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Convegno - Napoli, 21-23 novembre 2003: I
problemi della transizione al socialismo in URSS
Donne e famiglia nella Russia Sovietica dagli anni
Venti agli anni Quaranta
di Cristina Carpinelli
Cercherò di delineare alcune questioni fondamentali con cui si è confrontata la
pratica sovietica in tema di relazioni matrimoniali e familiari, tenuto conto
che non si ha a che fare necessariamente con l’attuazione delle teorie di Marx
e di Engels sulla famiglia, o di alcuni socialisti utopisti come Bebel sulla
donna[1], anche se l’esperimento del Soviet è
stato indubbiamente influenzato da quelle teorie classiche, almeno sino alla
fine degli anni Venti.
In realtà, il programma a favore dell’emancipazione della donna e della
famiglia prende avvio in un paese che è molto arretrato rispetto ad altri paesi
europei, dove i principi basilari di liberazione femminile devono ancora essere
pienamente realizzati e dove prevalgono ancora il diritto contadino (sotto
forma di consuetudine), le concessioni agli usi tribali delle popolazioni
siberiane ed asiatiche o alle usanze islamiche di quelle musulmane[2].
Un paese, inoltre, isolato in un mondo ostile, con un sistema economico che
presenta limitate possibilità di crescita, con un alto livello di
disoccupazione, e che per realizzare il “grande balzo in avanti” dovrà adottare
un piano accelerato di crescita industriale e di modernizzazione
dell’agricoltura con il ricorso a misure eccezionali. Un paese, infine, che
sarà costretto ad affrontare enormi sforzi e sacrifici inimmaginabili per la
propria difesa, e che se pure uscirà trionfante dalla dura prova dell’ultima
guerra, perderà metà dei suoi centri industriali e quindici milioni di giovani
di età compresa tra i 18 e i 25 anni. Queste sono, dunque, le particolari
condizioni che caratterizzano in buona parte l’esperimento sovietico nel corso
del periodo qui considerato.
In parte, tali condizioni lo hanno favorito: infatti, in un paese dove è
necessario per le donne conquistare le libertà più elementari e dove si
conduce, per parecchio tempo, una lotta tenace contro le violazioni a queste
libertà, un qualsiasi governo rivoluzionario avrebbe avuto buone opportunità di
fornire prove di successo. Allo stesso modo, la scarsità di mano d’opera, che
si manifesta con la collettivizzazione delle campagne e l’industrializzazione
su vasta scala, la mobilitazione degli uomini sul fronte durante l’ultima
guerra e le gravi perdite umane subite nel corso della guerra stessa, consente
l’impiego massiccio delle donne sul mercato del lavoro, che è una condizione
indispensabile per la realizzazione della reale parità tra i sessi.
Tuttavia, il piano di emancipazione della donna e di sostituzione della forma
di famiglia patriarcale con una struttura familiare che non sia in
contraddizione con la più ampia rivoluzione in atto nei rapporti economici e
sociali si rivelerà come uno dei compiti più difficili e ambiziosi del governo
rivoluzionario bolscevico. Nella Russia che è stata sempre patriarcale dove,
prima della nascita del nuovo stato, l’80% del paese era contadino, con la
relativa cultura, la rivoluzione nei costumi e dentro gli aggregati domestici
familiari si abbatte come una tempesta sulle coscienze collettive.
Non sempre questo percorso di emancipazione risulterà di facile attuazione,
anzi, come vedremo qui di seguito, esso sarà pervaso da una moltitudine di
contraddizioni. Ma al di la’ di esse, credo che la Russia sovietica non abbia
completamente fallito nel promuovere la liberazione della donna e della
famiglia, poiché gli ideali più utopistici della Kollontaj non sono stati
realizzati. Le note Commissioni femminili del partito (ženotdely) svolsero un ruolo importante
nel tentativo di coinvolgere il più possibile le donne nella vita pubblica.
Barbara Clements Evans, a piena ragione, sottolinea al proposito che i successi
sovietici non sono per niente paragonabili a quelli di altri stati
contemporanei europei che, ai tempi in cui furono fondate le Commissioni
femminili nella Russia sovietica, stavano appena estendendo il diritto di voto
alle donne[3].
Attiviste del ženotdely
viaggiarono, ad esempio, per l’Asia centrale. Ed anche in quelle terre così
lontane, fu possibile cogliere già subito dopo la rivoluzione i primi rarefatti
segnali di una difficile emancipazione femminile. E’ importante sottolineare
che la condizione della donna centro-asiatica scontava il peso del condizionamento
di tradizioni pre-islamiche: poligamia, velo, segregazione costituivano, in
larga misura, il lascito di precedenti civiltà dominate dal politeismo e dal
tribalismo. Pur incontrando una resistenza ostile nel loro tentativo di
emancipare le donne musulmane, le attiviste del ženotdel s’impegnarono a fondo perché anche a queste donne
fosse riconosciuto il diritto al lavoro e all’istruzione precedentemente
proibita.
Infine, i primi codici russi sul matrimonio e la famiglia costituiscono ancora oggi,
per diversi aspetti, la punta più avanzata della legislazione sulla donna e
sulla famiglia in molti paesi del mondo[4].
La rivoluzione(Il codice di famiglia del
1918)
I nuovi decreti rivoluzionari di famiglia sono assunti in un momento in cui gli
aggregati domestici familiari riproducono ancora al loro interno comportamenti
patriarcali e semifeudali. Con questi decreti, gli istituti del matrimonio e
del divorzio sono “laicizzati”, perdendo dunque tutte le loro caratteristiche
religiose e confessionali. Essi sono poi rielaborati l’anno successivo dalla
loro promulgazione, e i loro contenuti recepiti in un testo apposito
comunemente chiamato codice di famiglia del 1918.
Il codice del ‘18 trae la sua “ratio” dall’aspirazione rivoluzionaria di
spazzare via le passate tradizioni (soprattutto quelle religiose) e, oltre ad
essere dichiarativo di un nuovo ordine, esso svela soprattutto il suo forte
spirito di reazione all’ordine secolare preesistente considerato nocivo per la
costruzione di una società socialista. In tal senso, corretta è l’osservazione
fatta dallo storico E. Carr nel suo libro Il
socialismo in un solo paese, secondo cui l’atteggiamento radicale e
iconoclasta dei rivoluzionari nei riguardi della famiglia può essere compreso
solo come una reazione alle condizioni anteriori alla rivoluzione in quanto la
famiglia tradizionale del contadino o dell’operaio, caratterizzata dalla
sottomissione e dai maltrattamenti delle donne e dallo sfruttamento infantile,
era una conseguenza della miseria russa ed un simbolo dell’arretratezza russa[5].
Nel 1924, Bucharin qualificherà la famiglia come l’elemento più arretrato e
conservatore fra tutte le brutture del vecchio regime[6],
e due anni dopo Krylenko (membro del Comitato centrale esecutivo dei Soviet)
scriverà che è necessario distruggere il sistema antico che si era radicato
entro un focolare vitale come la famiglia, quell’organismo della vita sociale,
quel nodo del tessuto sociale dove vivevano ancora, più forti di quanto esse
fossero nella realtà, tutte quelle tendenze del mondo antico, tutte quelle
tradizioni incartapecorite, stagnanti, del passato, tutte quelle melme, quelle
muffe e quel fango propri del mondo passato borghese e della famiglia feudale
borghese[7].
Nello spirito dei dirigenti rivoluzionari bolscevichi, la “famiglia antica
russa è una delle tre balene che avevano sorretto il sistema sociale borghese
(le altre due balene sono lo stato imperiale e la proprietà privata)”[8].
Per tale ragione, si può considerare questo codice come un “documento
intensamente rivoluzionario”, come uno “statuto di principi rivoluzionari”.
Ecco i punti salienti: annullamento del matrimonio religioso (considerato
“affare privato” dei coniugi) e istituzione del matrimonio civile come il solo
valido (non serve il consenso di nessun terzo per sposarsi); introduzione del
divorzio consensuale. Nei casi in cui il
divorzio è richiesto solo da uno dei due coniugi, interviene il tribunale, che
ha il compito di decidere sull’assegnazione dei figli e sul mantenimento. Nello
stesso tempo, il tribunale stabilisce le condizioni per il pagamento degli
alimenti al coniuge privo di autonomi mezzi di sussistenza.
Scopo della nuova legislazione, scrive Gojchbarg, estensore del codice
di famiglia del ‘18, è quello di far sì che il matrimonio non sia più una gabbia
dove gli sposi vivono come forzati[9].
Con il codice del ‘18 è previsto
l’accertamento giudiziale della paternità (nel caso di mancato riconoscimento
da parte del padre), ma solo alle madri nubili, e i bambini nati da un
matrimonio non registrato godono degli stessi diritti dei bambini nati da
un’unione legale. L’uguaglianza dei diritti dei figli naturali e di quelli
legittimi garantisce indirettamente pari cittadinanza alla famiglia naturale
con quella legale, la cui distinzione nel codice è motivata con la necessità di
non dare alcuna possibile scappatoia giuridica alle unioni religiose e alla
poligamia molto diffusa nelle regioni dell’Asia centrale a prevalente religione
musulmana.
Sono, inoltre, aboliti gli istituti della potestà maritale (il marito
non può più imporre alla moglie cognome, domicilio e nazionalità) e della
proprietà comune dei coniugi, poiché il matrimonio ora è inteso come “un’unione
volontaria”. Abolita ogni differenza di ceti e categorie sociali, trasformata
l’economia nazionale in senso socialista, ricondotti gli uomini all’idea
collettiva della costruzione sociale, semplificati in conseguenza i rapporti di
convivenza civile, l’affectio maritalis
resta l’unico fondamento del matrimonio. Educata nel fuoco della guerra civile,
dove il rapporto amoroso e il matrimonio sono solo il momento culminante di
unioni e relazioni che si cementano nella comunità degli ideali, delle
sofferenze e delle battaglie, una nuova generazione di rivoluzionari respinge l’idea
di famiglia come nucleo economico.
Quando mancano motivi d’interesse o di convenienza sociale, in una società
nella quale tutti hanno lo stesso status, la convivenza tra uomo e donna,
afferma la Krupskaja, sarà unicamente determinata dall’amore[10].
Nella società socialista, tutti gli oneri familiari saranno assunti dallo
stato, e la potente forza innovatrice del proletariato ribalterà gli schemi
borghesi così come la morale puritana del terzo stato aveva soppiantato le
norme della nobiltà feudale: il matrimonio, da contratto di tipo economico,
diventerà un’unione puramente morale, e la morale dominante sarà quella “che
matura in seno alla classe che i rapporti di produzione dell’epoca rafforzano”[11].
Non si può negare l’evidenza: la famiglia vecchio tipo ha fatto il suo tempo e
sta tramontando, non perché lo stato la distrugga, ma perché ha cessato di
avere una funzione. (...) In luogo del rapporto tradizionale fra uomo e donna,
nasce un nuovo modello di unione basata sull’affetto e sulla solidarietà, fra
due “uguali” appartenenti alla società comunista, liberi entrambi, entrambi
indipendenti, entrambi lavoratori...[12].
Infine, il codice proibisce l’adozione di minori da parte delle famiglie.
Quest’ultima è certamente una misura drastica ma che mira a stroncare il
costume, assai diffuso nelle campagne, di mascherare sotto la forma
dell’adozione lo sfruttamento feroce della manodopera infantile. Centro e
promotore della tutela del minore abbandonato diventa lo stato. Sorgono
istituti d’infanzia e sezioni minorili di previdenza sociale con l’intento di
dimostrare a tutti i vantaggi dell’educazione collettiva, rispetto a quella
privata dei genitori, e con il fine di sperimentare come lo stato proletario
sappia, in un periodo transitorio, adempiere appieno alle sue funzioni di stato
educatore-modello. L’idea della creazione
dell’uomo “collettivista” in contrapposizione a quella tutta occidentale
dell’uomo “individualista” è anche il fine pedagogico della scuola sovietica
sin dai primi difficilissimi anni del potere rivoluzionario.
La storia della colonia Gorkij,
il poema pedagogico di Makarenko, è esemplare per quel che riguarda la
comprensione della crescita e dell’educazione dell’individuo nel “collettivo”:
solo il collettivo può e deve essere il fondamento dell’educazione pedagogica e
stimolo potente al miglioramento del singolo. Con la rivoluzione d’Ottobre, si
aprono orizzonti nuovi e possibilità diverse alla teoria e alla prassi
pedagogica, così come Makarenko stesso ebbe a dire: “Dopo l’Ottobre, si
aprirono di fronte a me meravigliose prospettive. Noi pedagoghi eravamo allora
talmente inebriati da queste prospettive, da essere quasi fuori di noi”[13].
Il 30 settembre 1918, quasi contemporaneamente al codice familiare, il Vcik
ratifica la Disposizione sulla scuola unica
del lavoro della Rsfsr[14].
La rivoluzione investe anche la scuola. Sono eliminate le tasse scolastiche e
la scuola diventa mista. Per elaborare il modello della nuova scuola sovietica
si utilizzano le idee più avanzate di pedagogisti russi ( A. Makarenko, K.
Vencel’) ed anche di occidentali ( J. Dewey). Ora la nuova scuola sovietica è
libera e autogestita. La gestione è affidata a un “collettivo scolastico”,
composto dagli allievi e da tutti gli operatori della scuola, dall’insegnante
al portiere.
In armonia con quell’indirizzo, si muoverà la politica del partito nei riguardi
dell’infanzia. L’economista Strumilin, negli anni Venti, descrive così
l’immediato futuro del cittadino sovietico:
Ogni cittadino sovietico, già all’uscita della casa di maternità, avrà un mandato
per sistemarsi al nido d’infanzia, poi alla scuola materna (con possibilità di
restare anche la notte), successivamente alla scuola-convitto. Dopo di che,
potrà vivere autonomamente[15].
Per la Kollontaj (commissario ai Servizi sociali), che prende parte attiva a
questo dibattito, i doveri dei genitori verso i figli con il tempo spariranno,
e la società finirà per assumerne l’onere totale:
Ora la società comunista verrà in aiuto dei genitori. Nella Russia sovietica, i
commissariati per la pubblica istruzione e per l’assistenza sociale stanno facendo
molto per assistere la famiglia. (...) La società comunista considera l’educazione
sociale delle nuove generazioni uno dei cardini del nuovo ordine. La vecchia
famiglia meschina e circoscritta, dove litigiosi genitori s’interessano solo
della loro prole, non è in condizione di allevare l’“individuo nuovo”. Saranno
i campi da gioco, gli asili, gli istituti e gli altri centri dove il bambino
passerà la maggior parte della sua giornata, sotto la supervisione di personale
qualificato, ad offrirgli l’ambiente in cui crescere da comunista consapevole,
che riconosce il bisogno della solidarietà fra compagni, del reciproco aiuto e
della dedizione alla collettività[16].
Negli anni Venti, è ampiamente diffuso un
manuale sull’“uomo nuovo”, l’ABC del
comunismo di Bucharin, il quale afferma che “il bambino appartiene
alla società in cui è nato, e non ai genitori”[17].
Sull’onda di quelle idee avveniristiche,
compaiono in quel periodo romanzi molto popolari come quello di Fëdor
Gladkov, Cemento, in cui la donna
che ha appena partorito affida il bimbo all’asilo che sostituisce la vecchia
famiglia. La nuova generazione vive nel collettivo, la società si fa carico del
suo mantenimento e della sua educazione, la famiglia come luogo di cura non
serve più.
Modificandosi i modi e i rapporti di produzione, anche il lavoro domestico,
motivo di discriminazione tra i sessi, sarà soppiantato dalle strutture
pubbliche che si prenderanno cura di quei lavori sino ad ora svolti dalle
donne. Afferma la Kollontaj:
In luogo della donna che pulisce il proprio alloggio, la società comunista si
può avvalere di manodopera che la mattina va di casa in casa a fare le pulizie.
(...) Alla donna che oggi si affanna tra le pentole, passando le poche ore
libere della sua giornata a preparare il pranzo e la cena, la società comunista
offrirà pubblici ristoranti e mense comunitarie. (...) La lavoratrice non sarà
più costretta a spezzarsi le reni sulla tinozza, o a rovinarsi gli occhi a
rammendare le calze e rattoppare la biancheria: non avrà che da portarla ogni
settimana alle lavanderie collettive, e ritirarla poi lavata e stirata. (...)
Liberandola dalla schiavitù domestica, il comunismo rende la vita della donna
più ricca e felice[18].
La divisione del lavoro, codificata dalla proprietà privata, aveva sempre
significato una reale discriminazione in base al sesso. Ma l’espansione delle
forze produttive, la crescente meccanizzazione e la spersonalizzazione del
processo lavorativo, aboliranno qualsiasi criterio oggettivo per la divisione
del lavoro:
Ai tempi delle nostre nonne, i lavori domestici erano necessari e utili, perché
assicuravano il benessere della famiglia. Quanto più laboriosa era la donna,
tanto più prosperava la famiglia del contadino e dell’artigiano. (...) Con
l’avvento del lavoro salariato femminile, l’economia familiare ha visto gradualmente
sparire tutte quelle attività domestiche senza le quali le nostre nonne non
avrebbero potuto concepire una famiglia. Oggi è il lavoro collettivo degli
operai e delle operaie nelle fabbriche a produrre ciò che una volta era
provvisto dall’economia familiare. La famiglia non produce più, consuma
soltanto. Il lavoro domestico si è ridotto alle pulizie, alla cucina, a lavare
e tenere in ordine con rammendi o rattoppi la biancheria e i vestiti dei
familiari. (…) Non solo, esso non ha alcun valore per l’economia dello stato e
della comunità, perché non crea ricchezza, né contribuisce alla prosperità del
paese. (...) Diventando improduttivo, il lavoro domestico perde
progressivamente d’utilità, è in via di estinzione nella sua forma
individualistica, e cede il passo alle strutture collettive[19].
L’abolizione del lavoro domestico femminile è, nel nuovo sistema improntato su
nuovi modi della produzione e su nuovi rapporti delle forze produttive,
inevitabile. La famiglia, quindi, non serve più anche come luogo di consumo.
«Il lavoro improduttivo della cura della casa e dell’educazione dei figli sarà
con il tempo eliminato», scrive l’organo Kommunistka
della Sezione femminile del Comitato centrale.
Il decreto d’autorizzazione dell’aborto “sotto controllo medico” (rimangono le
pene per le pratiche abortive clandestine) del 1920 chiude una fase particolare
della legislazione dei primi anni del governo bolscevico. Tale legislazione è
parte integrante della politica e dello spirito che caratterizzano la storia
sovietica degli anni immediatamente successivi alla rivoluzione sino all’avvio
della Nep. Non va scordato che le radicali riforme legislative vengono portate
a termine nel fuoco di un’aspra lotta di classe interna, mentre divampa la
guerra civile e tutte le energie dei comunisti sono assorbite dal compito della
difesa della rivoluzione. Commentando quelle misure legislative, Lenin avrà
ragione di affermare:
Il potere sovietico, in quanto potere dei lavoratori, fin dai primi mesi della
sua esistenza ha introdotto nella legislazione riguardante la donna e la
famiglia un rovesciamento decisivo. Delle leggi che ponevano la donna in una
condizione subordinata, nella repubblica sovietica non è restata pietra su
pietra. Mi riferisco in particolare alle leggi che, utilizzando proprio la
condizione sociale più debole della donna, la ponevano in condizioni di inferiorità
e in certi casi di umiliazione: le norme sul divorzio e sui figli fuori del
matrimonio, o quelle sui bambini non riconosciuti dal padre[20].
In sostanza, il gruppo dirigente rivoluzionario, pur consapevole che, come
sostiene Lenin, «la vera emancipazione della donna incomincerà soltanto […]
quando incomincerà la trasformazione massiccia dell’attuale economia
nell’economia socialista», è convinto che bisogna operare già da subito e
concretamente per liberare la donna e la famiglia dalla schiavitù feudale. Ecco
perché si muoverà immediatamente su tre piani diversi: ingresso delle masse
femminili nella produzione («per la conquista della parità - dice Lenin -
bisogna che la donna partecipi al lavoro produttivo comune»), lotta per la
liberazione della donna dal lavoro domestico e di cura, distruzione, infine, di
tutte le norme giuridiche che umiliano la donna e ne limitano i diritti, che
mantengono in vita la vecchia struttura familiare patriarcale.
Questi primi anni di governo costituiscono anche ciò che Lapidus definisce come
Soviet style “affirmative action program” a favore delle
donne: numerosi interventi aboliscono la discriminazione sessuale sul posto di
lavoro e nella società, tutelano il lavoro delle donne incinte e introducono
nelle fabbriche i congedi obbligatori di maternità. Maggiori opportunità
professionali e d’istruzione aprono ad esse spazi e carriere nuove riservate
prima solo al sesso forte. Nella vita politica, molti sono i reclutamenti al femminile
a posizioni dirigenziali, ben simboleggiati dalle note Commissioni femminili (ženotdely) del partito comunista (bolscevico),
fondate nel 1919.
Non mancano, tuttavia, anche nella Russia sovietica, alla fine della prima
guerra mondiale, nonostante la rivoluzione, tentativi in parte bloccati di
liquidazione del lavoro femminile operaio. La politica adottata dal governo,
durante il comunismo di guerra, è quella del “numero chiuso della forza lavoro”
da impiegare, con lo scopo di assicurare un salario ad ogni nucleo familiare.
La documentazione di quel periodo sul servizio obbligatorio del lavoro
testimonia la progressiva liquidazione del lavoro femminile in fabbrica e il
tentativo di ricostituire il nucleo familiare sulla base di un solo salario
erogato all’operaio maschio adulto, calcolando le “bocche” a carico.
Numerosi sono i casi in cui i comitati di fabbrica, di fronte alla diminuzione
del volume del lavoro, cercano di licenziare in primo luogo le donne. Basti
ricordare ciò che accadde all’officina di costruzioni navali Nevskij di
Pietrogrado nell’ottobre del 1917 dove, su decisione del comitato di fabbrica,
tutte le donne sposate furono licenziate e rifiutate in fabbrica. Oppure, ciò
che accadde, per le medesime ragioni, nel dicembre dello stesso anno, nelle
officine Blagodareva e Novyj Arsenal. Ma questo atteggiamento nei confronti
delle donne lavoratrici provoca un’energica protesta da parte della direzione
centrale del sindacato dei metallurgici, appoggiata da alcune donne dirigenti
di primo piano del partito, che riesce ad ottenere la revoca immediata di tutti
i licenziamenti[21].
Nel febbraio 1918, Nadežda Krupskaja interviene sulla Pravda, con un lungo articolo,per
pronunciarsi con decisione contro il licenziamento dalla produzione delle
donne.
La battaglia per l’emancipazione della donna è intesa dall’élite del partito
anche come un momento di profondo rinnovamento del costume e della morale
sessuale, che culminerà nella nota teoria del “bicchiere d’acqua” (cioè del
sesso facile e senza complicazioni, come appunto bere un bicchiere d’acqua) o
nella politica del “libero amore” (free love).
Prima la vita sessuale era strettamente associata all’unità economica della
famiglia. Ora che la famiglia si sta disgregando, anche la vita sessuale pone
dei problemi completamente nuovi. Certo, subito dopo la rivoluzione del 1917,
nel bel mezzo del fermento politico, sociale e culturale, i giornali e le
riviste d’avanguardia del tempo assunsero toni spregiudicati e possibilisti
riguardo alla nuova morale sessuale propagandata. Ancora nel 1926, già in piena
Nep e alle soglie dell’introduzione del secondo codice rivoluzionario russo di
famiglia, il regista Abram Room produce uno dei film più anticonformisti
dell’epoca sull’emancipazione femminile e la liberazione sessuale.
In effetti, Tre in uno scantinato
è un film che mette in discussione i rapporti tradizionali fra i sessi. Esso
fece allora scalpore poiché affronta arditamente la questione dell’amore a tre
e, più in generale, della liberazione dei costumi. Come afferma Annie Goldmann,
l’inizio degli anni Venti, nella Russia sovietica, offre un laboratorio
traboccante di idee, di iniziative e di audacie che a quel tempo neppure Parigi
e Berlino raggiunsero[22].
Si vive ancora nel clima entusiasmante della rivoluzione, nella certezza di
creare una società nuova, libera dai pregiudizi e dagli stereotipi del vecchio
regime zarista.
Tuttavia, se le idee sul libero amore si limitano inizialmente ad affermare in
astratto che le norme morali della società capitalistica non si devono
automaticamente trasferire nel comportamento sessuale della nuova società socialista,
queste idee poi si svilupperanno fino a raggiungere posizioni considerate
libertine non solo dai compagni più conservatori, ma anche dai rivoluzionari
della prima generazione[23].
Lo stesso Lenin, nel corso di una delle sue conversazioni con Clara Zetkin,
sente il bisogno d’intervenire sulla questione:
Voi conoscete certamente la famosa teoria secondo la quale, nella società
comunista, soddisfare i propri bisogni sessuali e amorosi è semplice e banale
come bere un bicchiere d’acqua. E’ una teoria che, secondo me, ha causato
equivoci e disgrazie. I suoi difensori affermano che è “marxista”. Grazie tante
per un marxismo del genere![24].
In un altro colloquio con la stessa Zetkin, Lenin reagirà ancora aspramente
contro le teorie sessuali propugnate da alcuni compagni e compagne, definendole
di stampo borghese:
Sebbene io non mi consideri in nessun modo un asceta, sono convinto che la
cosiddetta “nuova vita sessuale” dei giovani e spesso degli adulti è
decisamente borghese; si tratta di una varietà della buona, vecchia casa chiusa
borghese. Tutto questo non ha niente a che fare con l’amore libero, così come
noi comunisti lo intendiamo[25].
Inoltre, la nuova élite (quella che adesso di fatto dirige il paese) sta
vivendo le prove drammatiche della guerra civile. Occuparsi di un problema,
come quello delle relazioni amorose, appare secondario rispetto ai concreti e
difficili compiti imposti dalla rivoluzione.
C’è stato tutto un periodo - nota un intelligente osservatore sovietico dei nostri
giorni, Viktor Rogovin, in un articolo su Problemi
della famiglia e morale quotidiana nella sociologia sovietica degli anni Venti
- in cui la questione: come vivere? non si poneva neanche. Vivere, significava
lottare contro le guardie bianche fino all’annientamento totale. Non solo, nel
momento in cui la lotta di classe si trasferiva alla vita di ogni giorno, ci si
rendeva conto con rabbia ed impotenza, che le influenze del passato e le
tradizioni erano spesso così forti che non si poteva risolvere niente con un
assalto o con una carica della cavalleria[26].
Spazzare via principi, radicati a fondo nelle credenze e nei costumi popolari,
non è certo un compito facile, soprattutto in campagna. Ciò è sin dall’inizio
chiaro a Lenin, secondo cui l’unico modo per combattere ed eliminare il
pregiudizio sta nell’estirpare miseria e ignoranza, attraverso la propaganda e
l’istruzione:
(…) La Repubblica dei soviet ha prima di tutto il compito di abolire ogni
restrizione dei diritti della donna. Il procedimento giudiziario per il
divorzio, questa vergogna borghese, fonte di avvilimento e di umiliazione, è
stato completamente abolito dal potere sovietico. Da un anno esiste ormai una
legislazione assolutamente libera sul divorzio. Abbiamo promulgato un decreto
che abolisce la differenza tra figli legittimi e illegittimi e tutta una serie
di restrizioni politiche. In nessun altro paese sono state realizzate in modo
più completo l’uguaglianza e la libertà delle donne lavoratrici. Noi sappiamo
che tutto il peso delle leggi tradizionali ricade sulla donna appartenente alla
classe operaia. Per la prima volta nella storia la nostra legge ha cancellato
tutto ciò che trasformava le donne in esseri senza diritti. Ma qui non si
tratta della legge. La legge sulla piena libertà del matrimonio sta prendendo
piede nelle nostre città e nei nostri centri industriali, ma nelle campagne
resta molto spesso lettera morta. Nelle campagne continua a predominare il
matrimonio religioso. Questo si deve all’influenza dei preti, ed è un male che
si combatte più difficilmente della vecchia legislazione. I pregiudizi
religiosi vanno combattuti con estrema prudenza; coloro che, nel corso di
questa lotta, offendono il sentimento religioso ci procurano grave danno.
Bisogna lottare per mezzo della propaganda e dell’istruzione. Agendo
brutalmente rischiamo di irritare le masse; una simile lotta acuisce la
divisione delle masse per motivi religiosi; la nostra forza sta invece
nell’unità. La sorgente più profonda dei pregiudizi religiosi è nella miseria e
nell’ignoranza: contro questi mali dobbiamo batterci. La situazione della donna
è tuttora quella di una schiava; la donna è schiacciata dal lavoro domestico e
può trovare la sua liberazione soltanto nel socialismo. Solo quando saremo
passati dalle piccole aziende all’azienda collettiva e alla coltivazione in
comune della terra, si potrà realizzare la completa liberazione ed
emancipazione delle donne[27].
Negli anni Venti, il problema sollevato principalmente dall’élite al potere, è
il processo doloroso e caotico attraverso il quale la famiglia va
disgregandosi: la famiglia patriarcale è la sede strutturale e ideologica della
riproduzione di ogni ordinamento sociale basato su principi autoritari. L’abolizione
di questo ordinamento mina automaticamente l’istituto familiare tradizionale.
Nel libro di Trockij Problemi della vita
quotidiana[28],
troviamo ampio materiale sulla disgregazione della famiglia patriarcale intorno
al 1919 e 1920. Anche il codice di famiglia del ‘18, con i suoi dispositivi,
contribuisce ad accelerare la destabilizzazione già in atto in molte famiglie
ma, contemporaneamente, va a disciplinare situazioni coniugali e familiari che,
sino alla sua entrata in vigore, non avevano potuto trovare una soluzione giuridica.
Molte persone erano da tempo in attesa di divorziare per rendere legali le loro
famiglie di nuova formazione.
Tuttavia, se l’espropriazione dei mezzi sociali di produzione colpisce soltanto
i proprietari e non le masse povere, la disgregazione accelerata della famiglia
patriarcale colpisce soprattutto coloro che hanno attuato la rivoluzione
economica e sociale: gli operai e i contadini. Questa è la ragione per cui una
parte (la maggioritaria) della dirigenza del partito non appoggerà le teorie
radicali che in quegli anni vanno moltiplicandosi relativamente alla totale e
inevitabile scomparsa della famiglia, come cellula base della società, in un
prossimo futuro[29]:
Ai nostri occhi - si legge sulla rivista Krasnaja
nov’ nel novembre del 1924 - la famiglia ha cessato di avere
qualsiasi ruolo progressivo. Essa non può più costituire in nessun modo un
nucleo della nuova società.
Lenin, ad esempio, si dichiarerà contrario alla proposta avanzata dalla stessa
Kollontaj d’inserire nel nuovo programma del partito, approvato nel 1919, una
nota sul declino della famiglia[30].
Come vedremo, la posizione della dirigenza del partito che prevarrà negli anni
a venire sarà quella di promuovere il valore sociale del “rapporto matrimoniale
legale” e della famiglia come “cellula base della società”. Essa terrà innanzi
tutto conto del bisogno forte di rassicurazione in campo affettivo di milioni
di operai e contadini, di fronte ad uno stato generale d’incertezza e
d’instabilità nel paese in tutti i settori. E quale istituzione, più della
famiglia, può assicurare alla base quella stabilità sociale che è considerata
essenziale nell’immane sforzo collettivo della costruzione del socialismo in un
solo paese?
La Nep (Il codice di famiglia del 1926)
Con l’avvio della Nep, la legislazione matrimoniale e di famiglia varata nel
‘18 palesa alcuni limiti rispetto alle nuove condizioni del paese. In realtà, s’impongono
i problemi non indifferenti derivanti dalla contraddizione tra le avanzatissime
norme del diritto familiare e le situazioni di fatto: quella dei figli
abbandonati (circa 200.000 casi di rifiuto al mantenimento da parte dei
genitori nella sola Repubblica russa)[31],
quella della disgregazione sociale e familiare, a cui è strettamente connesso
l’incremento della delinquenza giovanile. La previsione di Strumilin si
dimostra molto distante dalla dura realtà degli anni della Nep. La società sovietica,
tutta impegnata nello sforzo di sopravvivenza e nella costruzione di autonome
basi materiali, non è ancora in grado di fornire su scala di massa i servizi
richiesti da un nuovo tipo di famiglia.
La guerra civile del 1918-1921 e la carestia del 1920-21, che vengono dopo tre
disastrosi anni di guerra, accelerano indubbiamente lo scioglimento delle
vecchie forme di vita dopo la rivoluzione. Ma tale scioglimento, in alcuni
casi, assumerà aspetti pericolosi. Migliaia di famiglie, le popolazioni
d’interi villaggi dovranno emigrare nel tentativo di trovare cibo in altre
regioni. In non pochi casi, le madri abbandonano i figli, e gli uomini le
mogli, lungo il cammino. Molte donne si vendono per nutrire se stesse e i
figli.
Nel mese di maggio del 1917 era stata abolita la circolare del 1915 e, alla
fine dell’estate, veniva ufficialmente proibito il lavoro dei minori di 14
anni. Ma, come sostiene Vera Bonč-Bruevič, una delle maggiori
responsabili bolsceviche dei problemi dell’infanzia, i bambini negli anni Venti
continuano a lavorare, nonostante l’opera attiva degli ispettori del lavoro
incaricati di controllare nelle fabbriche che i minori non lavorino[32].
Nello stesso momento in cui tutti gli operai riposavano e nelle strade
sfilavano imponenti cortei, si svolgevano feste, sventolavano bandiere rosse, i
bambini operai, come nel passato, sedevano in oscuri tuguri e anguste tane,
terminando di cucire delle soprascarpe da donna e orlando gli occhielli di un
elegante abito[33].
Dopo parecchie discussioni sul progetto del secondo codice di famiglia,
quest’ultimo è approvato nel 1926 dal Soviet supremo. Contrariamente
all’opinione diffusa tra gli studiosi borghesi occidentali, secondo la quale
tale codice si propone di superare le contraddizioni insite in quello del 1918,
esasperando le posizioni del primo legislatore attraverso il ricorso alle più
radicali massime marxiste leniniste in materia di libertà individuali e
sessuali (è l’ultimo atto testamento della filosofia del “libero amore” circa
le relazioni familiari), esso, in realtà, rappresenta un ritiro ideologico da
quello del ‘18 su molti punti importanti quali il matrimonio, il divorzio, la
paternità, l’adozione e la proprietà coniugale. Se la Nep rappresenta la
risposta al caos economico e al disorientamento causati da sei anni di guerra
estera e civile, il codice del ‘26 è, invece, la risposta al caos sociale e
familiare generato da quella situazione. Esso, in definitiva, costituisce uno
sforzo per tenere insieme una società profondamente disgregata.
Fatto rilevante del nuovo codice di famiglia del ‘26 è il riconoscimento della
validità del matrimonio non registrato, in presenza di determinate condizioni
accertate dal tribunale (convivenza, comune educazione dei figli, ecc.). La
registrazione non è più, quindi, una condizione essenziale per l’esistenza del
matrimonio[34].
Parificando le unioni “di fatto” a quelle registrate, il legislatore più che
esprimere la volontà di proseguire sulla strada della realizzazione, sul piano
del diritto, dell’estinzione dei vincoli coniugali legali, tenta di risolvere
alcune situazioni concrete. Il quadro storico di riferimento della Russia di
allora è drammatico: proprio in quegli anni essa conosce il fenomeno dilagante
del rifiuto dei bambini che si traduce con la pratica degli aborti, degli
abbandoni e degli infanticidi. La moltiplicazione dei divorzi in città e,
seppure in numero inferiore, in campagna, significa la crescita del numero
delle unioni di fatto che, sulla base di un censimento di quegli anni, sale a
più di 100.000 nella sola Repubblica russa. In Ucraina, il 7% dei matrimoni non
vengono registrati all’anagrafe, il che pone in particolare la donna in una
situazione difficile in caso di separazione. Una parte delle unioni non
registrate presso lo stato civile, tra l’altro, hanno solo la sanzione del
vincolo ecclesiastico, cui la legge sovietica, com’è noto, non riconosce (e la
norma di principio è confermata dal codice del 1926) alcuna validità giuridica.
La legalizzazione di queste unioni si rende quindi necessaria, anche se questa
nozione può sfuggire al diritto.
Non è previsto, infine, l’istituto dell’annullamento del matrimonio, logica
conseguenza del principio ispiratore della norma sul “matrimonio di fatto”.
Anche la procedura di divorzio subisce un’ulteriore semplificazione, poiché nel
caso in cui sia consenziente una sola parte è ora sufficiente un suo atto
dichiarativo presso l’ufficio dello stato civile (dispensando tale coniuge
dalla necessità di recarsi presso il tribunale). Il tribunale è chiamato in
causa solo in caso di disaccordo sugli alimenti (il cui pagamento è, comunque,
limitato ad un anno dopo lo scioglimento del matrimonio). Nel regolamentare,
invece, l’istituto della paternità, la legge elimina il concetto di
“responsabilità materiale collettiva” (prevista dal codice del ‘18) dei padri
putativi nei confronti del nascituro.
L’eliminazione della responsabilità collettiva di più uomini ha l’intento di
provvedere ad una migliore protezione del bambino, poiché l’esperienza sotto il
codice del ‘18 aveva dimostrato che laddove più padri putativi erano
congiuntamente responsabili del suo mantenimento materiale, nessuno di loro, in
realtà, si sentiva in obbligo. Al contrario, il nuovo dispositivo dà la facoltà
al tribunale, in situazioni di dubbio sull’accertamento della paternità, di
responsabilizzare materialmente il padre “presunto” con il reddito più alto. La
ricerca della paternità è estesa anche alle madri sposate.
Il diritto all’aborto è sempre possibile, e per far fronte al fenomeno
dilagante dei besprizorniki (i
fanciulli abbandonati) è ripristinato l’istituto dell’adozione. Il governo, nel
1923, prendendo atto della dimensione spaventosa che stava assumendo il
fenomeno dei bambini in stato di abbandono (7 milioni nel 1922, secondo le
statistiche ufficiali)[35],
decide di reintrodurre l’istituto dell’adozione (abolito dal codice del ‘18 con
la motivazione che era un espediente utilizzato dai kulaki per procacciarsi mano d’opera), ponendolo sotto il
controllo diretto dello stato e delle sue sezioni di educazione nazionale (otdely narodnogo obrazovanija).
«Né lo stato, né la società sono ancora oggi così forti ed organizzati da
potersi fare interamente carico dell’educazione dei minori e della cura di
tutti i bisognosi»[36].
Contemporaneamente, è varato un piano grandioso per il potenziamento e il
miglioramento degli istituti di cura e tutela statale. Sorgono, dalla seconda
metà degli anni Venti, numerosi collegi per l’infanzia di vario tipo, tra cui
le colonie di lavoro artigianale e agricolo. Sia per il codice del ‘18 che per
quello del ‘26, la tutela è posta sotto gli organi dello stato che può decidere
di affidare il minore a un tutore (o curatore) particolare. Lo stato, per mezzo
delle sue istituzioni di assistenza, si fa’ garante in prima persona della cura
e del mantenimento di milioni di bambini abbandonati o rimasti orfani (sirotki). I tutori, sulla base di una
disposizione del 1918, possono assegnare il loro cognome al bambino preso in
affidamento.
Il significato attribuito alla tutela, da parte del governo sovietico, appare
chiaramente in un testo di Gojchbarg del 1923:
La tutela, in mancanza dei genitori, non è che un’estensione, a dei casi
particolari, del potere abituale che la società già esercita in relazione alla
cura e al mantenimento delle persone bisognose. (...) L’organizzazione della
tutela deve giocare, al giorno d’oggi, un ruolo educativo esemplare. Essa deve
dimostrare ai genitori che l’educazione sociale dei fanciulli, dà risultati
migliori rispetto all’educazione privata, individuale, non scientifica ed
irrazionale che essi possono offrire ai loro figli; e che benché i genitori
siano pieni d’amore verso i figli, essi sono d’altro canto sprovvisti, poiché
non dispongono delle forze, dei mezzi, dei fondi e degli equipaggiamenti che
possiede invece la società organizzata; la tutela, da ultimo, deve far perdere
ai genitori l’abitudine dell’amore ristretto ed esclusivo[37].
Anche i figli, che crescono in famiglia, sono indirettamente sottoposti al
controllo statale. Entrambi i codici del ‘18 e del ‘26 obbligano i genitori non
solo a curare e mantenere i minori, ma anche a prepararli a un’attività sociale
utile e, in caso contrario, la legge li ammonisce sul rischio d’essere privati
dell’esercizio dei loro diritti parentali. Leggendo il commento di un giurista
dell’epoca, si può comprendere appieno il senso della legge:
Un intervento così profondo della nostra legge nella vita familiare, è troppo
prezioso (...), se si rammenta che i genitori sovente abbandonano i loro figli
ai capricci della sorte, li lasciano senza controllo per le strade, li
picchiano, li relegano ai lavori domestici (...), li riempiono di complimenti
inadeguati, gli impediscono di frequentare la scuola e sono d’ostacolo al loro
sviluppo culturale[38].
Sul fronte scolastico, alla fine del 1923, viene varato un nuovo schema di
organizzazione scolastica orientato verso la formazione di esperti qualificati,
muniti di una visione marxista e classista del mondo. E’ definitivamente
infranta la resistenza di alcuni insegnanti alla politicizzazione della scuola.
“Noi diciamo, dichiara Lenin, che il nostro compito, in campo scolastico, è
anche quello di combattere per il rovesciamento della borghesia; dichiariamo
apertamente che la scuola sganciata dalla vita, sganciata dalla politica, è una
menzogna”[39].
Dicela Piccola enciclopedia sovietica:
«In Urss, per la prima volta nella sua storia, la scuola si propone come uno
dei suoi compiti politici la lotta contro la religione e diventa una scuola
antireligiosa»[40].
Ultimo provvedimento del codice di famiglia del ‘26, è la reintroduzione della
proprietà coniugale comune riconosciuta anche per i matrimoni “di fatto”. Se il
codice del ‘18 ha come suo fondamento l’eliminazione di ogni elemento
coercitivo nei confronti della famiglia, il codice del ‘26 tenta di risolvere
problemi immediati e, in particolare, di tutelare meglio gli interessi delle
donne e dei bambini sotto la Nep. Con questo spirito, è reso legale il
matrimonio non registrato(precedentemente, la vita in comune con un marito de facto non dava alla donna nessun
diritto sulla proprietà coniugale, sugli alimenti in caso d’inabilità al lavoro
o di disoccupazione) e reintrodotta la proprietà coniugale comune. In quel
periodo, molte donne sono prive di qualsiasi specializzazione lavorativa, non
possono facilmente inserirsi nella produzione sociale e in più, nelle relazioni
economiche, non godono degli stessi diritti degli uomini. Molte famiglie, a
quell’epoca, vivono in coabitazione e la rottura di relazioni spesso pesa sulle
donne. Con il ripristino della proprietà coniugale comune si vogliono tutelare
quelle donne che, in caso di divorzio, non otterrebbero alcun beneficio
economico.
Nel racconto “Sorelle”, pubblicato nel 1923 sulla rivista Kommunistka, la Kollontaj cerca
d’affrontare alcuni gravi problemi emersi proprio negli anni della Nep, come la
prostituzione, la disoccupazione, la dipendenza economica della donna
dall’uomo. La Kollontaj appare consapevole della necessità d’avanzare proposte
concrete per affrontare le difficoltà del periodo di transizione, durante cui
la posizione delle donne si è deteriorata anche perché il governo non è in
grado, in quel momento, di finanziare l’apertura di nidi e strutture analoghe.
Ovviamente, entrambi i codici del ‘18 e del ‘26 non possono cambiare da un
momento all’altro la mentalità arcaica di un paese in cui la servitù è abolita
solo nel 1861. Le masse contadine, che costituiscono la maggioranza, non sono
pronte ad accettare da un giorno all’altro dei cambiamenti tanto radicali.
Numerosi sono ancora i matrimoni religiosi (il 75% dei matrimoni, nelle
campagne, è ancora celebrato in chiesa)[41],
e nei villaggi ci si schiera contro i matrimoni non registrati. Negli anni che
precedono la stesura definitiva del codice di famiglia del ‘26, vengono
organizzate all’uopo delle assemblee nelle fabbriche in città, e nelle fattorie
in campagna. L’Izvestija nota con
soddisfazione che in Ucraina si sono svolte più di 300 assemblee[42],
e Kurskij ne conta più di 6.000 nella Repubblica russa[43].
Il punto più contestato, e dove si concentrano tutte le critiche al progetto di
famiglia nel corso di queste assemblee, è proprio quello relativo
all’equiparazione del matrimonio “di fatto” a quello legale. Per alcuni, lo
stato, rinunciando definitivamente alle norme sul matrimonio, lascia campo
libero ai matrimoni religiosi (assimilabili alle unioni di fatto), e dà
indirettamente esistenza giuridica alla poligamia presso le popolazioni
musulmane. Per altri, il paese, non è ancora in grado di far fronte al
disordine dei rapporti personali, e il riconoscimento del matrimonio de facto compromette la già fragile
coesione del sistema familiare. Per altri ancora, quasi tutti dirigenti
contadini, ciò significa la distruzione della famiglia allargata e dei suoi
valori tradizionali. Con lo scopo di mediare le diverse posizioni, qualcuno
azzarda delle idee stravaganti, come quella di mantenere obbligatoria la registrazione
del matrimonio nelle campagne e di sopprimerla nelle città, riproponendo in
questo modo l’antica situazione assurda e discriminante che tendeva a relegare
i contadini ai margini del diritto. «Il nuovo codice di famiglia è conveniente
in città, ma non in campagna», afferma il deputato Stoljarov[44].
In linea con quest’affermazione, altri deputati, attenti alla realtà della
schiacciante prevalenza delle campagne rispetto alle città nella Russia
post-rivoluzionaria, sostengono che «la famiglia deve sopravvivere e trovare
una base reale soltanto nei villaggi, dove è ancora un collettivo di lavoro. Al
contrario, in città, il nucleo familiare, come dimostrano i fatti, sta andando
letteralmente a pezzi; la libertà totale nei rapporti familiari e sessuali è
destinata ad estendersi sempre più, laddove è presente la moderna cultura della
grande città»[45].
Nel contesto degli anni Venti, la gente contadina ripiega ancora sulla famiglia
e il villaggio godendo di una pace relativa, e teme qualsiasi aggressione da
parte dello stato o qualsiasi spaccatura che possa verificarsi entro la proprietà
indivisa familiare. In contrasto con la struttura familiare patriarcale, la
nuova legislazione sovietica garantisce alle contadine il diritto di divorziare
e di ricevere gli alimenti per i figli, ma questi diritti entrano in conflitto
con il dvor[46],
poiché tutti i componenti della casa contadina lavorano la terra in comunità,
costituendo un’unica economia indivisa. Gli alimenti costringono il componente,
obbligato a versare l’alimonia, a utilizzare le risorse economiche dell’intera
famiglia allargata, andando a turbare un equilibrio secolare. Spesso, i
contadini poveri chiedono di prendere con sé il bambino “illegittimo” per
evitare di versare alla madre la quota eccessiva dell’assegno alimentare
necessaria al suo mantenimento.
Nelle condizioni economiche di allora, prossime ad un’economia naturale, questa
nuova imposta è vissuta nelle campagne come una vera catastrofe. In uno studio
effettuato nel 1928, il prof. Poznyšev si allarma per la dimensione abnorme che
sta assumendo il fenomeno degli infanticidi e degli omicidi compiuti nei
confronti di alcune donne. In tutti i casi di omicidi di donne e bambini da lui
seguiti, il movente più spesso segnalato dagli uomini è la minaccia di dover
pagare l’assegno alimentare che, per costoro, appare come un’ingiustizia
intollerabile[47].
La Kollontaj, che durante le discussioni sul progetto di famiglia si trova a
Mosca, propone di abolire non solo la registrazione dei matrimoni, ma anche i
sussidi alimentari, e di creare un unico fondo di assicurazione finanziaria,
attraverso una sorta d’imposta, con il fine di tutelare le persone bisognose (o
disoccupate), i bambini abbandonati, gli orfani, etc[48].
In realtà, la sua proposta solleverà lo scetticismo generale e non verrà
accolta dai redattori del codice del ‘26. Per Beatrice Brodsky Farnsworth, la
proposta suggerita dalla Kollontaj, a proposito di quel fondo di assicurazione,
non solo è irrealizzabile, ma anche pretestuosa, poiché chiede a una popolazione
quasi miserabile di pagare una tassa sugli assegni alimentari e, nello stesso
tempo, incoraggia i divorzi e l’abbandono di minori, fenomeno quest’ultimo già
in piena espansione[49].
In quegli anni (1925 e 1926), le azioni giudiziarie promosse per ottenere gli
assegni alimentari crescono parallelamente all’aumento del numero dei divorzi e
raggiungono, sulla base delle fonti ufficiali, la considerevole cifra di
200.000 azioni nella sola Repubblica russa, vale a dire il 10-20% (in media)
degli affari trattati dai giudici civilisti[50].
In base all’opinione di alcuni compagni dirigenti (un gruppo minoritario), la
politica in campo matrimoniale e familiare degli anni della Nep non intende
fermarsi - come fino ad ora affermato - esclusivamente all’analisi e alla
risoluzione di fatti concreti. Per costoro, il codice del ‘26 contiene una
duplice preoccupazione: rispettare il progetto socialista di edificazione di un
mondo nuovo cercando, nello stesso tempo, di farlo coesistere il più possibile
con la realtà. Se da una parte sono assunte parecchie disposizioni di legge con
lo scopo di fronteggiare la situazione nel paese, dall’altra il codice si sta
pur muovendo in direzione del deperimento finale del diritto in materia
matrimoniale e familiare. Il legislatore, nel corso del tempo, abbandonerà la regolamentazione
dei rapporti matrimoniali e familiari. La famiglia si libererà dai lacci giuridici.
Nelle discussioni in seno al movimento rivoluzionario si manifesta, ancora per
tutti gli anni Venti, una tendenza radicale, le cui rivendicazioni fondamentali
sono, come abbiamo già visto, la dissoluzione della famiglia e la totale
liberazione sessuale e dei costumi. In effetti, migliaia sono i giovani che
scrivono alla Komsomolskaja Pravda,
ponendo problemi morali e di costume. Il dibattito, la tensione intellettuale e
morale nell’opera di rinnovamento del costume sono tali che nel 1925 il partito
si pone il problema dell’elaborazione di un Codice
generale dell’etica comunista, la cui idea tuttavia rimane senza
esiti positivi.
La discussione sull’amore, che trova il suo momento più intenso nelle polemiche
attorno al saggio della Kollontaj sull’Eros
alato[51],
costituirà un punto di riferimento importante nella vicenda dell’emancipazione
tra i sessi e del costume all’indomani dell’Ottobre. Prova ne sono le numerose
reazioni, da parte di pedagogisti e uomini politici, che l’Eros alato
susciterà. Ad aprire le “ostilità”, contro la teoria del “libertinaggio
sessuale” suggerita nel saggio in questione, sarà la compagna Vinogradskaja,
con l’articolo “I problemi della morale, del sesso, della vita di ogni giorno e
la compagna Kollontaj”, comparso nel novembre del 1923 sulla rivista Krasnaja nov’, nel quale essa sostiene che
il problema dell’amore non ha nella vita di tutti i giorni nemmeno la decima
parte del ruolo che la Kollontaj gli attribuisce, e che il fatto di mettere
così in rilievo quel problema è un grosso errore politico:
La crescita dell’interesse verso i problemi del sesso e dell’amore in un
periodo in cui continua la lotta di classe è una testimonianza del
rafforzamento delle tendenze reazionarie borghesi a scapito di quelle
proletarie e di uno spostamento ideologico dalla classe rivoluzionaria ai suoi
nemici[52].
Questo tipo di critiche è condiviso anche dal noto pedagogo A. Zalkind:
Attualmente il collettivismo viene messo in disparte, mentre l’amore ingrassa.
Ho molta paura che col culto dell’Eros alato avremo cattivi risultati nella
costruzione degli aerei[53].
La discussione si sviluppa accesa fino agli anni ’27 e ’28, e vedrà
l’intervento di alcuni grossi nomi della pedagogia e della letteratura
sovietica. In realtà, anche la corrente definita “puritana” non intende
contestare in assoluto il diritto di occuparsi dei problemi dell’amore, ma
sostiene che in un momento in cui tra i giovani è appena in embrione la nuova
morale rivoluzionaria, proclamare la totale libertà nei rapporti amorosi può
favorire l’affermarsi di costumi “libertini e cinici”. Nel 1926, si svolge a
Leningrado uno dei più famosi processi penali degli anni Venti. Sul banco degli
imputati figurano 15 giovani operai colpevoli di aver violentato una ragazza
nel vicolo Čubarovskij. Durante il processo, essi saranno più volte
rimproverati di “tenere in spregio la nuova morale sovietica”[54].
La nostra gioventù, osserva Lenin, “si è scatenata con questa teoria del
bicchiere d’acqua”[55].
Jonov, in un articolo sulla Pravda,
apparso nel dicembre del 1926, scriverà:
Non abbiamo nessun complesso nei confronti della fisiologia. Non la
consideriamo affatto vergognosa. Tuttavia, ricordiamo che il comunismo, oltre a
molte altre cose, significa l’instaurazione di rapporti realmente umani tra le
persone, e quindi anche tra maschio e femmina.
Le teorie del libero amore e del sesso facile si diffondono, tra l’altro, in un
momento in cui la famiglia ha riportato pesanti ferite nel corso di anni
ininterrotti di guerre. Secondo il censimento del 1897, in Russia gli uomini
sono il 49,7% e le donne il 50,3%, un rapporto piuttosto equilibrato. Secondo
il censimento del 1926, invece, la popolazione russa conta già 5 milioni di
uomini in meno rispetto alle donne[56].
L’era di Stalin (il decreto legge del 1936 e
l’editto di famiglia del 1944)
Le norme del codice del ’26 resistono immutate dieci anni. Poi, nel 1936 e nel
1944, intervengono due leggi a modificare alla radice i punti chiave della
normativa familiare. Ci vorrà il XX Congresso, con la ripresa dell’elaborazione
e del dibattito sui temi della condizione femminile e della famiglia, per
creare le condizioni di nuovi mutamenti. Sono gli avvenimenti, le contraddizioni
drammatiche della società che cresce e si trasforma a fornire la spinta
decisiva alla revisione della legislazione in direzione del rafforzamento
dell’istituto familiare e della stabilità sociale.
Con la legge di famiglia entrata in vigore nel 1936[57],
la libertà di aborto è abolita. Fanno eccezione i casi in cui l’interruzione
della gravidanza è “resa necessaria dalla salvaguardia della salute della
donna”. La legge giustifica con argomenti concreti il ritorno alla punibilità
dell’aborto. Essa sostiene che il migliorato livello di vita raggiunto dai
lavoratori consente oggi l’onere dell’allevamento dei figli. Aggiunge poi che
le disposizioni emanate in favore delle donne incinte e dei bambini (case di maternità,
istituti per l’infanzia, sussidi alle famiglie numerose) rendono del tutto
ingiustificabile il rifiuto della maternità[58].
In realtà, l’introduzione del divieto di aborto risponde innanzitutto alla
preoccupazione del governo di fronte al numero crescente degli aborti (a Mosca
3 per ogni nascita nel 1934)[59]
e al calo costante del tasso di natalità (1896-97: 7,06; 1926-27: 5,37;
1934-35: 4,40)[60].
Viene apportata qualche restrizione alla procedura di divorzio (i due coniugi
devono obbligatoriamente presentarsi agli uffici dello stato civile) e
aumentano le somme da pagare per le pratiche[61],
ma esso resta pur sempre libero. In caso di separazione, il mancato pagamento
dell’assegno alimentare a favore dei figli può comportare anche la detenzione[62].
A metà degli anni Trenta, i divorzi superano il 40% dei matrimoni registrati, ponendo
gravissimi problemi alla società: mantenimento dei figli, disordine sociale,
insufficienza di abitazioni[63].
Nel 1935, Krylenko, commissario del popolo alla Giustizia, rivelerà che nel
1933, nella sola Repubblica russa, i tribunali avevano esaminato 142.000 casi
di rifiuto, da parte dei genitori, del pagamento degli alimenti ai figli.
L’anno dopo, i casi erano saliti a circa 200.000[64].
Gli anni Trenta conoscono un’immensa emigrazione contadina verso le città. Dal
1926 al 1939, la popolazione urbana aumenta di 30 milioni, 25 dei quali sono
contadini che lasciano il villaggio per andare a lavorare nelle fabbriche[65].
La meccanizzazione dell’agricoltura, durante la collettivizzazione, oltre a
raddoppiare la produzione, lascia liberi milioni di lavoratori per l’industria.
La realizzazione del primo piano quinquennale è resa possibile proprio dallo
spostamento d’intere popolazioni dalle campagne alle città[66],
anche se la crescita veloce e abnorme dei centri industriali, dovuta all’alta
mobilità sociale, porta inizialmente a una nuova crescita (dopo quella, già
notevole, degli anni Venti) del numero dei divorzi, degli aborti e a una forte
diminuzione della natalità. Nei villaggi, la sostituzione, con la
collettivizzazione, del piccolo podere personale con la grande unità agricola,
smantella quasi definitivamente il vecchio dominio patriarcale della famiglia.
Nel campo dei rapporti tra i sessi, all’emancipazione femminile, con l’accesso
di milioni di donne al lavoro e allo studio (che pone le basi per la
parificazione reale tra i due sessi) non corrisponde quell’emancipazione della
famiglia e dei sentimenti sessuali e amorosi reciproci prospettata nel corso
dei primi anni Venti. Anzi, il consolidamento su basi nuove della famiglia in
crisi viene sempre più visto come una garanzia contro i fenomeni di
disgregazione morale e sociale. La Pravda,
nel maggio del 1936, afferma che «la famiglia è la cosa più seria che esista
nella vita». La famiglia, spiega nel 1936 il suo “teorico” Wolfson, non
scompare con il socialismo, ma si consolida. Con queste parole si chiude anche
l’articolo della legge del ’36 riguardante il rapporto coniugale, e il cui
contenuto non sarà più smentito, per l’avvenire, dai legislatori sovietici.
Allo scopo di agevolare le madri che lavorano, nello svolgimento della loro
doppia funzione (lavoro domestico e di cura e lavoro produttivo sociale), lo
stato interviene con una serie d’iniziative nel campo dell’assistenza sociale e
familiare. Ancora alla fine degli Trenta, nonostante la tendenza ormai
indiscussa a valorizzare il ruolo della donna soprattutto come moglie e madre,
il tasso di presenza della forza lavoro femminile sul mercato del lavoro è
alta: 56% delle donne (nel dopoguerra la percentuale scenderà bruscamente al
46%)[67]. L’industrializzazione, avviata con il
primo piano quinquennale, aveva offerto alle donne lo strumento più importante
per la loro emancipazione. Afferma la giornalista americana Anna Louise Strong:
«Se la rivoluzione dà alla donna l’eguaglianza legale politica, a questa
l’industrializzazione su vasta scala fornisce la base economica
nell’eguaglianza del salario»[68].
Non solo, nella parte asiatica della Russia, la fabbrica costituirà uno
strumento applicato consapevolmente per spezzare la tradizione del velo: le
operaie in fabbrica devono togliere il velo[69]:
Nell’Inghilterra capitalista la fabbrica apparve come uno strumento di profitto
e di sfruttamento. Nell’Unione sovietica, essa non fu solo uno strumento di
ricchezza collettiva, ma un mezzo consapevolmente usato per spezzare vecchie
catene[70].
I provvedimenti successivi relativi al matrimonio e la famiglia sono pubblicati
sotto forma di editto l’8 luglio 1944. Innanzitutto, è confermato ed esteso,
nell’Unione sovietica distrutta dalla guerra, il piano per la costruzione
intensiva d’istituti per l’infanzia. Le immense perdite umane subite
dall’Unione sovietica, durante la guerra, spiegano l’accresciuto aiuto
materiale dello stato alle madri sposate e nubili. Quest’ultime, in
particolare, beneficiano di sussidi elevati secondo il numero di figli da
mantenere, ma sono d’altro canto private del diritto di ricerca della
paternità. Solo sposando la madre dei suoi figli, il padre può riconoscerli
legalmente. I celibi e le famiglie poco numerose sono soggetti al pagamento di
un’imposta progressiva.
L’evoluzione giuridica in materia matrimoniale e familiare, appena abbozzata
nel 1936, prosegue nel 1944: soltanto i matrimoni registrati beneficiano della
protezione della legge (le norme del 1926 sul valore giuridico del matrimonio
di fatto sono annullate); le madri di famiglie numerose ricevono vari titoli
onorifici e medaglie, ma la donna che abortisce rischia di essere perseguita
penalmente. I divorzi sono tutti soggetti a procedura giudiziaria. Le leggi
emanate nel ‘36 e nel ‘44 hanno come conseguenza l’aumento degli aborti
clandestini e il dimezzamento dei divorzi. I dati testimoniano che, mentre il
numero complessivo e percentuale dei divorzi non subisce un calo dopo le
modifiche legislative del 1936, una netta diminuzione si ha con l’editto del
’44. La media dei divorzi, che prima della guerra si era stabilizzata attorno a
1,1 per mille abitanti, risulta più che dimezzata nel 1950 (0,4 per mille
abitanti)[71].
La situazione nel paese è drammatica, non solo dal punto di vista economico, ma
anche da quello dell’organizzazione civile e del tessuto sociale. La guerra ha
tragicamente distrutto un terzo delle famiglie sovietiche. Contemporaneamente,
nascono nuovi legami, a volte effimeri, a volte duraturi e che non possono
avere riconoscimento legale:
Cos’è ancora la famiglia in mezzo a questa gigantesca tragedia collettiva? I
soldati trovano nuovi amori, o nuove compagne, nelle zone attraversate dal
fronte. Si crea una nuova espressione boevaja
padruga, amica di guerra, per definire i nuovi, a volte effimeri,
legami che s’intrecciano. Milioni di mariti non sanno nulla della sorte delle
mogli. Milioni di mogli ignorano se i mariti sono ancora vivi. E poi c’è il
senso generale di provvisorietà, l’incontro con la morte che per molti è
diventato fatto quotidiano, il desiderio di strappare alla vita, anche in mezzo
al buio della guerra, momenti di gioia e di affetto[72].
Le ragioni dei provvedimenti legislativi assunti nel ’44, in materia
matrimoniale e familiare, devono essere ricercate negli sconvolgimenti che
seguono alla guerra del 1941-1945: di fronte all’impressionante squilibrio
demografico venutosi a creare (31 milioni di maschi contro 52 milioni di
femmine, compresi nella fascia d’età 18-40 anni), Stalin sceglie la strada
della ricostruzione del nucleo familiare, non solo riconoscendo le famiglie
legali ma, vista la gravità della discrepanza numerica tra i sessi che si è
venuta a creare con la guerra e il bisogno di un incremento notevole dei tassi
di fertilità, legittimando anche la “maternità in stato di nubilato” (dato che
lo squilibrio demografico tra uomini e donne costituisce una spinta oggettiva
ai rapporti fuori del matrimonio).
La ferrea politica a favore dello sviluppo dei tassi di natalità, attraverso la
propaganda ed un sistema esasperato d’incentivazione, non appare fuori luogo in
quell’enorme continente diventato fortemente sottopopolato. Pur rifiutando il
neo-malthusianesimo come ideologia antimarxista, i dirigenti russi non esitano
a giudicare eccezionali le condizioni
storiche nelle quali il particolare incoraggiamento a formare famiglie di dieci
o più figli è considerato, da parte dello stato sovietico, necessario.
Prima del 1936, i principi d’uguaglianza dei diritti per entrambi i sessi e di
libero accesso delle donne a tutte le professioni sono notevolmente enfatizzati
dal governo. Stalin, in più di un’occasione interverrà a difesa del lavoro
femminile nell’economia socialista (soprattutto di quello delle donne contadine
che sono le più deboli), rilevandone carenze da colmare da un lato e successi
raggiunti dall’altro:
Abbiamo circa un milione di disoccupati, di cui quelli con un certo livello di
specializzazione costituiscono solo il 14,3%, mentre circa il 73% sono quelli
impegnati nel lavoro c.d. intellettuale e i lavoratori non specializzati;
l’ampia maggioranza di quest’ultimi sono donne e giovani non inseriti nella
produzione industriale (Rapporto politico di Stalin al Comitato centrale, in
occasione del 16° Congresso del partito nel 1930).
Fino a non poco tempo fa, un’attenzione insufficiente era posta al lavoro delle
donne contadine. Il periodo trascorso ha mostrato che il lavoro fra le donne
contadine è la parte più debole del nostro lavoro. Questo difetto deve ora
essere risolutamente eliminato, una volta per tutte (“Risposta ai compagni
kolchoziani” di Stalin, 1930).
Ora alcune parole sulle donne, le donne delle fattorie collettive. La questione
delle donne nelle fattorie collettive è un grosso problema, compagni. So che
molti di voi sottovalutano le donne e persino ridono di loro. Ma questo è un
errore, compagni, un serio errore. Il punto è che le donne non soltanto
costituiscono metà della popolazione, ma che nel movimento di crescita delle
fattorie collettive un numero sempre più alto di donne capaci e straordinarie
ha conquistato posizioni di guida. Guardate questo Congresso, i delegati
presenti, e voi potete prendere atto che le donne da tempo hanno cessato di
essere nelle retrovie e si sono, invece, accaparrate i primi posti. Le donne
che lavorano nelle fattorie collettive sono una grande forza. Tentare di
ostacolare questa grande forza è un crimine. E’ nostro dovere politico aiutare
le donne delle fattorie collettive ad andare avanti e fare uso di questa grande
forza (Commento di Stalin sul ruolo delle donne contadine nella produzione
agricola futura, al primo Congresso pansovietico delle brigate d’assalto dei
kolchozy tenutosi nel 1933)
Stalin identifica chiaramente l’uguaglianza sessuale come prodotto del sistema
socialista sovietico. Senza i kolchozy, ad esempio, non ci sarebbe stata alcuna
uguaglianza per le donne contadine:
Noi dobbiamo rilevare con soddisfazione e come indicatore di progresso della
cultura nei villaggi, l’attività sempre più in crescita delle donne impegnate
nelle fattorie collettive, nel lavoro sociale ed organizzativo. Sappiamo, ad
esempio, che circa 6.000 di esse sono direttori responsabili delle fattorie
collettive, più di 6.000 sono membri del consiglio direttivo delle fattorie
collettive, 28.000 sono leader di brigata, 100.000 sono organizzatrici di
squadra, 9.000 sono manager dei settori del bestiame commerciabile ed, infine,
7.000 sono trattoriste. (…) Le donne formano metà della popolazione del nostro
paese; esse costituiscono un immenso esercito di lavoratori e, nello stesso
tempo, sono coloro che crescono i nostri figli, la nostra futura generazione,
vale a dire il nostro futuro. Ecco perché non dobbiamo permettere in alcun modo
che questo immenso esercito di lavoratrici rimanga nell’ombra e nell’ignoranza!
Anzi dobbiamo accettare di buon grado l’attività sociale in aumento delle
lavoratrici e la loro promozione a posti di guida come un segno indiscusso
della crescita della nostra cultura (17° Congresso del Pcus, 1934).
I dati in possesso del Comitato centrale del partito dimostrano che nel corso
degli anni Trenta, il partito aveva promosso a posizioni di leader sia nello
stato sia nel partito più di 50.000 giovani (iscritti o simpatizzanti del
partito), di cui oltre il 20% erano donne (18° Congresso del Pcus, 1939).
La valorizzazione del lavoro femminile, con l’ingresso massiccio delle donne
sul mercato del lavoro, fornisce la principale spiegazione sia del successo dei
primi piani quinquennali, sia della mobilitazione della stragrande maggioranza
di uomini adulti durante la guerra.
Tuttavia, a partire dal 1936, le donne ottengono pieno riconoscimento anche se
non sono direttamente impegnate in attività produttive ma semplicemente
impegnate in qualche lavoro di tipo assistenziale, oppure ad allevare figli. Un
cambiamento che ha conseguenze rilevanti si verifica nel campo dell’istruzione.
La coeducazione dei due sessi, dalla scuola elementare sino all’università,
introdotta il 31 maggio 1918, era considerata come una condizione di partenza
indispensabile per la realizzazione della reale parità d’accesso alle professioni
per uomini e donne. Nel 1943, la coeducazione viene abolita (rimane solo nelle
università). Stalin motiverà l’abolizione della coeducazione per evitare
“qualsiasi copertura delle specifiche caratteristiche di genere della
popolazione a forte rilevanza sociale”:
Nella fase che è passata, lo stato sovietico ha pienamente e speditamente eliminato
dalle menti della gente ogni idea dell’ineguaglianza sociale dei sessi e ogni
espressione di quest’idea dalla vita quotidiana. Ora noi affrontiamo un nuovo e
non meno importante compito. Esso è, soprattutto, quello di rafforzare la
nostra primaria unità sociale, la famiglia socialista, sulla base del pieno sviluppo
delle caratteristiche maschili e femminili nel padre e nella madre, come capi
della famiglia con eguali diritti. L’istruzione nelle nostre scuole fu nel passato
coeducazionale allo scopo di superare, il più velocemente possibile, l’ineguaglianza
sociale dei sessi, radicata nei secoli. Ma ciò che noi dobbiamo ora costruire è
un sistema attraverso cui la scuola sviluppi ragazzi che saranno buoni padri ma
soprattutto combattenti per la patria socialista e ragazze che saranno madri
intelligenti idonee ad allevare le nuove generazioni[73].
Non c’è motivo di discutere una tale presa di posizione, dal momento che la
stessa dirigenza del partito aveva più volte affermato di avere bisogno a
qualsiasi costo - anche al prezzo di minare importanti conquiste sociali - di
rimpiazzare i quindici milioni di giovani uomini e donne che essa aveva perso
nel corso dell’ultima guerra, e di prendere precauzioni, almeno per un altro
periodo di trent’anni, contro la possibilità di una nuova invasione in nome dei
“diritti della razza superiore”, o di qualche altro slogan bellicoso. La
sicurezza contro una nuova aggressione, possibile con il recupero di tutto
quanto è andato perduto, costituisce l’obiettivo in assoluto prioritario del
governo sovietico.
Una volta che la donna è considerata soprattutto come madre e l’uomo come il breadwinner di una famiglia con prole
numerosa, è inevitabile che compito dell’istruzione sia quello di accrescere le
opportunità per il ragazzo di diventare un buon capo famiglia e che la sua
posizione economica, entro il nucleo familiare, debba essere la più forte.
Quando nel 1936 il Soviet abbandona la concezione che la funzione primaria
della donna è la produzione sociale e che la maternità è accessoria a quella
funzione, esso, di fatto, abbandona le basi su cui le donne russe avevano
costruito in passato la loro richiesta di uguaglianza dei diritti con gli
uomini. Del resto, lo stato sovietico non è in grado di remunerare la maternità
ad un livello tale che sia comparabile con i salari medi degli uomini. Per
questa ragione, il riconoscimento della maternità come naturale funzione della
maggioranza delle donne implica anche il riconoscimento di un certo grado di
reale ineguaglianza delle posizioni sociali dei partner nel vincolo
matrimoniale e familiare.
In Urss, dove tutti i salari provengono direttamente o indirettamente dal
portafoglio pubblico, l’affermazione dell’uguaglianza materiale avrebbe
comportato un’alterazione nella politica salariale statale: facendo, infatti,
dipendere il reddito familiare, in gran parte, non dalla quantità e qualità del
lavoro produttivo sociale, ma dalla dimensione di una famiglia, le finanze
dello stato avrebbero rischiato la bancarotta. Inoltre, in quel periodo, i
soldi pubblici sono prioritariamente devoluti a scopo di difesa.
L’editto di famiglia del 1944 tenta di risolvere questa discriminazione,
ponendo parzialmente le basi per l’affermazione dell’uguaglianza materiale.
Sulla base dei nuovi dispositivi di legge, i sussidi elargiti dallo stato alle
madri sposate raggiungono una somma sufficiente tale da metterle in condizione
di dedicare la loro vita esclusivamente alla crescita dei figli. Questi sussidi
crescono proporzionalmente alla quantità dei figli, e acquistano soprattutto un
peso economico rilevante a partire dalla nascita del sesto figlio[74].
Per una madre che decide di rimanere a casa ad allevare i propri figli, vi è
quindi un forte incentivo a moltiplicare le nascite. I sussidi corrisposti
dallo stato alle madri sposate cessano, tuttavia, al compimento del quinto anno
di età dei minori (art. 2 - codice di famiglia del 1944). Diverso è il
principio seguito nel dare sostegno ai figli di madri non sposate (art. 3 -
codice di famiglia del 1944), in base al quale il sussidio è elargito
attraverso una scala parametrale più favorevole[75]
e sino al compimento del dodicesimo anno di età del bambino. In sostanza, più
che fornire un adeguato aiuto materiale a prescindere dal numero di bambini
presenti in un nucleo familiare, il governo sovietico, proprio come incentivo a
partorire un numero elevato di figli, attiva un sistema di premio progressivo.
Per interpretare in modo corretto i cambiamenti che si hanno nella dirigenza
del partito sul tema della famiglia, nel corso del tempo, bisogna evitare l’errore
molto comune di confrontare gli atteggiamenti più radicali di alcuni compagni
dirigenti dei primi anni dopo la rivoluzione con quelli più moderati di altri
(Rjazanov, Krasikov, ecc.) degli anni Trenta e Quaranta.
La teoria sul libero amore della Kollontaj e quella di Preobraženskij con il
suo elogio al matrimonio de facto,
come ideale del futuro, non rappresentano certo la posizione ufficiale del
partito che, al contrario, come abbiamo visto, difende il riconoscimento delle
unioni non registrate esclusivamente per proteggere i diritti delle donne e dei
minori, e che inserisce nel preambolo del codice matrimoniale del ‘26 una
clausola tesa a valorizzare l’interesse sociale nei confronti dei matrimoni
legali.
D’altronde, il punto di vista prevalente nell’opinione pubblica, e che emerge
durante le discussioni del 1926 e 1936, è quello che si oppone al matrimonio de facto e che ammette agevolazioni per il
divorzio solo se questo è richiesto da entrambe le parti. Questo punto di vista
coinciderà con l’indirizzo assunto dal governo sovietico, con la legislazione
del 1936, benché la complicazione della procedura di divorzio, espressamente
voluta ed introdotta con la legislazione del 1944, andrà oltre tale punto di
vista. Anche l’introduzione del divieto d’aborto rispecchia la volontà
dell’opinione pubblica emersa durante le discussioni del 1936. Il paese, a
quell’epoca, è ormai completamente collettivizzato, e il problema della
stabilizzazione dei rapporti familiari è semplicemente quello della stabilizzazione
della nuova società e dell’incremento del tasso delle nascite.
Nella sua linea evolutiva, non v’è dubbio che la politica sovietica sulla
famiglia si manifesta come la storia del contrasto e della composizione di due
forze: quella “radicale” (i difensori della stabilità del matrimonio sono
ovviamente i difensori della proprietà privata dei mezzi di produzione e della
terra) e quella “conservatrice” (i difensori della scomparsa della famiglia
sono ovviamente i difensori del nichilismo, che non riconosce nessuna
tradizione, nessuna norma, nessuna autorità). Entrambe sono egualmente vive e
profonde nell’animo e nel pensiero dei russi.
Tuttavia, ridurre l’esame della politica familiare sovietica (dalla rivoluzione
sino al dopoguerra) ad una storia d’indirizzi, spesso contrastanti, significa
ignorare le condizioni nelle quali sono nate e si sono sviluppate le idee e gli
istituti posti a base della disciplina matrimoniale e familiare. Gli indirizzi
della politica familiare sovietica corrispondono, in realtà, alle tappe
fondamentali della vita politica dell’Urss: rivoluzione, comunismo di guerra,
Nep, collettivizzazione, piani quinquennali, ricostruzione postbellica.
Nel 1936, la libertà di divorzio è ancora riconosciuta dalla legge sovietica
come un diritto fondamentale. La nuova legislazione matrimoniale e familiare
varata in quello stesso anno non cancella questo diritto, pur apportando
qualche restrizione. Tuttavia, incomincia già a delinearsi, tra i giudici della
Corte superiore, un orientamento teso ad un’interpretazione restrittiva delle
norme. Se negli anni Venti, essi considerano qualsiasi faccenda trattata dai
tribunali ordinari, che ha a che fare con le origini di una disputa matrimoniale,
come qualcosa di addirittura alieno allo spirito della legge sovietica,
successivamente, in base a quanto disposto prima dalla legge del ’36 e poi
dagli articoli 23 e segg. della legge del 1944, i giudici della Corte superiore
riterranno tale faccenda una materia estremamente seria per i tribunali.
Quest’ultimi devono trovare qualsiasi espediente pur di rendere complicato il
divorzio, e possibilmente non concederlo nemmeno dopo che tutti i tentativi di
riconciliazione siano falliti o, dovendo assumere i necessari provvedimenti in
tema di alimenti o di sostegno economico, tenere conto del differente grado di
colpevolezza delle due parti. Secondo le valutazioni della giurista Ostruchova,
a Mosca il divorzio non viene concesso dai giudici nel 10% dei casi negli anni
del dopoguerra (la percentuale scende al 4% verso il 1956). In Ucraina, la
percentuale dei dinieghi da parte dei tribunali è più alta: 13-15% nel ’56, il
doppio dieci anni prima[76].
Nel 1949, la Corte superiore dell’Urss, riunita in sessione plenaria, metterà
in risalto il valore educativo delle sentenze e inviterà i tribunali a muoversi
con maggiore “senso di responsabilità”:
Le decisioni giudiziali nella causa di risoluzione del matrimonio - si legge
nel comunicato della Corte superiore - hanno grande rilevanza educativa e
sociale, debbono contribuire alla comprensione dell’importanza che nello Stato
sovietico hanno la famiglia e il matrimonio, e debbono concorrere ad educare il
popolo a rispettare la famiglia e il matrimonio basati sugli alti principi
della morale comunista e tutelati dalla legge sovietica[77].
Pure con il codice del 1918, il divorzio è materia di decisione giudiziaria in
caso di disaccordo tra i coniugi (non in quello del 1926, regolamentato solo in
via amministrativa). La ragione di questa scelta è che la casalinga, di regola,
non è in grado di guadagnarsi da vivere autonomamente dal marito e, dunque, le
deve essere garantito un sostegno anche dopo il divorzio fino a che diventa
autosufficiente (art. 130). Successivamente, l’art. 15 del codice del 1926
stabilisce che la donna deve diventare economicamente indipendente non più
tardi di un anno dal divorzio, dato che la liquidazione della disoccupazione,
durante la Nep, è ritenuta uno degli obiettivi prioritari. La richiesta
dell’ex-moglie (de jure e de facto) di ricevere un compenso per la
sua partecipazione al lavoro domestico e di cura viene soddisfatta, con il
codice del 1926, attraverso il possesso comune di tutta la proprietà acquisita
durante il matrimonio; l’art. 26(b) della legge del 1944 stabilisce, infine, le
regole con cui questo diritto va messo in pratica (ma solo per le donne
sposate).
Di conseguenza, ciò che negli anni Trenta e Quaranta è soprattutto salvaguardato,
attraverso l’imposizione di una procedura di divorzio più complicata, non è
tanto l’interesse personale dei coniugi, quanto piuttosto quello dei minori.
Con l’abolizione del riconoscimento legale del matrimonio de facto, ed anche della procedura
giudiziaria per l’accertamento della paternità, i principi della legge
matrimoniale sovietica cambiano sostanzialmente. Fino allora i rapporti tra
genitori e figli, così come quelli tra fratelli e sorelle, si erano basati sui
reali rapporti di sangue, essendo la registrazione una presunzione semplicemente
legale confutabile attraverso una prova di fatto. Con la legge del 1944 (sebbene
l’art. 25 del codice del 1926 non fosse stato abrogato), i rapporti legali di
famiglia non possono più esistere eccetto che sulla base di un matrimonio
registrato o di un naturale discendente di una madre non sposata.
La paternità fuori del vincolo matrimoniale non crea né diritti né obblighi,
sia per il padre che per i suoi figli. Il problema centrale che emerge a questo
riguardo, quello cioè del sostegno ai figli di madri nubili, viene risolto con
la legislazione del 1944 che accolla allo stato l’intera responsabilità. La
somma concessa alla madre nubile, nel caso in cui essa decida di rimanere a
casa per crescere i suoi figli, corrisponde all’alimonia che sotto la precedente
legislazione versava un padre con un reddito mensile di circa 400-450 rubli,
cioè quello che mediamente percepisce un lavoratore medio-specializzato in
campagna o un lavoratore semi-specializzato in città[78].
Sebbene la durata dell’aiuto statale sia limitata ai primi dodici anni di vita
del bambino, l’assegno fissato dallo stato è per quell’epoca certamente generoso.
La legge, tutelando in questo modo i figli nati fuori del matrimonio, cerca
inoltre di arginare la serrata polemica che in quegli anni emergerà circa il
ripristino della discriminazione tra figli legittimi e illegittimi.
Qualunque cosa lo stato possa dire sulla famiglia legale, intesa come cellula
base della società socialista e come luogo privilegiato della funzione di
riproduzione, esso non può certo permettersi nessuna discriminazione nei
confronti delle prolifiche madri nubili, definite “eroine della maternità
socialista”. La discrepanza numerica tra i sessi ostacola di fatto l’affermazione
del matrimonio come unico modello socialmente riconosciuto per la maternità. La
scomparsa di larga parte della popolazione maschile nel corso della guerra,
mette in difficoltà milioni di famiglie precipitandole a volte in una
situazione catastrofica. C’è ormai una nutritissima categoria di
vedove-capifamiglia e di ragazze madri.
Al termine della guerra, lo stato mantiene la concezione della famiglia, come
cellula base della società. Stalin è più che mai consapevole che una famiglia
solida possa facilitare parecchio il compito di ricostruzione del paese. La
società sovietica, con la sua profonda aspirazione alla quiete dopo tanti anni
di sacrifici, sta ormai consolidando la propria fisionomia. Se la prima
generazione postrivoluzionaria intendeva sottrarsi ai limiti ristretti del
“vecchio modello di vita”, teorizzando la sostituzione della forma di famiglia
patriarcale con il collettivo sociale, quanto resta delle generazioni degli
anni Venti e Trenta vagheggia, invece, il ritorno a un’esistenza familiare
stabile e serena, nell’ambito di una società socialista. Con il passare del
tempo, sarebbe inoltre scomparso lo squilibrio demografico tra uomini e donne,
e con essa la famiglia avrebbe trovato nuovi equilibri. Solo allora alcuni
dispositivi della legge del ’44 avrebbero potuto essere rivisti alla luce delle
nuove condizioni del paese.
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Note
[1] A.F. Bebel, La
donna e il socialismo, Palermo, R. Sandron, 1905; F. Engels, L’origine della
famiglia, della proprietà privata e dello stato, Roma, 1968.
[2] P. Biscaretti di Ruffia, G. Crespi Reghizzi, “L’evoluzione
costituzionale sovietica dal 1917 al 1977”, La costituzione sovietica del 1977
(Un sessantennio di evoluzione costituzionale in Urss), Milano, Giuffrè, 1979,
pp. 65-69.
[3]B.
Clements Evans, Daughters of Revolution: a History of Women in the Ussr,
Davidson, Inc., Arlington Heights, ILL, 1994.
[4]I primi due codici del ‘18 e
del ‘26 non sono pansovietici. Ogni Repubblica socialista federativa ha una propria
legislazione matrimoniale e familiare.
[5] E.H. Carr, Il socialismo in un solo paese, tomo I,
Einaudi, 1970, pp. 29-30.
[6] N. Bucharin, Trinadcatyj s’eszd Rossijskoj
kommunističeskoj partii bol’ševikov, Moskva, 1924, p. 545.
[7] Sbornik statej i materialov po bračnomu i semejnomu
pravu, (a cura di) D.I. Kurskij, Moskva, 1926, p. 47.
[8] D.I. Kurskij, Izbrannye stat’i i reči, 2 ediz.,
Moskva, 1958, p. 83.
[9] A.G. Gojchbarg, Bračnoe, semejnoe i
opekunskoe pravo sovetskoj respubliki, Moskva, 1920.
[10] N.K. Krupskaja. “L’educazione e la morale
comunista”, Educazione comunista, pp. 209-226, (Ogis, 1934, in russo).
[11] A. Kollontaj, Social’nye osnovy ženskogo voprosa,
Peterburg, 1909, p. 106.
[12]A.
Kollontaj, “Sem’ja i kommunizm”, Kommunistka, n. 2, 1920.
[13]A.S.
Makarenko, Il poema pedagogico, vol.1, ed. Riuniti, Roma, 1977, p. 15.
[14] Repubblica
Socialista Federativa Sovietica Russa.
[15] S.G. Strumilin, “Rabočij byt’ i
kommunizm”, Novyj mir, n. 7, 1960.
[16] A. Kollontaj, “Sem’ja i kommunizm”, cit.
[17]N.
Bucharin, Azbuka kommunizma, Moskva, 1928, p. 126.
[18]Ibidem.
[19] Ibidem.
[20] Citato in C. Fracassi, Il ciclone Natašia. De
Donato, Bari, 1975, p. 82.
[21] 1917. La rivoluzione al potere, (a cura di) Marc
Ferro, Firenze, 1988, p. 31.
[22] A. Goldmann, Gli anni ruggenti (1919-1929), Giunti,
Firenze, p. 90.
[23]R.
Schlesinger, The Family in the Ussr: Documents and Readings, London, 1949, p.
15.
[24]Citato in C. Fracassi, Il
ciclone Natašia, cit., p. 68.
[25] Ivi, pp. 69-70.
[26] In Social’nye issledovanija, n. 4, Moskva, 1970.
[27] V.I. Lenin, Polnoe sobranie sočinenij, 4 ediz.,
vol. XXVIII, Moskva, p. 160.
[28]Op. cit. in P. Chaplet, La famille en Russie soviétique, Paris, Giard,
1929.
[29]Secondo queste teorie, fra
tutti i fattori che caratterizzano la produzione mercantile e di conseguenza il
matrimonio monogamico, i più determinanti sono l’esistenza della proprietà
privata e il modo di trasmettere il patrimonio. Nella società borghese, la
famiglia esiste per via della necessità di conservare e di trasmettere i beni
di proprietà privata.
[30] A.M. Itkina, Revoljucioner,
tribun, diplomat, Moskva, 1970, p. 208.
[31] Il fenomeno dell’infanzia abbandonata (besprizornost’)
assume aspetti così tragici che il governo decide, dopo la carestia del 1921,
di organizzare una Commissione per il miglioramento della vita dei bambini, la
cui direzione è affidata al presidente della Čeka, Dzeržinskij. La cura
dei bambini viene trasferita nelle mani sicure degli organi di polizia.
[32] La storia della liberazione dei minori dal lavoro,
dopo la rivoluzione d’Ottobre è, in breve, questa: il decreto sulla giornata
lavorativa di 8 ore pubblicato il 30 ottobre prevede un’attiva difesa del
lavoro femminile e minorile. S’introduce la giornata lavorativa di 6 ore per i
giovani fra i 14 e i 18 anni, si vieta l’impiego dei minori di 14 anni e si
stabilisce che, a partire dal 1° gennaio 1918, questa limitazione è estesa ai
minori di 15 anni, a partire dal 1° gennaio 1920 ai minori di 16 anni. Sono,
inoltre, proibiti il lavoro notturno e i lavori straordinari o sotterranei per
le donne e i minori.
[33] Cfr. 1917. La rivoluzione al potere, (a cura di)
Marc Ferro, Firenze, 1988, p. 32.
[34] Il principio rivoluzionario del matrimonio de facto,
inserito nella legislazione russa, non trova tuttavia applicazione nei codici
di altre Repubbliche, come l’Ukraina, L’Uzbekistan, la Turkmenija e l’Azerbajdžan. Negli ultimi
tre casi, l’eliminazione della norma è motivata con la necessità di non dare
alcuna possibile scappatoia legale alla poligamia molto diffusa in quelle
Repubbliche a prevalente religione musulmana.
[35] Malaja sovetskaja enciklopedija, Moskva, 1930, vol.
I.
[36] Sbornik statej i materialov po bračnomu i semejnomu
pravu, cit.
[37] A.G. Gojchbarg, “O peresmotre semejnogo i bračnogo prava”, Eženedel’nik
sovetskoj justicij, n. 31, 1923, pp. 697-698.
[38] Vlast’ sovetov, n. 41, 1926,
p. 8.
[39] Cfr. Mihail
Geller, Aleksandr Nekrič, Storia dell’Urss, Bompiani,
1998, p. 192
[40] Malaja sovetskaja enciklopedija, cit., vol. X.
[41] Mihail Geller, Aleksandr Nekrič, Storia
dell’Urss, cit., p. 249.
[42] In Izvestija, 4 mag. 1926, p. 4.
[43] D.I. Kurskij, Izbrannye stat’i i reči, cit., p. 274.
[44] In Izvestija, 17 nov. 1926, p. 3.
[45] Molodaja Gvardija, 1926.
[46] Comune familiare rurale.
[47] S.V. Poznyšev, Prestupniki iz-za alimentov,
Moskva-Leningrad, 1928.
[48] A. Kollontaj, “Matrimonio e vita quotidiana”, Rabočij sud, n. 5,
1926.
[49] Beatrice Brodsky Farnsworth,
“Bolshevik alternative and the Soviet family. The 1926 marriage law and
debate”, in Dorothy Atkinson, Alexander Dallin, Gail Warshofsky (eds), Women in
Russia, Stanford, 1977, pp. 150-153.
[50] Le entità degli
assegni alimentari stabilite dal tribunale, per i bambini nati fuori del
matrimonio, sono le seguenti: 10 rubli il mese (per ogni bambino) su un salario
di 40 rubli; variazioni da 3 a 45 rubli (per ogni bambino) su un salario di 80
rubli, tenendo conto di quanti bambini il padre ha già da mantenere. Un
invalido è obbligato a versare 1/3 della sua pensione per un bambino nato fuori
del matrimonio (nel caso in cui ne abbia già due da mantenere nella sua
famiglia legale), e così pure un bracciante legalmente unito in matrimonio, con
a carico già quattro figli, deve versare 1/3 del suo salario per un bambino
nato da un rapporto extra-coniugale. Il tribunale è più clemente nei confronti
degli operai, applicando per loro il limite minimo sulla quota degli assegni
alimentari, che consiste del 20% del loro salario (quota da destinarsi al
bambino nato fuori del matrimonio), nel caso in cui abbiano già da mantenere
quattro figli o più.
[51] “Largo all’Eros alato” in Molodaja Gvardija, n. 23,
1923.
[52] Citato in C. Fracassi, Il ciclone Natašia, cit., p.
76.
[53] Ibidem.
[54] In Izvestija, 29 dic.
1926.
[55] M. Geller, A.
Nekrič, Storia dell’Urss, cit., p. 191
[56] Ibidem.
[57] Proprio con Stalin, una volta rivalutata la funzione
del diritto, nascono le prime leggi pansovietiche di famiglia (decreto legge
del ‘36 ed editto del ‘44).
[58] T. Napolitano, La famiglia sovietica. L’istituto
della famiglia nella storia e nel diritto dell’Urss, Roma, 1946, p. 40.
[59] N. Werth, Storia dell’Unione Sovietica, il Mulino,
1993, p. 321.
[60] Demografičeskij
enciklopedičeskij slovar’, Moskva, 1985, p. 375.
[61] 50 rubli il primo divorzio, 150 rubli il secondo,
300 il terzo e i successivi.
[62] Gli assegni alimentari sono prelevati direttamente
dallo stipendio in questa proporzione: un quarto del salario per un figlio, un
terzo per due figli, la metà per tre o più figli.
[63] C. Fracassi, Il ciclone Natašia, cit., p. 84.
[64] Ivi, p. 85.
[65] N. Werth, Storia dell’Unione Sovietica, cit., p.
310.
[66] A.L. Strong, L’era di Stalin, Edizioni Rapporti
Sociali, 1997, pp. 48-49.
[67] R. di Leo, Occupazione e salari nell’Urss 1950-1977,
Etas Libri, 1980, p. 21.
[68] A.L. Strong, L’era di Stalin, cit., p. 74.
[69] Ivi, p. 77.
[70] Ivi, p. 78.
[71] C. Fracassi, Il ciclone Natašia, cit., p. 88.
[72] C. Fracassi, Il ciclone Natašia, cit., p. 90.
[73] Citato in M. Tsuzmer, Soviet
War News, n. 6, nov. 1943, p. 8.
[74] I sussidi dello
stato alle madri sposate con figli, sono i seguenti: nessun compenso per due
figli; 80 rubli il mese per tre figli; 120 rubli per quattro figli; 140 rubli
per cinque figli; 200 rubli per sei/sette figli; 250 rubli per otto/nove figli;
300 rubli per dieci o più figli.
[75] I sussidi dello stato alle madri non sposate con
figli, sono i seguenti: 100 rubli il mese per un figlio; 150 rubli per due
figli; 200 rubli per tre o più figli.
[76] In Socialističeskaja
zakonnost’, n.12, 1957.
[77] Cfr. C. Fracassi, Il ciclone Natašia, cit., p. 89.
[78] R. Schlesinger, The Family
in the Ussr: Documents and Readings, cit., p. 401.
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