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Mercoledì 12 aprile 1961, Il giorno del lancio

Jurij Gagarin | Non c'è nessun dio quassù, RedstarPress, 2013

* * *

Il giorno del lancio si avvicinava. Da un giorno all'altro dovevamo partire per il cosmodromo di Bajkonur ed ero impaziente. Raramente nella mia vita ho dovuto sopportare attese così penose. Sapevo che la nave cosmica che sarebbe stata lanciata di lì a poco aveva ricevuto il nome di Vostok20 forse per ricordare che il sole sorge a Oriente e che la luce sgorga dall'Oriente quando viene a cacciare le tenebre della notte.

Prima della partenza ci fu una riunione d'addio dei membri del partito. Tutti pensavano che sarei stato io il primo viaggiatore del cosmo. E tutti prendevano la parola: quelli che partivano e quelli che dovevano restare.
- Noi vi invidiamo, ma senza cattiveria, con amicizia. Tutti i nostri auguri di buon viaggio. Quando tornerete dal cosmo, non fate le persone importanti, non datevi troppe arie. Restate modesti come siete oggi - dicevano i nostri compagni.
Venne il mio turno e dissi: - Sono felice e fiero di essere stato scelto come uno dei primi cosmonauti.
Non ho risparmiato le forze per figurare tra i migliori. Prometto ai miei compagni comunisti che non le risparmierò in avvenire e che farò tutto quello che è in mio potere per compiere la missione che mi sarà affidata dal partito e dal governo. Partirò per il cosmo con la coscienza tranquilla e il più gran desiderio di portare a termine il mio compito come ogni comunista deve saper fare. Unisco la mia voce a quella dei numerosi collettivi di scienziati e di operai che, avendo creato la nave cosmica, vogliono dedicarla al XXII Congresso del nostro partito.
Nessuno pronunciò lunghi discorsi a questa riunione. Tutti erano commossi. Forse, pensavo, durante la guerra i comunisti s'erano raccolti a questo modo per salutare i compagni in partenza.

Molti cosmonauti dovevano raggiungere il cosmodromo. Bisognava essere pronti a tutte le eventualità. Se un granello di polvere fosse finito nell'occhio del primo candidato, se la sua temperatura fosse aumentata di un mezzo grado o il suo polso si fosse messo a battere una mezza dozzina di pulsazioni in più al minuto lo si doveva sostituire con un altro cosmonauta allenato altrettanto bene. Tutti i compagni che partivano erano, come me, pronti al volo. Il lancio doveva aver luogo assolutamente il giorno fissato, all'ora e al minuto previsti. Molti medici e specialisti ci accompagnavano.

Qualche giorno prima del volo ero tornato a Mosca, e per tutto il viaggio verso il cosmodromo pensai all'emozione che m'aveva assalito davanti al Mausoleo. Molti sovietici, prima di compiere qualcosa di decisivo, si sentono attirati dalla Piazza Rossa e vanno a salutare Lenin davanti al Cremlino. Nelle chiare notti di giugno, studenti e studentesse che hanno ottenuto il loro diploma di studi secondari, attraversano la Piazza Rossa tenendosi per mano. Vent'anni fa, in quel terribile 1941, le milizie popolari di Mosca sfilarono davanti al Mausoleo. E quando i sovietici vengono a Mosca da un punto qualsiasi del paese, sentono il bisogno di venire qui, su questa piazza. Anche i nostri amici stranieri lo fanno.
Avevo costeggiato lentamente le mura del Cremlino, dalla parte della Moscova, e l'orologio della Torre Spasskaja s'era messo a suonare nel momento in cui attraversavo la piazza. M'ero fermato all'entrata del Mausoleo, la mano alla visiera, per assistere al cambio della guardia. Poi, rallegrato da un volo di colombi e dalla vista della nostra bandiera sul Palazzo del Cremlino, me n'ero andato senza meta attraverso la città che per me non ha uguali al mondo.

Una marea umana rumoreggiava attorno a me, forse eccitata dalla primavera, e migliaia di persone mi passavano accanto sfiorandomi.
Nessuno mi prestava attenzione, nessuno sapeva che si stava preparando un avvenimento formidabile, senza precedenti nella storia. «Ci sarà un'esplosione di gioia in tutto il popolo, - pensavo - quando l'impresa sarà realizzata».

Partimmo di notte per il cosmodromo. Uno dei nostri accompagnatori era Evgenij Anatolevic, nostro comandante, medico e guida. Quest'uomo affascinante e pieno di tatto, che da vent'anni si dedicava alla preparazione degli aviatori, s'era preso cura di noi fin dai primi giorni della nostra preparazione. E adesso eravamo per lui, secondo le sue parole, come dei libri nei quali poteva leggere dalla prima all'ultima pagina. Ci conosceva meglio di quanto non ci conoscessimo noi stessi. Oltre a Evgenij Anatolevic vi erano, tra i nostri accompagnatori, Nikolaj Petrovic Kamanin, uno dei primi eroi dell'Unione Sovietica, cui si doveva la formazione di numerosi eccellenti piloti.

Volavamo al di sopra di nuvole vaporose che lasciavano intravedere, attraverso squarci improvvisi, la terra nuda di primavera qua e là ancora coperta di neve molle. Guardavo in basso e pensavo ai miei genitori, a Valja, alle mie bambine. A un certo momento mi sorpresi a chiedermi che cosa avrei fatto dopo il volo. E mi risposi che, dopo, avrei continuato a studiare.

Al mio fianco era seduto un mio grande amico, Titov, un audace pilota, il cosmonauta numero 2. Anche lui comunista, entrato nel partito attraverso la nostra organizzazione, anche lui dotato di un buonumore stabile, era pervaso dalla gioia di vivere come un bambino. E adesso anche lui guardava la terra scorrere sotto i nostri piedi e senza dubbio rimuginava i miei stessi pensieri. A volte i nostri sguardi si incrociavano. Allora ci scambiavamo un sorriso e ci capivamo così, senza bisogno di parole.

Qualcuno aveva temuto che, venuti a conoscenza della data del lancio saremmo diventati nervosi. Niente di simile era accaduto. Il mio compagno, pronto a prendere il mio posto nella cabina del Vostok se fosse stato necessario, e io stesso, eravamo in una forma smagliante.
Vedevo Titov di profilo e non potevo impedirmi di ammirare i tratti regolari del suo volto intelligente, la fronte spaziosa sulla quale ricadeva un ciuffo di capelli castani. Allenato come me, era certamente in grado di affrontare prove più difficili. Di qui m'ero convinto che i nostri dirigenti, avendo scelto me per il primo volo, volevano tenerlo in serbo per un'altra e più complessa missione.

Al cosmodromo fummo ricevuti da numerosi specialisti che già conoscevamo e dal costruttore capo in persona. Gli stava accanto il teorico della cosmonautica, un grande scienziato sovietico che noi chiamavamo così da quando avevamo saputo che sotto la sua direzione venivano effettuati tutti i calcoli per i viaggi cosmici. Lui e il costruttore capo formavano una coppia inseparabile. Sapevo che questi due uomini non si sarebbero mai concessi un istante di tregua, che non avrebbero mai cessato di cercare il nuovo, sempre con maggiore audacia. Basti dire che la collaborazione creatrice di questi due grandi esponenti della scienza sovietica, e delle squadre di scienziati e ingegneri uniti dal loro pensiero, aveva prodotto la nostra nave cosmica, tracciandole una via sgombra di pericoli attorno al nostro pianeta per ricondurla intatta alla Terra.

Al comodromo, dove eravamo sbarcati poco prima del lancio del Vostok, tutto suscitava ammirazione e meraviglia. Era un mondo così solenne che ci si sentiva spinti a farne il giro rispettosamente, a capo scoperto. Le rampe di lancio dei razzi cosmici e le installazioni destinate a seguirne il volo erano forse più complicate delle navi spaziali. Il tempo passò veloce e ci trovammo d'un tratto alla vigilia del giorno stabilito per il lancio.

Finalmente, per noi cosmonauti, era giunto un periodo di completo riposo. Un magnetofono diffondeva una musica dolce e riposante.
Era ormai la sera della vigilia. Dopo una breve partita a biliardo cenammo a tre: il medico e noi due cosmonauti. Da qualche giorno il nostro menù era esclusivamente composto di alimenti «cosmici», saporiti e sostanziosi, che schiacciavamo direttamente in bocca dai relativi tubetti.
Durante il pasto non si parlò del volo ma della nostra infanzia, dei libri letti, del nostro avvenire. Eravamo di umore eccellente. Il costruttore capo, buono e premuroso come sempre, venne a vederci. Non ci fece domande e disse semplicemente: - Tra cinque anni, per andare nel cosmo, basterà rivolgere una domanda ai sindacati. La battuta fu accolta da una risata. E il costruttore capo, soddisfatto di vederci così calmi e allegri, se ne andò dopo aver consultato il suo orologio. Il suo modo di fare non tradiva la più piccola preoccupazione. Era sicuro di me come di se stesso.

Poi il medico mi applicò al corpo sette elettrodi sensibili che avrebbero dovuto registrare le funzioni fisiologiche del mio organismo. La procedura era abbastanza lunga e niente affatto piacevole. Ma l'avevo già subita più d'una volta durante gli allenamenti e mi ci ero abituato.
Alle 21.50 Evgenij Anatolevic mi misurò la tensione arteriale, la temperatura e il polso. Tutto normale: tensione 115, temperatura 36,7, polso 64.
- E adesso, a letto - ordinò.
- A letto? D'accordo - risposi docilmente.

Me ne andai subito a dormire, nella stanza dov'era stato sistemato un letto anche per Titov. Da molti giorni, ormai, facevamo le stesse cose, avevamo lo stesso regime, come due gemelli. Del resto, non ci si sente forse tali quando si vive strettamente uniti per raggiungere lo stesso scopo? Stavamo scherzando tra noi quando Evgenij Anatolevic entrò nella stanza.
- Bambini, avete bisogno che vi aiuti ad addormentarvi? - ci chiese, tenendo le mani sprofondate nelle tasche del camice bianco.
Rifiutammo tutti e due il sonnifero. Non ne avevamo bisogno. E del resto eravamo sicuri che il nostro medico non aveva con sé alcuna compressa di questo tipo sapendo perfettamente ciò che serviva ai suoi pazienti. Ci avevano raccontato di lui che quando un aviatore si lamentava d'una emicrania e gli chiedeva un'aspirina, Evgenij Anatolevic gli somministrava del bicarbonato di soda ottenendo l'effetto desiderato: il mal di testa scompariva immediatamente. Sei o sette minuti dopo ero già addormentato.

Il giorno seguente lo stesso Evgenij Anatolevic mi disse che una mezz'ora più tardi era entrato a passi di lupo nella nostra stanza e aveva constatato che dormivo profondamente, sdraiato sulla schiena, una mano contro la guancia. Anche il cosmonauta numero 2 dormiva, piegato sul fianco destro. Molte altre volte, nel corso della notte, il dottore era venuto a controllare il nostro sonno. Dormivamo tranquillamente, sempre nella stessa posizione, e nessuno di noi aveva avvertito la sua presenza. Penso di aver dormito saporitamente, senza incubi e senza sogni. Alle tre del mattino era venuto a vederci anche il costruttore capo. Aveva socchiuso l'uscio, s'era accertato che dormissimo e se n'era andato quasi subito. Non aveva sonno, lui, ed era rimasto fino a tarda notte a leggere la rivista «Moskva».

Evgenij Anatolevic non aveva chiuso occhio. Aveva passeggiato tutta la notte attorno alla casa, furioso contro le automobili che passavano sulla strada e i rumori provenienti dal cantiere di montaggio. Ma noi avevamo dormito come dei neonati e non c'eravamo accorti di niente. Alle 5.30 Evgenij Anatolevic entrò nella stanza, mi toccò una spalla dicendo: - Jura, bisogna alzarsi.
- Alzarsi ? Va bene...
Un attimo dopo ero in piedi e, accanto a me, Titov canticchiava un motivo buffo che avevamo composto noi due e che parlava di mughetti.
- Avete dormito bene? - chiese il dottore.
- Come avete potuto constatare - gli risposi.

Dopo l'abituale ginnastica e la toletta mattutina facemmo colazione coi soliti tubetti: pasta di carne, gelatina di ribes nero, caffè. Poi fu la volta della visita medica e del controllo degli elettrodi che avevano registrato le nostre funzioni biologiche. Tutto era normale e il responso fu scritto nel protocollo medico. Era venuto il momento di indossare l'equipaggiamento cosmico. Cominciai da una tuta aderente, azzurra, calda, soffice e leggera.

Successivamente i miei compagni mi aiutarono a entrare nello scafandro di protezione, di un vivace arancione, che doveva permettermi di lavorare anche se, in orbita, la cabina della nave cosmica avesse perduto le sue qualità ermetiche. Perdemmo un certo tempo nel controllo accurato di tutti i dispositivi e le apparecchiature dello scafandro, infilai il casco speciale che mi isolava dai rumori e, sopra questo, un altro casco ermetico sul quale erano dipinte quattro lettere maiuscole: «CCCP».

Tra quelli che mi aiutavano in questa complicata vestizione c'era il celebre paracadutista Nikolaj Konstantinovic, l'istruttore che aveva insegnato ai cosmonauti i salti più difficili. I suoi consigli mi erano particolarmente preziosi perché Nikolaj Konstantinovic s'era fatto catapultare da un aereo in volo legato a un sedile simile a quello installato nella nave cosmica e munito di uno speciale sistema di paracadute. La cosa era importante per noi dato che, secondo i programmi del primo volo cosmico, era stata presa in considerazione una variante in base alla quale il cosmonauta sarebbe stato catapultato a una altezza relativamente bassa, sia per ragioni di sicurezza sia nel caso in cui l'astronave fosse andata ad atterrare in una regione accidentata. Liberatosi in un secondo tempo del sedile, il cosmonauta avrebbe potuto atterrare col paracadute individuale mentre la nave cosmica avrebbe effettuato una normale discesa, rallentata da altri paracadute.

A questo punto entrò il costruttore capo. Per la prima volta mi sembrò stanco e preoccupato, forse a causa della notte insonne. Ma un sorriso benevolo gli illuminava a tratti il volto tirato. L'avrei abbracciato volentieri, come se fosse stato mio padre. Mi diede gli ultimi consigli ed ebbi l'impressione di vederlo più sollevato dopo il nostro colloquio.
- Tutto andrà bene, tutto funzionerà normalmente - gli dicemmo, il cosmonauta numero 2 e io, simultaneamente.
In basso ci aspettava un autocarro specialmente attrezzato. Presi posto nella «poltrona cosmica», somigliante a quella che mi aspettava nella nave spaziale perché il mio scafandro, dotato di un sistema di aereazione alimentato da energia elettrica e ossigeno, doveva essere in contatto con le fonti di energia installate sull'autocarro. Tutto funzionava perfettamente.

Cominciammo a filare sulla strada e, di lontano, scorsi il corpo argenteo del missile puntato verso il cielo coi suoi sei motori capaci di sviluppare una forza di venti milioni di cavalli. Man mano che ci avvicinavamo alla rampa di lancio, il missile si faceva sempre più grande, simile a un immenso faro, adesso che il primo raggio di sole ne illuminava la cuspide affilata. Il tempo era favorevole al volo. Il cielo era puro. Soltanto sul fondo, lontanissimi, erano visibili cumuli di nuvole di un luminoso grigio perla.

- Un milione di chilometri di altezza. Un milione di chilometri di visibilità - sentii gridare attorno a me.
Solo un aviatore poteva servirsi di quel linguaggio. Sul terreno di lancio, uno accanto all'altro, vidi subito il costruttore capo e il teorico della cosmonautica. Erano insieme come sempre, in questa che doveva essere la loro più difficile giornata. I loro volti espressivi erano illuminati dal sole mattutino che ne metteva in risalto la più piccola ruga. Poco lontano c'erano i membri della Commissione statale per il primo viaggio cosmico, i direttori del cosmodromo, la commissione di partenza, scienziati, costruttori, il mio fedele amico Titov e tutti gli altri cosmonauti.
- Questo sole, - gridai loro - dà la gioia di vivere! E pensai al mio primo volo nel Grande Nord, alle colline coperte di una neve rosata che scorrevano sotto l'aereo, alla terra cosparsa dalle macchie azzurre dei laghi, al mare di un blu profondo che tormentava gli scogli.
- Com'è bello! - avevo gridato.
- Controllate gli apparecchi di bordo! - mi era stato severamente replicato dal capogruppo.

Era già passato molto tempo da quell'episodio e mi tornava ora alla mente, vivissimo. La lezione era giusta: le emozioni personali non devono distrarci nei momenti decisivi.
Adesso l'impazienza generale era al colmo. Tutti consultavano nervosamente i cronometri. E finalmente fu annunciato che tutto era pronto per il volo cosmico. Non restava che installare il cosmonauta nella cabina, procedere all'ultimo controllo di tutti i sistemi ed effettuare il lancio. Mi avvicinai allora al presidente della Commissione statale, uno dei più noti dirigenti industriali del nostro paese, per far gli il mio rapporto: - Il pilota Gagarin è pronto per il primo volo cosmico a bordo della nave spaziale Vostok.
- Buon viaggio! Buona fortuna! - rispose quello stringendomi energicamente la mano. Senza essere forte, la sua voce era gaia e calda, come quella di mio padre.

Guardai la cosmonave sulla quale avrei dovuto imbarcarmi qualche istante dopo per un viaggio senza precedenti. Era bella. Più bella di una locomotiva, di un piroscafo, di un aereo, di tutti i palazzi e di tutti i ponti del mondo. Pensai che la sua bellezza sarebbe stata immortale, per lunghi secoli, nella memoria degli uomini di tutti i paesi. Avevo davanti a me non soltanto una stupenda creazione della tecnica ma anche un'opera d'arte impressionante.

Prima di prendere l'ascensore per salire fino alla cabina della nave cosmica, pronunciai una dichiarazione per i giornali e la radio. Le mie facoltà erano come raddoppiate. Avvertivo con tutto il mio essere la musica della natura, un leggero fruscio di foglie seguito dal ruggito del vento, il rombo delle onde tempestose che precipitavano contro la riva sovrastando tutti gli altri rumori. Questa musica nasceva dal più profondo del mio essere esprimendone tutte le emozioni e mettendomi sulle labbra parole che non avevo mai usato nella vita di tutti i giorni.
- Cari amici vicini e sconosciuti, miei compatrioti, genti di tutti i paesi e di tutti i continenti, - cominciai - tra qualche minuto un potente missile cosmico mi porterà verso le lontane immensità dell'universo. Cosa posso dirvi in questi istanti che precedono la partenza? In questo momento tutta la mia vita mi appare come una cosa meravigliosa.

Feci una pausa, raccolsi le idee e mi sfilò davanti agli occhi tutta la mia vita. Mi rividi bambino, in corsa a piedi nudi dietro i pastori a guardia dei greggi colcosiani, scolaro intento a scrivere per la prima volta il nome di Lenin, allievo della scuola professionale davanti al primo pezzo da me fabbricato, studente in attesa del diploma e finalmente aviatore a guardia delle frontiere del mio paese.
- Tutto il mio passato, tutte le mie azioni mi hanno condotto a questo istante - dissi. E ripensai all'ultimo giorno di allenamento, quando mi era stato comunicato che sarei stato io il primo a volare.
- Comprenderete tutti che mi è difficile analizzare i miei sentimenti in questo momento che precede una prova alla quale ci siamo preparati così a lungo e con tanto entusiasmo, che è difficile parlare di ciò che ho provato allorché mi fu proposto di effettuare questo volo, il primo nella storia. Era un sentimento di gioia? No. E non era soltanto orgoglio. Ho provato una grande felicità. Penetrare per primo nel cosmo, trovarmi faccia a faccia con la natura in un confronto straordinario. Chi potrebbe sperare qualcosa di più? Il silenzio era completo. Il nastro del magnetofono frusciava leggermente, come una lieve brezza che sfiora l'erba.

- Subito dopo, - aggiunsi - compresi l'enorme responsabilità che pesava su di me. Essere il primo a compiere il sogno di molte generazioni di uomini, ad aprire all'umanità la via del cosmo. C'è oggi un compito più complesso di questo? È una responsabilità assunta non davanti a una sola persona, davanti a qualche decina di uomini o davanti a un collettivo. È una responsabilità assunta davanti a tutto il popolo sovietico, davanti all'umanità, al suo presente e al suo avvenire. E se sono fermamente deciso a compiere questo volo è perché sono comunista, perché alle mie spalle ho una folla di esempi dell'eroismo dei miei compatrioti.

Pensavo a Kapaev e a Ckalov, a Pokryškin e a Kurcatov. Tutti e tutti avevano attinto e attingevano le loro forze vitali a una sorgente profonda e pura: le teorie di Lenin. Là ci eravamo arricchiti anche noi cosmonauti e tutta la giovane generazione formata dal partito di Lenin.
Poi continuai: - Sono certo che farò appello a tutta la mia volontà per compiere questa missione nel migliore dei modi. Cosciente delle mie responsabilità, consacrerò tutti i miei sforzi a portare a termine il compito affidatomi dal partito comunista e dal popolo sovietico. Se sono felice di partire per il cosmo? Certamente. In ogni epoca alcuni uomini hanno avuto la felicità suprema di prendere parte a qualche grande scoperta.

Parlando, guardavo al di sopra del microfono e vedevo i volti attenti dei miei istruttori e dei miei amici: il costruttore capo, il teorico della cosmonautica, Nikolaj Petrovic Kamanin, Evgenij Anatolevic così buono e cordiale, il cosmonauta numero 2...
- Vorrei dedicare questo primo volo cosmico alla società comunista nella quale il nostro popolo sovietico sta per entrare e nella quale, ne sono certo, finiranno per entrare tutti gli abitanti della Terra.
A questo punto vidi il costruttore capo gettare un'occhiata discreta al suo orologio. Dovevo tagliare corto col mio discorso.
- Non mi rimangono che pochi minuti. Vi dico arrivederci, come chi parte per un lungo viaggio. Vorrei potervi abbracciare tutti, quelli che conosco e quelli che non conosco. E dall'alto della piattaforma, prima di entrare nella cabina, alzai le braccia per salutare i miei compagni che restavano sulla Terra.
- A presto! - gridai.

Entrai nella cabina che aveva l'odore del vento delle praterie. Dopo avermi sistemato nella poltrona, i miei accompagnatori uscirono chiudendo il portello senza rumore. Ero solo con gli strumenti di bordo, rischiarato non più dalla luce del giorno ma da quella artificiale. Udivo tutto ciò che accadeva attorno al missile, su questa Terra adorata che d'un tratto m'era diventata ancora più cara. Finalmente sentii ritirare i cavi d'acciaio e farsi un gran silenzio. Allora feci il primo rapporto: - «Terra», qui parla «Cosmonauta». Ho verificato i sistemi di comunicazione. Sul quadro di comando le leve di direzione sono in posizione giusta. Il globo è sulla linea di divisione. Pressione nella cabina, una unità; umidità, 65 per cento; temperatura, 19 gradi; pressione nel compartimento stagno, 1,2; pressione nei sistemi di orientamento, normale.
Mi sento bene. Sono pronto alla partenza.

Il direttore tecnico del volo annunciò che il lancio avrebbe avuto luogo tra un'ora e mezza. Poi tra un'ora. Poi tra mezz'ora. Pochi minuti prima del lancio mi comunicarono che il mio volto era chiaramente visibile sugli schermi della televisione e che il mio coraggio rallegrava tutti. Seppi anche che il mio polso batteva 64 pulsazioni al minuto e che la mia respirazione era al coefficiente 24. Risposi: - Il mio cuore batte normalmente. Mi sento bene. Ho infilato i guanti e chiuso il casco ermetico. Sono pronto a partire.

Cominciai a ricevere gli ordini relativi al lancio. E finalmente il direttore di volo ordinò: - Partenza! Al che risposi: - Andiamo! Tutto funziona normalmente. Mi sento bene.
Il mio sguardo cadde sul quadrante del cronometro: le lancette segnavano le nove e sette minuti, tempo di Mosca. Udii un sibilo, poi un rombo sempre più alto, sentii che il missile gigante vibrava da cima a fondo violentemente e che lentamente, molto lentamente, si staccava dalla rampa di lancio. Il rumore, per la verità, non era molto più assordante di quello che si deve sopportare nella carlinga di un aereo a reazione, ma qui si traduceva in risonanze musicali e timbri così particolari che nessun compositore avrebbe potuto riprodurli né con l'impiego di strumenti musicali né con la voce umana. I potenti motori del missile sembravano inventare una musica del futuro forse ancora più commovente e più bella delle più grandi opere del passato.

Poi cominciarono a farsi sentire i sovraccarichi. Una forza irresistibile mi appiattiva contro la poltrona, inclinata con un certo angolo per ridurre il peso enorme che mi schiacciava. Ma anche così, m'era impossibile muovere un braccio o una gamba. Sapevo che questo stato non sarebbe durato a lungo, che sarebbe finito nel momento in cui, acquistando ancora velocità, il razzo avrebbe collocato in orbita la nave cosmica. Per il momento però i sovraccarichi continuavano ad aumentare.
La «Terra» comunicò: - Sono passati settanta secondi dal decollo.
- Ricevuto - risposi. - Settanta secondi. Mi sento bene. Continuo il volo. I sovraccarichi aumentano. Va tutto bene.

Avevo risposto con voce ferma e tuttavia pensavo: come, soltanto settanta secondi? Ma i secondi sono lunghi come minuti! «Terra» chiamò ancora: - Come va la salute? - Molto bene. E da voi, come va? - Tutto normale - rispose «Terra».
Ero collegato con la Terra attraverso tre canali di comunicazione funzionanti nei due sensi. Le radiotrasmissioni di bordo, a onde corte, emettevano sulla frequenza di 9,019 e di 20,006 megahertz e, nel diapason delle onde ultracorte, sulla frequenza di 143,625 megahertz. Le voci dei compagni che lavoravano alle stazioni radio terrestri mi pervenivano così chiare che avrei potuto crederli a due passi da me. Quando il missile ebbe superati gli strati densi dell'atmosfera, il cono protettivo che ne ricopriva la testa fu espulso automaticamente e dagli oblò mi apparve, lontanissima, la superficie della Terra. In quel momento il Vostok sorvolava un largo fiume siberiano e ne distinguevo nettamente glI isolotti coperti d'alberi, illuminati dal sole.
- Com'è bello! Il grido m'era sfuggito dalle labbra. Ma mi fermai lì. La mia missione non consisteva nell'ammirare il paesaggio ma nel trasmettere informazioni utili. Nello stesso momento «Terra» chiamò per sollecitarmi un comunicato.
- Vi sento benissimo - risposi. - Sto perfettamente bene. Il volo prosegue normalmente. I sovraccarichi aumentano ancora. Vedo la Terra, una foresta, delle nuvole.

Effettivamente i sovraccarichi continuavano ad aumentare ma il mio organismo vi si adattava poco a poco. Arrivai a pensare che ne avevo sopportati di maggiori nella centrifuga. Persino le vibrazioni mi parvero più sopportabili di quelle subite nel corso degli allenamenti. In una parola, il diavolo non è poi così brutto come lo descrivono.

Un missile cosmico pluristadio è una costruzione così complessa che è impossibile paragonarlo a qualsiasi altra cosa. È dunque difficile parlarne dato che la conoscenza si fonda proprio sui paragoni. I diversi stadi del missile si staccano automaticamente uno alla volta non appena hanno esaurito la loro scorta di combustibile. In questo modo non diventano un peso morto per il resto del razzo, che prosegue la sua corsa sempre più veloce. Non avevo mai conosciuto gli inventori del combustibile, leggero e facilmente trasportabile, che alimenta i motori dei missili sovietici. Ma adesso avevo voglia di stringere loro la mano, di ringraziarli calorosamente perché grazie al loro combustibile stavo salendo sempre più in alto, verso l'orbita prestabilita. Anche i complessi motori funzionavano perfettamente, con la precisione del grande orologio del Cremlino. Uno dopo l'altro, dunque, gli stadi del razzo si staccavano automaticamente finché, a un certo momento, potei comunicare: - In questo istante, come previsto, la nave cosmica si è separata dal missile vettore. Mi sento bene. Ecco i parametri dell'interno della cabina: pressione, una unità; umidità, 65 per cento; temperatura, 20 gradi. La pressione è identica nel compartimento stagno e normale nei sistemi di orientamento.

La nave cosmica aveva raggiunto la sua orbita nella larga strada del cosmo e adesso, finiti i sovraccarichi, mi trovavo nello stato di imponderabilità di cui parlavano i libri di Ciolkovskij che avevo letto da bambino. Inizialmente provai un senso nuovo e straordinario di beatitudine.
Poi, con l'abitudine, mi rimisi a eseguire il programma stabilito e a chiedermi cosa avrebbero detto sulla Terra quando si sarebbe diffusa la notizia del mio volo.

Per tutti noi, abitanti della Terra, l'imponderabilità è un fenomeno piuttosto strano, ma l'organismo si adatta abbastanza rapidamente a questa singolare impressione di leggerezza di tutte le membra. Cosa mi accadde in quello stato? Bisogna dire, prima di tutto, che il passaggio alla condizione di imponderabilità era avvenuto progressivamente e che a un certo punto, col diminuire della forza di gravità, avevo cominciato a sentirmi meravigliosamente bene. Staccato dal sedile, mi trovai sospeso tra il soffitto e il pavimento della cabina. Tutti i miei gesti erano facili. Non sentivo né braccia, né gambe, né corpo perché non avevano più alcun peso. Non ero né seduto né sdraiato: letteralmente, galleggiavo all'interno della cabina assieme a tutti gli oggetti che non erano stati fissati in precedenza. Mi sembrava di vivere un sogno assurdo. La tavoletta di legno, la matita e il quaderno di appunti erano sospesi a mezz'aria. Alcune gocce d'acqua, sfuggite dal tubetto flessibile, sembravano piccole biglie rotolanti liberamente nello spazio. Poi, quando entravano in contatto con la parete della cabina, vi si incollavano come gocce di rugiada su un fiore.

Lo stato di imponderabilità non nuoce alle capacità lavorative dell'uomo e quindi non mi impediva di svolgere la mia attività, di controllare le apparecchiature della nave cosmica, di guardare attraverso gli oblò e di annotare le mie osservazioni sul giornale di bordo. Per scrivere mi servivo di una comune matita e compivo questo lavoro vestito del mio scafandro, senza togliermi i guanti ermetici. Stendevo le mie annotazioni senza difficoltà, una dopo l'altra, sui fogli del giornale di bordo e solo una volta, dimenticandomi per un attimo dove mi trovavo, appoggiai la matita accanto a me e la vidi partire da sola, galleggiando nell'aria. Ma non mi preoccupai di inseguirla. Contemporaneamente dovevo descrivere ad alta voce tutto quello che vedevo perché un magnetofono stava registrando su un nastro magnetico ogni mia parola. Infine continuavo a mantenere i contatti radio con la Terra attraverso i canali telefonici e telegrafici.
«Terra» mi chiamò: volevano sapere cosa vedessi in quel momento e risposi loro che il pianeta aveva un aspetto pressappoco analogo a quello che avevo già osservato volando ad altissima quota sugli aerei a reazione.

Le catene di montagne, i grandi fiumi, le grandi foreste, le isole e i contorni delle coste si distinguevano nettamente. Il Vostok viaggiava a velocità incredibile sugli immensi spazi del mio paese per il quale sentivo un grande affetto filiale. E come non amarlo, questo paese, ora che tutti i popoli del mondo avevano gli occhi puntati su di esso? Miserabile, arretrato ancora pochi anni fa, era diventato una grande potenza industriale e colcosiana mentre il suo popolo, sotto la guida del partito comunista, s'era scrollato di dosso la polvere del vecchio mondo, aveva rialzato la testa e s'era incamminato sulla via tracciata da Lenin instaurando il potere dei lavoratori e dando vita al primo Stato sovietico del mondo. La nostra patria ci aveva educati sull'esempio eroico dei suoi figli inculcandoci fin dall'infanzia i più nobili sentimenti. Per me non esiste sulla Terra un paese più vasto del nostro, né più ricco, né più bello.

Da bambino avevo amato Il cantare della gesta di Igor, antichissimo poema russo che è tutto un canto d'amore per la patria. Durante gli intervalli tra una lezione e l'altra mi piaceva restare in classe, davanti alla carta geografica, a guardare i grandi fiumi russi: il Volga, il Dnepr, l'Ob, lo Enisej e l'Amur che solcano il corpo potente del nostro paese come arterie.
Sognavo allora di viaggi lontani e di lontane spedizioni. Ed eccomi a compiere la spedizione più straordinaria, un giro attorno alla Terra. A trecento chilometri di altezza ringraziavo mentalmente il partito e il mio popolo d'avermi dato questa enorme felicità: la possibilità di penetrare per primo nel cosmo e di raccontare agli uomini quello che avrei visto.

Dagli oblò vedevo le nuvole e le loro ombre leggere proiettate sulla lontana e cara Terra. Poi, guardando il cielo, si risvegliò in me il figlio del colcosiano: il cielo era nero, pieno di stelle, come un campo arato e seminato di fresco. Le stelle, brillanti e pure mi facevano pensare a chicchi di grano. Anche il sole aveva un suo straordinario splendore e non si poteva guardare a occhio nudo, nemmeno socchiudendo le palpebre. Dal mio posto di osservazione lo vedevo splendere decine, e forse centinaia di volte di più che sulla terra. Era più accecante del metallo fuso che avevo lavorato in fonderia. Di tanto in tanto, per attenuare la violenza della sua luce, ero costretto a chiudere gli schermi protettivi degli oblò.

Avrei voluto vedere la Luna, constatare quale aspetto avesse nel cosmo.
Sfortunatamente, durante il mio volo si trovava fuori del mio campo visivo.
«Pazienza - pensai - la vedrò nel mio prossimo volo».
Naturalmente non guardavo soltanto il cielo ma anche la Terra. Com'era la superficie delle acque? Come una macchia scura dai riflessi cangianti.

Era percepibile la rotondità della Terra? Nel modo più netto. Guardando verso l'orizzonte, ero colpito da un violento contrasto tra la superficie chiara della Terra e la nera profondità del cielo. È bellissima, la Terra, con la sua ricca gamma di colori. La vedevo circondata da un'aureola azzurra.
Facendo scorrere lo sguardo dalla Terra al cielo, passavo dall'azzurro al, dal blu al turchese, al violetto fino a incontrare la notte profonda del cielo.
Questo graduale passaggio di tonalità è qualcosa di meraviglioso.
La radio mi ritrasmise nella cabina una musica del mio paese. Voci amiche cantavano Le onde del fiume Amur, una delle mie canzoni preferite.

Mi ricordai di quello che avevo letto sui giornali americani: «Nessuno può prevedere esattamente l'influenza dello spazio cosmico sull'uomo, ma una cosa è certa: l'uomo, nel cosmo, soffrirà di noia e di solitudine». Perché? lo non mi sentivo né annoiato né solo. Lanciato a velocità folle nel cosmo, io lavoravo e vivevo la vita del mio paese. La radio mi legava alla Terra come il cordone ombelicale lega il nascituro alla madre. Ricevevo degli ordini, trasmettevo comunicati sul funzionamento dei sistemi di bordo e in ogni parola proveniente dalla Terra sentivo l'appoggio del popolo, del governo, del partito.

Dagli apparecchi di bordo seppi che il Vostok si trovava rigorosamente sull'orbita prestabilita e stava per sorvolare la zona inferiore del pianeta attualmente non rischiarata dal sole. Il passaggio dalla luce alle tenebre fu improvviso. In un attimo mi trovai a volare nel buio. Probabilmente stavo attraversando l'oceano perché non vedevo più niente in basso, nemmeno la polvere dorata delle città illuminate.

Tagliando l'emisfero occidentale pensai a Cristoforo Colombo, alle difficoltà e alle pene ch'egli aveva sopportate per scoprire il Nuovo Mondo.
E adesso questo mondo si chiamava America, dal nome di Amerigo Vespucci, diventato immortale per le trentadue pagine del suo libro La descrizione delle nuove terre. Avevo saputo di questo errore storico in un'opera di Stefan Zweig.

L'idea dell'America mi riportò alla memoria gli uomini che gli Stati Uniti avevano scelto per il loro volo cosmico, che sarebbe venuto il nostro. Non so per quale ragione, ma pensavo che sarebbe toccato ad Alan Shepard: forse perché mi era più simpatico, forse perché, a differenza dei suoi colleghi, non aveva fatto la guerra di Corea. E mi chiedevo: i cosmonauti americani serviranno, come noi, la causa della pace? Oppure obbediranno ai circoli che preparano la guerra? Non sarebbe stato meglio che tutti i popoli della Terra, seguendo la voce della ragione, impegnassero tutte le loro forze per concludere una pace generale e duratura? Alle 9.51 entrò in funzione il sistema di orientamento automatico. Il Vostok, uscito dall'ombra, fu orientato immediatamente sul Sole i cui raggi, adesso, accendevano l'atmosfera terrestre.

L'orizzonte si colorò di un arancione caldo che sfumò in tutti i colori dell'arcobaleno azzurro, blu, violetto, nero. Una gamma di colori indescrivibile, come nelle tele di Nikolaj Roerich.
Un minuto dopo, sorvolando il Capo Horn, lanciai questo messaggio: - Il volo prosegue normalmente. Mi sento bene. Gli apparecchi di bordo funzionano regolarmente.

Da una verifica dell'orario di volo constatai che i tempi erano scrupolosamente rispettati. Il Vostok viaggiava a quasi ventottomila chilometri orari, una velocità che sulla Terra è impensabile. Non avevo né fame né sete. Ma, al momento stabilito, conformemente al programma, mangiai e bevvi l'acqua servendomi di uno speciale distributore. I cibi erano stati preparati secondo le prescrizioni dell'Accademia di medicina.
Mangiai come se mi fossi trovato a Terra e la sola difficoltà era quella di non poter aprire completamente la bocca. Sapevo che il funzionamento del mio organismo era controllato da Terra ma, di tanto in tanto, controllavo i battiti del mio cuore. Anche il polso e la respirazione erano normali pur nell'assenza di peso. Mi sentivo benissimo e conservavo completamente le facoltà di pensiero e di lavoro.
Alla mia tuta di volo erano applicati alcuni elementi sensibili, leggeri e affatto scomodi. Essi trasformavano in segnali elettrici tutti i miei parametri fisiologici: correnti biologiche del cuore, pulsazioni delle pareti vascolari, movimenti respiratori della cassa toracica. Altri sistemi di amplificazione e di misurazione trasmettevano per radio, ai posti di controllo terrestri, gli indici relativi alla respirazione e alla circolazione del sangue in tutte le fasi del volo. In sostanza, a Terra ne sapevano molto più di me sul mio stato di salute.

Dall'istante in cui il missile s'era staccato dalla rampa di lancio, tutto un complesso di sistemi automatici s'era incaricato di regolarne e guidarne il volo. Ne avevano diretto i timoni per costringere il razzo vettore a seguire la traiettoria voluta, comandato i dispositivi di accensione dei motori, regolato la velocità, distaccato gli stadi diventati inutili. Adesso erano ancora queste installazioni automatiche a mantenere la temperatura voluta all'interno della nave cosmica, a orientarla nello spazio, a far funzionare gli apparecchi di misurazione e a eseguire numerosi altri e difficilissimi compiti. Del resto, avevo a mia disposizione le leve per il comando a mano della nave cosmica. Mi bastava innestare un certo contatto perché la direzione del volo e dell'atterraggio del Vostok passasse nelle mie mani. In questo caso, però, avrei dovuto io stesso, servendomi degli strumenti di bordo, fare il punto dell'astronave lanciata a vertiginosa velocità sopra la Terra e, al momento giusto, calcolare il punto di atterraggio, assicurare il perfetto orientamento del Vostok e far funzionare i sistemi di frenaggio. Per questa volta non sarebbe stato necessario un tale lavoro. Gli scienziati avevano pensato a tutto e i meccanismi automatici l'avrebbero svolto da soli.
Il costruttore capo ci aveva parlato degli sforzi che erano stati fatti per rendere più leggero ogni pezzo della nave cosmica, per ridurne le dimensioni. Ci aveva detto che gli scienziati sovietici specialisti nella tecnica dell'automazione avevano creato apparecchiature composte da migliaia di elementi e messo a punto installazioni autoregolabili che potevano adattarsi a qualsiasi cambiamento di condizione. Nei suoi racconti, il costruttore capo metteva una passione giovanile. Un giorno ci aveva fatto la descrizione di un dispositivo di autocomando composto da un numero inverosimile di elementi e tuttavia funzionante a un regime di totale sicurezza.

Pensai a tutto questo in pochi secondi. Pensai al costruttore capo e al Vostok. I collettivi di scienziati che avevano impegnato tutta la loro intelligenza, le loro energie e il loro lavoro per costruire questa nave cosmica potevano esserne fieri. Cercai anche di immaginare gli uomini e le donne che avevano preso parte alla costruzione del Vostok e, allora, davanti ai miei occhi, vidi sfilare colonne di lavoratori, come il giorno del primo maggio sulla Piazza Rossa. Avrei voluto vederli all'opera nei laboratori, nelle officine, ringraziarli, stringere loro la mano. Perché sulla Terra non c'è niente di più bello che l'uomo impegnato nel suo lavoro.

Pieno di commozione scrutavo il mondo circostante cercando di non perdere niente e di comprendere tutto quello che vedevo. Fuori, attraverso gli oblò, scrutavo le stelle, brillanti e fredde, lontanissime da me forse decine d'anni di volo ma molto più vicine alla mia orbita che alla Terra. Ero felice, ma c'era in me un po' di paura quando pensavo che m'era stato affidato questo ordigno cosmico, tesoro inestimabile che era costato tante fatiche e tanto denaro al mio popolo.

Il mio lavoro mi concedeva delle pause per la riflessione e i miei pensieri erano allegri o solenni. Mi ricordai che poco prima del volo avevo passeggiato per le vie di Mosca, animate e piene d'allegria, che ero arrivato sulla Piazza Rossa e avevo lungamente sostato davanti al Mausoleo. E pensavo adesso che l'astronave portava con sé, attorno alla Terra, le idee di Lenin.
Alle 10.15, trovandomi nei pressi del continente africano, le apparecchiature automatiche a programma trasmisero agli strumenti di bordo il comando di tenersi pronti per l'accensione dei motori di frenaggio.

In quell'istante comunicai a terra: - Il volo prosegue normalmente. Sopporto bene lo stato di imponderabilità.
La nave cosmica stava sorvolando il Congo, dove più imperialisti avevano assassinato Patrice Lumumba, il coraggioso combattente contro il colonialismo. Ma non era più l'ora delle meditazioni perché stavo per affrontare la tappa conclusiva del viaggio, il ritorno sulla Terra, e questa tappa era, forse, più complessa della collocazione in orbita della nave cosmica e del suo volo nella traiettoria prestabilita. Di lì a poco avrei dovuto abbandonare lo stato di imponderabilità e subire nuovi e più forti sovraccarichi. Poi, nell'immediata prospettiva, mi attendeva il surriscaldamento fantastico della superficie esterna della nave cosmica al momento della sua entrata negli strati densi dell'atmosfera. Nell'attesa di questa prova, le cose andavano pressappoco come durante gli allenamenti a terra. Ma cosa sarebbe accaduto nella fase estrema del volo? I sistemi automatici avrebbero funzionato senza errori? Un guasto imprevisto non era forse in agguato da qualche parte? L'automazione è certamente una gran bella cosa ma, dopo aver fatto il punto, mi tenni pronto a prendere nelle mie mani la direzione della nave cosmica e, se fosse stato necessario, a guidarne la discesa in una regione che avrei scelto io stesso.

Ho già detto che la nave cosmica era dotata di un sistema di orientamento solare. Questo sistema si compone di cellule speciali foto sensibili che, grazie alla loro facoltà di captare il sole, si orientano su di esso costringendo la nave cosmica a mantenere nello spazio una determinata posizione nella quale l'installazione frenante viene a trovarsi in senso opposto alla direzione del volo.
Alle 10.25 i motori frenanti entrarono automaticamente in azione, eseguendo l'operazione in modo perfetto e al momento voluto. Una volta saliti, bisognava pur discendere! Il Vostok, gradatamente, cominciò a rallentare la sua corsa passando dall'orbita all'ellisse di transizione. Poi tutto il corpo della nave cosmica s'infilò negli strati densi dell'atmosfera.

La sua superficie si scaldava rapidamente. Attraverso gli schermi protettivi degli oblò vedevo il minaccioso riflesso delle fiamme che danzavano attorno all'astronave. Mi trovavo insomma all'interno di una sfera infuocata che precipitava verso la Terra, ma nella cabina la temperatura non superava i venti gradi.

Lo stato di imponderabilità era scomparso da un pezzo e la decelerazione mi schiacciava contro il sedile. I sovraccarichi aumentavano vertiginosamente ed erano più forti che alla partenza. A questo punto la cosmonave si mise a girare su se stessa. Ne informai immediatamente la «Terra». Ma anche questa rotazione, che m'aveva non poco preoccupato, finì e il resto della discesa fu assolutamente normale. Era chiaro che tutti i sistemi avevano funzionato a meraviglia e che la nave cosmica si sarebbe posata nel punto previsto. Folle di gioia, mi misi a cantare un'aria che mi piaceva molto: La patria ascolta La patria sa...

La nave cosmica scendeva dolcemente e io mi preparai all'atterraggio, ormai certo che la battaglia era vinta e che il Vostok avrebbe toccato terra senza danni. Ancora diecimila metri... Novemila soltanto... otto... sette. In basso vidi brillare il nastro argentato del Volga. Avevo immediatamente riconosciuto il gran fiume russo e le terre sulle quali Dmitrij Pavlovic Martianov m'aveva insegnato a pilotare. Tutto in esse m'era noto: la campagna che s'apriva a perdita d'occhio, i campi primaverili, i boschi, le strade, e Saratov con le sue case ammucchiate come un pugno di dadi.

Alle 10.55, dopo aver fatto un giro del nostro pianeta, il Vostok si posò senza danni, nella zona prevista in un campo arato del colcos Leninskij Put, non lontano dal villaggio di Smelkova, a sud-est della città di Engels. Tutto era finito come in un bel romanzo: ero tornato dal cosmo nei luoghi che avevo sorvolato per la prima volta nella mia vita. Quanto tempo era passato da allora? Soltanto sei anni. Ma che differenza, a farne il confronto! Adesso avevo volato duecento volte più veloce ed ero salito duecento volte più in alto. Le ali sovietiche erano cresciute, erano duecento volte più grandi.

Misi i piedi sulla terraferma e vidi una donna e una bambina che mi guardavano curiosamente. Un vitellino scorrazzava nei pressi. Mi incamminai verso di loro mentre le due donne si dirigevano alla mia volta.
Ma, man mano che avanzavano, i loro passi si facevano sempre più indecisi. Non c'è dubbio che nel mio scafandro di un vivo arancione, ch'esse non avevano mai visto, facevo loro paura.
- Sono dei vostri, compagne, dei vostri - mi misi a gridare togliendomi il casco ermetico.
Si trattava, come seppi dopo, di Anna Akimovna Tachtarova, moglie di una guardia forestale, e della sua nipotina Rita, di sei anni.
- Non verrete mica dal cosmo? - mi domandò la donna con voce incerta.
- È proprio così, - risposi.
- Jurij Gagarin! Jurij Gagarin! - gridarono degli uomini sbucando da un campo vicino.

Furono questi i primi esseri umani che incontrai sulla terra dopo il volo nel cosmo: dei semplici sovietici, lavoratori dei campi colcosiani. Ci abbracciammo calorosamente, come fratelli.
Poi arrivarono dei soldati guidati da un ufficiale.
Erano in transito, col loro camion, sulla strada e vollero stringermi la mano e abbracciarmi. Qualcuno si rivolse a me chiamandomi «maggiore».
Allora, senza chiedere spiegazioni, capii che il maresciallo dell'Unione Sovietica, Rodion Jakovlevic Malinovskij m'aveva promosso a quel grado facendomi saltare uno scalino. La sorpresa mi fece arrossire. Un soldato aveva a tracolla la sua macchina fotografica e prese un'immagine del numeroso gruppo, la prima per me dopo il volo.

Intanto i militari mi avevano aiutato a sbarazzarmi dello scafandro ed ero rimasto nella mia tuta di volo azzurra. Mi proposero di coprirmi con un cappotto militare ma rifiutai: la tuta era leggera e calda e mi bastava. Un altro gruppo di soldati stava curiosando attorno alla nave cosmica, che torreggiava nel campo arato, a poche decine di metri da un profondo fossato dove scorrevano veloci le acque primaverili. Allora ispezionai attentamente il Vostok: fuori e dentro era in perfetto stato e avrebbe potuto essere utilizzato per un altro volo cosmico. Mi sentivo infinitamente felice: il primo volo umano nel cosmo era stato realizzato dall'Unione Sovietica facendo fare un nuovo balzo in avanti alla scienza del nostro paese.

I soldati decisero di montare la guardia d'onore alla cosmonave. In quella un elicottero si posò accanto a noi. Aveva a bordo gli specialisti del centro di atterraggio e i commissari sportivi che dovevano registrare il volo record nel cosmo. Rimasero un po' attorno al Vostok mentre altri mi accompagnavano al posto di comando del centro di atterraggio per fare il mio rapporto a Mosca.

Ero atteso e mi annunciarono che c'era anche un telegramma a mio nome firmato da Nikita Sergeevic Chrušcëv. Il primo segretario del Comitato centrale del partito si congratulava con me per la riuscita del primo volo cosmico. Poco dopo ero messo in contatto telefonico con Chrušcëv stesso, che si trovava nella regione di Soci. Udendo la sua voce cara e familiare sentii che stavo vivendo un gran momento della mia vita. Il colloquio fu cordiale.
- Sono lieto di ascoltarvi, caro Jurij Alekseevic - disse Nikita Sergeevic.

Rispondendo al mio rapporto sulla realizzazione del primo volo umano nel cosmo, Nikita Sergeevic si congratulò ancora, mi chiese se mi sentissi bene, se avevo una moglie e dei figli, se mio padre e mia madre vivevano ancora e dove, cosa facevano. E alla fine aggiunse: - Ancora una volta, tutti i miei complimenti. Arrivederci presto a Mosca.
I miei migliori auguri.

Nel corso delle ore movimentate che seguirono immediatamente il mio ritorno sulla Terra, incontrai con gioia molti amici vecchi e nuovi. Tutti mi erano cari. Fui particolarmente commosso di rivedere Titov, venuto con altri compagni a bordo di un aereo a reazione nella regione del mio atterraggio.
Ci abbracciammo calorosamente.
- Sei contento? - mi chiese.
- Moltissimo - gli risposi. - E lo sarai anche tu, la prossima volta.

Poi ci recammo in una villetta sulla riva del Volga, presi una doccia e mangiai. E finalmente fu un pasto come se ne fanno sulla Terra, con un buon appetito terrestre. Più tardi, dopo una breve passeggiata lungo il fiume, il cosmonauta numero 2 e io facemmo una breve partita a bigliardo.
Finiva così la straordinaria giornata del 12 aprile 1961. Andammo a letto e pochi istanti dopo dormivamo tranquillamente come alla vigilia del viaggio.


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