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Liberazione e impunità: dalla spia al ras di Ventotene, i neri al servizio della Repubblica
Massimo Novelli | ilfattoquotidiano.it
11/04/2025
Millenium n. 89 - Aprile 2025
L'album di famiglia dei fascisti riciclati in sei storie esemplari: lo squadrista Brandimarte, il direttore ella colonia penale Guida, la "jena del tribunale" Cristini, il procuratore antisemita Alliney, il cacciatore di ebrei Cortellini, l'agente segreto Luca
Il fascismo, forse, è stato un'illusione collettiva di gente malata. Dove sono i caporioni che l'hanno fondato, dove le squadre armate che l'hanno portato sui neri gagliardetti per tutti i paesi d'Italia, dove i gerarchi…?". Così, con amara ironia, Carlo Galante Garrone, uomo della Resistenza, scriveva su Il Ponte alla fine del 1947. Eppure, allora, non avrebbe potuto immaginare a che livello quella "illusione collettiva" sarebbe arrivata. Ecco sei storie esemplari.

Brandimarte: onori militari a uno stragista
Il 19 novembre del 1971, a Torino, davanti alla lussuosa clinica Fornaca, un centinaio di persone partecipa al funerale di Piero Brandimarte, ex luogotenente generale della Milizia fascista, morto a 78 anni. Era medaglia d'argento della prima guerra mondiale, certo, ma soprattutto lo squadrista che aveva diretto la strage di Torino del 18-19 dicembre 1922, in cui furono ammazzati tra gli 11 e i 24 militanti di sinistra (il numero esatto delle vittime non si seppe mai). A Brandimarte, in quel novembre, recano l'estremo omaggio rappresentanti della Milizia, degli Arditi d'Italia e di altre associazioni combattentistiche. Soprattutto, un reparto di bersaglieri del 22° reggimento fanteria della Divisione Cremona presta gli onori militari a un uomo che era stato condannato in primo grado, il 5 agosto 1950, a 26 anni e 3 mesi di reclusione per i fatti del '22.
Al pari di tanti altri criminali fascisti, però, Brandimarte era stato assolto dalla Corte d'Assise d'Appello di Bologna, con la solita insufficienza di prove. Era il 30 aprile '52. Al processo aveva dichiarato che la strage era stata opera di alcuni militi che agivano senza controllo. Peccato che in un'intervista a un giornale romano, del 24 giugno 1924, lo stesso imputato avesse rivendicato la mattanza di Torino. L'intervista fu rispolverata da La Stampa, il primo agosto 1950. Il cronista aveva domandato al console: "Ma lei parla di 24 morti. Invece questura e prefettura hanno comunicato un elenco di 14 morti soltanto. E 12 del resto sono i cadaveri ricoverati alla camera mortuaria". Brandimarte replicò: "Cosa vuole sappiano in questura e prefettura? Io sarò ben in grado di saperlo più di loro". Brandimarte, però, dal '52 era un uomo libero, non avrebbe mai saldato il conto con la giustizia. Ottenne persino gli onori militari. E quando, nel '59, il figlio di un antifascista lo riconobbe per strada e lo insultò, lui lo aggredì e lo portò al più vicino posto di polizia. I morti di Torino erano morti una seconda volta.

Guida: sorvegliare e punire, fino a piazza Fontana
Per tutta la sua vita vigilò e arrestò gli antifascisti. Marcello Guida (1913-1990) lo fece dal 1935, l'anno in cui era entrato in polizia, fino ai giorni insanguinati del dicembre 1969, quelli della strage di piazza Fontana, a Milano, e della morte del partigiano anarchico Giuseppe Pinelli. Fu poliziotto durante il Ventennio, sotto il governo Badoglio e poi nella Repubblica di Salò, approdando senza problemi, sempre da dirigente di polizia, nell'Italia libera e diventando questore di grandi città. A 24 anni fu nominato vice-direttore della colonia penale di Ponza, e, in seguito, direttore di quella di Ventotene, dove erano stati inviati al confino illustri esponenti dell'antifascismo. "Zelante esecutore, che sotto il fascismo", affermano gli storici, "ha servito il regime: ha diretto Ventotene con durezza". Dopo il 25 luglio '43 si mise agli ordini del governo Badoglio; quando i tedeschi occuparono Roma non ebbe dubbi e aderì alla Repubblica di Salò. Poi prese contatto con la Resistenza per salvare pelle e carriera. Il preteso antifascismo gli permise pertanto di evitare un processo e di ottenere poi cariche prestigiose: questore di Torino (dove era a libro paga della Fiat: un milione all'anno) e di Milano.
Guida "ha diretto Ventotene con durezza". Finì a libro paga della Fiat. Pertini non gli diede la mano
Ebbe un ruolo di primo piano nel depistaggio su piazza Fontana, facendo passare la morte di Pinelli per un suicidio e accusando lo stesso Pinelli, Pietro Valpreda e gli anarchici di essere gli autori della strage compiuta dai fascisti. Un pretore, Aldo Fiale, nel giugno '78, lo condannò a quattro mesi per falsa testimonianza, perché "non è credibile l'ex questore di Milano Marcello Guida allorché sostiene di non ricordare se pochi giorni dopo la strage di piazza Fontana, a Milano, mostrò a Rolandi [uno dei testi usati per la falsa pista anarchica] la fotografia di Valpreda". Da ex confinato a Ventotene, Sandro Pertini aveva rifiutato di stringergli la mano. Però Guida andò tranquillamente in pensione da funzionario del ministero dell'Interno.

Cristini: dal Tribunale Speciale alla pensione
Uno degli emblemi della mancata epurazione ha le fattezze dell'abruzzese Guido Cristini (1895-1979). Era uno dei presidenti del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, aveva condannato a decine di anni di carcere, e in alcuni casi anche alla fucilazione, numerosi antifascisti. Fascista della prima ora, avvocato e faccendiere, avido di denaro, di prebende e di allori, fu nominato al vertice del Tribunale Speciale nel 1928. Ci sarebbe rimasto fino al '32, quando lo stesso Mussolini decise di rimuoverlo: per compiacere il Duce, aveva fatto condannare i famigliari di Anteo Zamboni, attentatore mancato di Mussolini, estranei ai fatti. E persino a Mussolini tutto ciò non piacque.
Sotto la presidenza di Cristini, il Tribunale Speciale produsse 1725 condanne, 8806 anni di prigione e nove condanne a morte, tutte eseguite, tra cui quella dell'anarchico Michele Schirru. L'avvocato abruzzese, ricorda Pablo Dell'Osa nel suo libro Il tribunale speciale e la presidenza di Guido Cristini 1928-1932, fu "una meteora nell'universo fascista", che comunque "nel giudizio contro i gerarchi, dopo la caduta del regime, riuscì a passare indenne". Quando l'Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo emise un mandato di cattura contro di lui, nell'agosto del '44, Cristini si diede alla latitanza. Nel '46 riuscì a beneficiare dell'amnistia Togliatti. Titolò in prima pagina L'Unità, il quotidiano del partito del medesimo Togliatti, il 27 settembre del '46: "Le migliaia di antifascisti gettati in carcere da Guido Cristini, non possono credere che venga fatta alla democrazia italiana l'offesa di concedere l'amnistia alla jena del Tribunale speciale".
Le cose erano andate esattamente in quel modo. Cristini tentò di allora di rimettersi a fare l'avvocato, chiedendo una nuova iscrizione all'Ordine. Dal consiglio nazionale forense, presieduto da Piero Calamandrei, giunse un netto rifiuto nel maggio del 1950. Fu l'unica pena che scontò.
Alliney: l'antisemita che divenne procuratore generale
Nella primavera del 1944, Carlo Alliney, entrato in magistratura nel '31 e presidente dal gennaio '44 del Tribunale di Varese (un "giudice sottomesso ai tedeschi", ricorda qualche storico), divenne capo di gabinetto dell'Ispettorato Generale per la Razza. Era stato istituito a Desenzano del Garda e capeggiato del più fanatico razzista d'Italia: Giovanni Preziosi, braccio destro dei nazisti nella politica antisemita. Il giudice Alliney, nato nel 1905 a Cantello (Varese), fu dunque uno dei principali collaboratori di Preziosi, tanto da essere incaricato di stendere lo schema delle leggi razziali e di inasprirle, discutendone la bozza nel corso di incontri con Mussolini, il ministro della Giustizia, Piero Pisenti, e quello dell'Interno, Guido Buffarini Guidi. Preziosi si sarebbe suicidato nei giorni della Liberazione; Alliney proseguì indisturbato la sua carriera, raggiungendo i piani più alti della magistratura. Già nel '47, a dicembre, ottenne la nomina a consigliere di Corte d'Appello, a Milano. Non risulta, sottolinea il giurista Guido Neppi Modona, che l'ex consigliere giuridico del nazista Preziosi "per questa imbarazzante attività nella Rsi abbia subito alcuna conseguenza dopo la fine della guerra; fu promosso nel 1962 consigliere di Cassazione, poi nominato procuratore della Repubblica a Palermo e nel 1968 presidente di sezione della Corte d'Appello di Milano".
Alliney stese lo schema delle leggi razziali, poi nel '75 disse "i movimenti neofascisti non esistono"
La brillante carriera del magistrato antisemita, in ogni caso, non era ancora terminata. Nel '75, Alliney era procuratore generale a Palermo. Inaugurando l'anno giudiziario, il 7 gennaio, sostenne tra le altre cose che in Sicilia non esistevano movimenti neofascisti. I giornali della sinistra insorsero. Riferì l'Avanti!: "Addirittura è una gaffe la parte della relazione dedicata alla assenza, secondo il procuratore generale, di trame politiche di 'nessun colore' a Palermo; questo viene proprio pochi giorni dopo l'arresto dei neofascisti organizzatori di un preciso piano eversivo". Evidentemente Alliney continuava a pensarla come nel 1944. E altrettanto con evidenza nessuno era mai andato a spulciare tra le carte dell'Ispettorato Generale per la Razza della Repubblica di Salò.
Cortellini: il cacciatore di ebrei
Un nome sinistro per gli ebrei, e dimenticato da tutti gli altri, riecheggia il 27 gennaio 2021 in una seduta del consiglio comunale di Carrara. Si commemorano le vittime dell'Olocausto. Interviene la signora Maria Mattei, che parla degli ebrei italiani deportati. A un certo punto fa quel nome: Mario Cortellini. Spiega: "Abbiamo parlato di Venezia. Ebbene il vicecommissario Cortellini, uno dei responsabili dell'Ufficio razza della questura, colui che sovraintese al sequestro dei beni degli ebrei, non solo non venne epurato, ma divenne responsabile dell'Ufficio per il recupero dei beni ebraici alla Liberazione". In Italia, tuttavia, la figura di Cortellini resta ancora pressoché sconosciuta. Soltanto pochi lo hanno ricordato. Tra questi c'è lo storico Simon Levis Sullam. Nel libro I carnefici italiani rivela che il poliziotto, alla questura veneziana dagli inizi del '43 e con trascorsi a Foggia, nel 1944-45 fu tra i più attivi nel sequestrare i beni degli ebrei e "uno dei responsabili degli arresti porta a porta". Non solo non fu processato ed epurato, ma, dopo la Liberazione, "fu incaricato della restituzione dei beni a quegli ebrei che erano stati sue vittime". Pareva una farsa, era tutto drammaticamente vero.
I demoni si ripresentarono alle loro vittime travestiti da angeli, come rammenta Katharina Hüls-Valentinel suo saggio Il destino delle opere d'arte di proprietà ebraica sotto la Repubblica Sociale Italiana. Scrive che la restituzione agli eredi della contessa Adele Salom di una parte del cospicuo patrimonio sottratto "venne eseguita da due funzionari che i Salom avevano già incontrato durante il periodo fascista, e si manifesta qui l'amarezza della situazione: come avvocato fu loro assegnato Giuseppe Vania, proprio colui che era stato il direttore (fascista) responsabile della gestione dell'ente Egeli", l'Ente di gestione e liquidazione immobiliare creato nel 1939 per incamerare i beni ebraici. Il "responsabile dell'Ufficio recupero fu un certo Mario Cortellini che, durante il periodo fascista, ricoprendo la carica di funzionario dell'Ufficio razza della questura, aveva ordinato un'irruzione nella villa a Conselve durante la quale Adele Salom morì a seguito di percosse ricevute dai fascisti". La storia di Cortellini, conclude la Hüls-Valenti, fa emergere "non solo il problema della mancata epurazione", ma porta alla luce "un meccanismo di rimozione che permise a personaggi come Mario Cortellini di proseguire le loro carriere nel dopoguerra".
Luca: i misteri da "turiddu" all'Iran
È passato alla storia per aver fatto uccidere il bandito Salvatore Giuliano, nel luglio 1950, dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, che, dopo avere ammazzato Turiddu nel sonno, sarebbe morto a sua volta, nel 1954, ma di veleno, nel carcere dell'Ucciardone. Quello dell'assassinio di Giuliano non fu l'unico mistero, o affare sporco, che segnò l'esistenza del generale dei carabinieri Ugo Luca. Era stato dagli anni Venti ai Quaranta uno degli attori principali dello spionaggio fascista nei ranghi del Sim, il Servizio Informazione Militare. Operò in particolare nel Vicino Oriente, ma anche in Spagna, al fianco dei franchisti, nella guerra civile. Nella veste di colonnello e di spia del Duce fece con ogni probabilità assassinare in Iran, nell'aprile del '42, la giornalista italiana antifascista Lea Schiavi.
Il generale Luca fece con probabilità uccidere la giornalista Lea Schiavi. Poi fu coperto
Nell'estate del '44 il giornalista americano Winston Burdett, marito di Lea, denunciò Luca all'Alto Commissariato per la Punizione dei delitti fascisti di Roma, accusandolo di essere il mandante dell'omicidio. Si basava sulle ammissioni che gli aveva fatto Lauro Laurenti, uomo d'affari residente in Iran. Davanti al magistrato, tuttavia, Laurenti ritrattò. Ugo Luca non venne mai interrogato. Perciò il caso fu subito archiviato. Gli americani ebbero quasi certamente un ruolo fondamentale nel riciclaggio di Luca. Gli agenti dell'Oss, lo spionaggio degli Usa, dopo l'8 settembre '43 avevano ingaggiato e protetto tanto l'ufficiale del SIM quanto Laurenti, nonostante il loro passato più che fascista, facendoli addirittura figurare come partigiani in due formazioni fantasma, controllate strettamente dagli americani. L'Italia, nel frattempo, aveva totalmente dimenticato la coraggiosa Lea Schiavi. Laurenti fece carriera come manager di grandi aziende, anche di Stato. Ugo Luca fu promosso generale dopo avere organizzato l'eliminazione di Giuliano e la successiva messa scena dell'assassinio: si fece credere che il bandito fosse caduto in uno scontro a fuoco. L'operazione condotta dall'ex agente del Sim si iscrive tra i grandi e irrisolti misteri d'Italia. E l'omertà del generale, morto nel '67, non venne mai meno.
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