandi superiori sono soprattutto orientatrici, il merito del successo dei numerosi combattimenti, e della stessa battaglia finale, va non solo a coloro che stavano alla testa, ma soprattutto al gran numero di combattenti, agli ufficiali e semplici partigiani, va al popolo tutto perché, lo si voglia o no, in nessun momento della storia del nostro paese vi fu un cosi gran numero di volontari che senza obblighi, senza costrizioni, anzi mettendo a repentaglio la vita presero le armi e combatterono per la liberazione e il rinnovamento del paese.


Resistenze.org     
Sostieni Resistenze.org.
Fai una donazione al Centro di Cultura e Documentazione Popolare.

Support Resistenze.org.
Make a donation to Centro di Cultura e Documentazione Popolare.